Caro Diario, siamo ad Agosto, pare che non ci sia mai stato così tanto caldo e di certo non viene facile raccontare storie, però qualche giorno fa è successa una cosa che ne ha messe in moto altre e insomma ho pensato di condividerla con te.
Come dici amico mio? Se comincio da cosa è successo magari capisci meglio?
Hai ragione, rimedio subito: è successo che è morta nonna Gina, che anche se non era mia nonna ma la nonna dei miei figli, e naturalmente delle mie nipoti e dei miei nipoti, e anche di un bel po’ delle loro amiche e dei loro amici, è stata una persona a cui ho voluto bene assai. E poi è successo che quando sono arrivato a casa sua per l’ultimo saluto mi sono ritrovato per qualche minuto da solo con lei e mi sono messo a pensare a un po’ delle cose che abbiamo condiviso. Dai, lo sai come funziona, quando con la persona che se ne va hai avuto un rapporto vero la cassetta dei ricordi non la chiudi mai del tutto, nel senso che il tempo passa e ogni tanto ti viene in mente una cosa, e ti piace raccontarla, proprio come mi succede con Gaetano, con mamma e con papà, che poi non te l’ho ancora detto ma nonna Gina è stata l’ultima persona che ho potuto chiamare mamma, che per fortuna nella vita insieme alle cose che cambiano ci sono quelle che invece no. Tornando al punto, è successo che erano passati pochi secondi da quando ero lì con lei e mi sono ritrovato a pensare al suo lavoro ben fatto.
Come dici caro Diario? Se non ci sto attento questa faccenda del lavoro ben fatto rischia di diventare un’ossessione? No no, non ti preoccupare, non penso di salvare il mondo, talvolta spero di contribuire a cambiarlo, ma è molto diverso, credimi. Tornando a nonna Gina, ecco quattro delle cose che ho pensato, che a dirle tutte non ci riesco, te le racconto così come mi sono passate per la testa, senza alcun criterio oggettivo.
Per prima cosa ho pensato al giardino, che quello sarà davvero dura tenerlo più bello di come lo teneva lei e curarlo con più amore di come lo curava lei, compresa la pianta di uva fragola bianca nata dall’innesto che le avevo portato da casa dei miei genitori, a Cellole. Il giardino è stato il suo rifugio, il suo amico, la sua pace, il suo ultimo avamposto nella vita terrena, che lei è stata una sincera credente e la possibilità che ci sia un’eternità da vivere da qualche parte se la merita tutta.
La seconda cosa a cui ho pensato è la famiglia, che anche lì alla voce nonna Gina c’è un sacco di lavoro ben fatto, che un marito, sei figli, la mamma, i generi e i nipoti, ciascuna/o con il suo bel caratterino, non sono mica facili da gestire. Ora bisogna dire che a proposito di caratterino nonna Gina non prendeva punti da nessuno, che lei insieme alla versione dolce, discreta, rispettosa dell’altro aveva anche quella decisa, tosta, da madre padrona, e sulle cose che per lei contavano davvero o si faceva come diceva lei o si faceva come diceva lei, proprio come mio padre, che non a caso si sono acchiappati sin dalla prima volta che si sono visti. Detto del suo carattere, bisogna aggiungere che la vita non le ha risparmiato niente, compresa la più disumana delle prove, la perdita del figlio Alberto, che quella volta che parlavamo di lui in cucina e di colpo mi abbracciò e prese a piangere per la commozione – lei così pudica nei propri sentimenti – non la dimenticherò neanche se vivessi cento anni.
Una vita da mediano la sua, con qualche passaggio sbagliato per testardaggine, tanti palloni recuperati e tanto amore dato, che alla fine ti metto la foto e le righe che ha postato sui social Irene, una delle nostre adorabili nipoti, e ti rendi conto da solo che non sto esagerando.
La terza cosa che ho pensato è, sono, le case di famiglia al Petraio, che quello era il suo regno, la sua possibilità di sentirsi realizzata, almeno nella misura in cui il carattere e le circostanze della vita consentono a ciascuno di noi. Ti garantisco amico mio che non ho mai visto una persona più innamorata di lei delle «sue» case, sempre lì a fare lavori, a farle più belle, sempre nel rispetto delle regole, sempre pagando puntualmente chi le faceva i lavori, non di rado pagando più del dovuto, che come sai tutto questo non è ancora normale nella nostra bella Italia. Guarda, ci stanno due cose che dicono un mondo a proposito del rapporto tra nonna Gina e le case: la prima la ripeteva spesso mio padre, che ogni volta che veniva a trovarmi e passava a salutarla prima le chiedeva «come state?» e poi aggiungeva «voi fin quando avrete tra i piedi i muratori e la sfravecatura (calce, polvere di cemento, pezzi di muratura, ecc.) starete sempre bene»; la seconda riguarda l’amore con cui, a ottanta anni suonati, ha pensato il Bed e Breakfast, che poi con l’aiuto della famiglia è diventato Il Petraio Segreto, le attenzioni che le piaceva riservare agli ospiti, con la visita sul terrazzo per ammirare il panorama dal Vesuvio a Sorrento a Capo Posillipo e Capri in mezzo e Castel Sant’Elmo alle spalle. E non ti dico della migliore marmellata e della migliore torta fatte in casa che tu a volte ti arrabbiavi pure perché non te la faceva assaggiare dato che le aveva fatte per i suoi ospiti.
Infine ho pensato al modo accurato in cui scriveva, con la sua calligrafia precisa e rotonda, insoma bella da vedere oltre che da leggere, e da lì sono finito a quella volta che l’avevo convinta a raccontare due storie per i giovani lettori di un blog e lei aveva scritto della guerra, la seconda delle guerre che hanno dilaniato il mondo nel secolo breve. Sì, amico mio, aveva raccontato le storie che troppo spesso non ci piace ricordare, perché alla fine siamo un po’ come la moglie, i figli e gli amici di Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria, non ci piace sentire le storie tristi, e non ci rendiamo conto che ogni volta che ci perdiamo un pezzo di memoria ci perdiamo un pezzo di futuro. Secondo me valeva allora e vale anche oggi, se non comprendi non puoi porre rimedio, ma insomma magari di questo ne parliamo un’altra volta perché adesso voglio dirti della delicatezza con la quale nonna Gina aveva raccontato le sue storie di guerra, una delicatezza che mi colpì molto, e con me i lettori del blog, e insomma avevo pensato di riassumertele qui e invece no, le puoi leggere alla fine del mio racconto, con calma, quando hai voglia e tempo, però non ti dimenticare di farlo perché sono belle assai, la prima è intitolata Di bombe, di balli e di biciclette e la seconda 28 Marzo 1943.
Ecco amico mio, sono queste un po’ delle cose che ho pensato e mi ha fatto piacere raccontarti per ricordare Nonna Gina, che poi magari me ne vengono in mente altre e le aggiungo, e magari altre ancora me le racconteranno figlie, figli e nipoti; per adesso ti lascio con la foto e le righe che le ha dedicato Irene, perché io non saprei fare di meglio e di fare peggio non mi pare proprio il caso.
«Nonna, vorrei dirti tante cose ma se guardo questa foto, la nostra ultima foto insieme, così felice, sento che non c’è bisogno di dirti nulla di più. Poterti accompagnare fino all’ultimo battito del tuo cuore è stato doloroso, ma anche dolce, e giusto. Mi hai vista nascere e io ti ho vista andar via, ed è così che doveva essere. Grazie nonna, per tutto. Soprattutto per quell’ultima carezza, per avermi aspettata. Ci vedremo, ogni volta, nel tuo bellissimo giardino.»
29 Agosto 2017
Caro Diario, nonna Gina qualche giorno fa è arrivata al cimitero della sua amata Casperia accompagnata da un bel po’ di bella gente che le ha voluto bene ed è stata sepolta come da suo desiderio accanto al figlio Alberto.
Mentre Emma, una delle figlie di nonna Gina, mi raccontava un po’ dei bei momenti che io mi sono perso, mi è tornata alla mente la bellissima poesia che le amiche milanesi di Alberto avevano scritto per lui, che lui di mestiere faceva il capostazione a Milano Rogoredo. Niente, ho pensato di farla leggere anche a te, che a me sembrava bellissima allora, nel luglio del 1993, quando a soli 39 anni Alberto se n’è andato, e sembra ancora più bellissima (lo so che non si può dire, ma lasciamela passare, dà il senso di quello che ti voglio dire) adesso. Eccola:
Troppo lieve è la tua scia,
ma sa di vento,
di mare, di malinconia,
di silenzio e di musiche lontane.
E noi che tristi ed affannati
vorremmo leggerne i segreti
la vediamo accarezzarci e scappar via sorridendo,
come uno scherzo buono.
Ciao amico Diario, ti lascio con le due bellissime storie raccontate da nonna Gina.
Di bombe, di balli e di biciclette
Quando avevamo la radio accesa e bruscamente venivano interrotte le trasmissioni, sapevamo che presto ci sarebbe stato un allarme aereo, e quando di lì a poco le sirene suonavano noi eravamo già pronti a lasciare la casa portando, cosa che in genere faceva mamma, una valigetta con “i gioielli”, le uniche ricchezze che ci sarebbero rimaste se una bomba avesse distrutto la nostra casa.
C’era un signore che abitava nel giardino accanto a noi e che riusciva a sapere con anticipo di qualche minuto, da una sua conoscenza, quando eravamo in preallarme.
Subito usciva di casa e avvisava tutti gridando: “Siamo pronti!”. Altre volte invece non si faceva in tempo a raggiungere il ricovero perché le sirene suonavano quando gli aerei nemici erano già sopra la città.
Quando questo accadeva ci rifugiavamo in cantina per ripararci non dalle bombe, ma dalle schegge e dai piccoli proiettili. Quante ore passate lì sotto sentendo l’inferno sopra di noi!
Sant’Elmo, a un tiro di schioppo da casa, era una base antiaerea e quindi si sentiva nettamente il crepitare delle mitragliatrici.
Un giorno al ricovero venne una ragazza che abitava poco lontano da noi: una bomba era caduta qualche giorno prima proprio sul ricovero del suo palazzo, uccidendo tutti i suoi familiari e le altre persone. Lei si era salvata perché era uscita qualche istante prima per andare a bere dell’acqua. Stranamente, non piangeva né si disperava; doveva ancora essere sotto shock per quanto le era accaduto.
A quel tempo avevo un hobby, andare a raccogliere sui terrazzi, dopo ogni incursione, le schegge dei proiettili, e segnare su un quaderno alla fine di ogni giorno il numero degli attacchi, la loro durata, i quartieri della città su cui erano cadute le bombe.
Di giorno la vita continuava come sempre: papà a fare la fila per prendere le nostre razioni di cibo quotidiane, mamma a badare alla casa, io a frequentare la scuola a Suor Orsola. Non mancavano le distrazioni. Con alcune compagne di scuola facemmo delle gite a Pompei e ai Camaldoli (sempre accompagnate da una mamma!). Altre volte ci si radunava, ora in casa dell’una, ora dell’altra, per fare qualche balletto. Nel giardino di casa nostra organizzammo anche una recita.
Quando le scuole si chiudevano, mamma mi accompagnava a Casperia, il suo paese natio in provincia di Rieti, che si andava popolando sempre più di sfollati. All’inizio della guerra era stata riaperta la miniera di lignite sotto Roccantica, il paese limitrofo, chiusa dopo il primo conflitto mondiale, che ora dava lavoro alle persone di Casperia e dei paesi vicini. La necessità fece diventare una moda gli zoccoletti di legno. A Casperia il bottaio li produceva in serie, e poi noi ragazze, con la stoffa o lo spago, realizzavamo la fascetta superiore.
Devo dire che gli anni più belli della mia gioventù sono stati proprio quelli vissuti a Casperia anche se c’era la guerra. C’erano tanti ragazzi sfollati con le famiglie, provenienti principalmente da Roma, e noi del gruppo “inseparabili” – Maria Teresa, Cici, Rosina, Raffaella, Mino ed io – avevamo fatto amicizia con molti di loro.
Facevamo passeggiate in bicicletta, gite in montagna e balletti che scandalizzavano l’allora parroco del paese, non perché facessimo chissà quali cose peccaminose, ma perché lui non approvava il fatto che, mentre c’erano migliaia di persone che morivano, noi potessimo pensare a ballare. Meno male invece che anche in quel frangente, nonostante la guerra, abbiamo conservato la nostra spensieratezza giovanile! La gioventù è volata via, e senza quella spensieratezza ora nei ricordi di quegli anni non avremmo che cose tristi.
Nonna Gina
28 Marzo 1943
Era il 28 marzo 1943, e sulla Caterina Costa, una delle navi da guerra ormeggiate nel porto di Napoli e protette dai palloni di sbarramento, scoppiò un grande incendio.
L’incendio durava da diverse ore e mentre un gran fumo nero si levava verso il cielo, si udivano le sirene di tutte le altre navi che segnalavano il pericolo.
Mamma ed io decidemmo, non ricordo se dovetti insistere molto per convincerla, di prendere la funicolare e andare a vedere lo “spettacolo” più da vicino.
Andammo a piazza Municipio, sui prati attorno al Maschio Angioino, e rimanemmo lì un po’ di tempo, assieme a tante altre persone, ad osservare l’andirivieni dei mezzi antincendio, finchè, visto che l’incendio non si riusciva a debellare, ce ne tornammo a casa.
Eravamo da poco rientrate, quando tutta la casa cominciò a tremare. Io mi trovavo nella mia camera e sembrava che tutto mi crollasse addosso. Pensammo subito ad un terremoto, e qualche istante dopo si udì un gran boato, la serratura della porta di casa schizzò via, si udivano rumori di vetri rotti e grida di persone che fuggivano.
Ci volle qualche istante per capire cosa realmente fosse accaduto, poiché tutto era avvenuto in pochi secondi. Pensammo anche ad un improvviso bombardamento ma papà capì subito che era stata la nave carica di munizioni a saltare per aria. Erano le 17.30.
Fu una strage. Le vittime maggiori si ebbero verso la stazione centrale, dove furono trovate persone decapitate dal solo spostamento dell’aria. Molte persone che erano sui treni in partenza trovarono la morte o furono ferite. In una lettera a suo fratello Giulio, che viveva a Milano, mio padre scrisse testualmente: “…per darti un’idea della potenza dello scoppio ti dico che parti della nave sono stati lanciati nel rione Vasto, parti al Ponte della Maddalena, parti a S. Agostino alla Zecca, mentre i proiettili erano sparsi un po’ dappertutto”.
E in termini di vite umane il bilancio fu davvero disastroso: 3000 persone tra morti e feriti.
Ricordo che le polemiche furono violente e che fu molto criticato il fatto di non aver fatto suonare le sirene di allarme, che forse avrebbero aiutato a salvare molte vite umane. Fu insomma un’altra bruttissima pagina di una orribile guerra che sembrava non avere mai fine.
Nonna Gina