Caterina, il teatro e il canto che ferma le guerre

Cara Irene, ti presento Caterina Pontrandolfo, ascolta il suo canto che poi inizia il racconto.

 
Allora, Caterina l’ho conosciuta qui a Caselle qualche giorno fa grazie ad Antonio Oriente, a Incipit Art e al progetto Miniera, che per la nostra comunità è stata una bella occasione per interagire con persone, idee e pratiche artistiche belle assai.
Caterina è stata, insieme a Jonida Xherri, l’interprete – protagonista di questo percorso, e al mio uósemo sono bastate poche parole per consigliarmi di non farmele scappare, e così ho fatto. Buona lettura.

Vincenzo: Buongiorno Caterina. Per cominciare mi piacerebbe sapere quale lavoro volevi fare da piccola.
Caterina: Buongiorno Vincenzo. Allora, io già da bambina sognavo diverse cose, sia di cantare che di diventare un’attrice. Devi sapere che già a quell’età organizzavo, soprattutto d’estate, quando stavo da mia nonna a Potenza, degli spettacoli veri e propri, creavo delle vere e proprie piccole messe in scena basate sul canto e sulla recitazione. Sì, era senza dubbio questo il mondo che mi affascinava. Amavo leggere, anche scrivere, e poi più grandicella pensavo, e andavo dicendo in giro, che avrei preso almento tre lauree in materie scientifiche. Avevo una passione per l’arte ma più in generale mi affascina tutto ciò che ha che fare con la conoscenza umana.

V.: Invece che lavoro fai da grande?
C.: Faccio il lavoro che sognavo da bambina.

V.: Sono contento. Adesso racconta un po’ di te, le cose che ami, quelle che invece non sopporti, cose così.
C.: Direi che sono una donna fieramente lucana che ama molto il mare. E chi crea con le mani.

V.: Il tuo colore preferito?
C.: Una particolare sfumatura di rosso, un rosso caldo, che va verso l’amaranto. Aggiungo che sulla gamma dei colori amo tutti i colori delle iconografie bizantine o anche della pittura medievale. E poi amo la voce umana che canta, ho un autentico trasporto per la voce umana che canta, anche per questo mi sono avvicinata ai reportori della tradizione orale.
Addirittura, forse in modo fin troppo radicale, quando ho iniziato a cantare questi repertori di tradizione orale facevo fatica a essere accompagnata. Tutt’ora mi capita, continuo a usare moltissimo la voce da sola. Naturalmente, amando la musica in tutte le sue declinazioni, canto anche con l’accompagnamento strumentale, però la voce umana che canta e si esprime la considero una dimensione straordinaria dell’essere umano. Penso che il canto nella storia umana abbia avuto un’importanza fondamnetale.

V.: Che bellezza! Invece, alla voce “cose che non sopporto”, cosa mi dici? Ne bastano anche solo un paio, quelle che vuoi.
C.: Scusami, qui ci debbo pensare un attimo, voglio focalizzare bene.
V.: Certo.
C.: Sui nostri difetti umani, ne abbiamo tanti, non mi soffermo. Alla fino il cammino dell’uomo, il cammino della donna, dovrebbe essere quello che man mano, nel corso della vita, uno possa arrivare alla fine dei suoi giorni che dice “guarda, ero questo e adesso sono migliorato in questo”, almeno così spero che sia il mio cammino.
Ciò detto, una cosa che sicuramente non sopporto è la violenza, in tutte le sue forme, la violenza a qualsiasi livello. Altre due cose che in questo momento storico mi feriscono, mi colpiscono tanto, sono il voler dimenticare e la chiusura dello spirito verso le forme più alte, come se ci dovessimo sempre accontentare di quello che è possibile. Sì, mi ferisce la mancanza del sogno, il fatto di non riuscire più a volare alto, ad andare oltre. Se vuoi anche il contatto con il divino, con la nostra dimensione più spirituale.

V.: Che lavoro fanno i tuoi genitori?
C.: Mio padre è un artigiano, carrozziere. Fino a due anni fa ancora lavorava nella sua carrozzeria, e ancora oggi ogni tanto ci si mette, nonostante sia del 1934. Come tutta un po’ la sua generazione all’età di 8 anni è entrato in officina, poi, quando negli anni ’50 si trasferì da Bari a Potenza insieme a mio nonno e a suo fratello maggiore avviarono una loro officina, nel Rione di Santa Maria, dove poi conobbe mia madre.
Come famiglia con il lavoro artigiano abbiamo sempre avuto a che fare, mio nonno era un ebanista e papà è diventato uno dei più bravi carrozzieri lucani, lo chiamavano martelluccio d’oro, è molto conosciuto. È stato veramente uno straordinario artigiano, ha formato decine e decine di carrozzieri di Potenza e della provincia, la sua officina è stata una vera e propria scuola di artigianato.
Mia madre invece è stata casalinga, madre di 5 figli, una donna  dolcissima che amava la semplicità. La cosa secondo me eccezionale è che, quando forse aveva già cinquant’anni, lei che aveva la quinta elementare grazie alla sua grandissima intelligenza e perspicacia è riuscita a diplomarsi, ha preso il diploma di Primo Soccorso ed è diventata Volontaria dell’Avo e per vent’anni ha fatto la volontaria assistendo gli ammalati, soprattutto anziani, dell’Ospedale San Carlo di Potenza. Assistere gli ammalati era una vera gioia per lei.

V.: Grande!, ma adesso torniamo a te. Oltre al tuo lavoro di una vita, hai fatto altre cose?
C.: Sì, dai 23 anni ai 31 – 32, più o meno, ho fatto tanti lavori. Ho fatto la cameriera, la baby sitter, ho lavorato in una falegnameria, ho fatto la venditrice, la commessa in una libreria, la segreteria d’azienda e forse anche altro che adesso non mi viene in mente. È stato durante il mio periodo milanese.

V.: Direi che “nel periodo milanese” rende benissimo l’idea. Per quanto riguarda invece tua attività artistica, sei contenta del tuo lavoro?
C.: Sì, lo adoro, mi piace moltissimo, anche perché me lo sono un po’ creato. Sì, ho creato un po’ il mio lavoro, perché è vero che sognavo di diventare attrice, cosa che ho fatto e che continuo anche a fare, però ho avuto la fortuna di seguire ciò che davvero mi piaceva …
V.: Il tuo daimon …
C.: Esatto, e in questo ritengo di essere davvero fortunata e spero di continuare così.

V.: Allora raccontacelo un po’ questo tuo lavoro.
C.: Raccolgo storie, le tramuto in teatro, raccolgo i canti, canto, entro in contatto con le comunità, soprattutto raccolgo le memorie delle donne, i canti delle donne e trasformo tutto questo in rappresentazione, in teatro, in racconto, e questo è quello che mi rende più felice.

V.: Sei stata mai contrastata in questo tuo percorso? Contrastata anche in senso buono, personalmente penso a mio padre che avrebbe voluto che diventassi un perito tecnico per lavorare nella stessa azienda dove lui era operaio.
C.: In un certo senso sì! Ad onor del vero da bambina, da ragazza, rispetto a questo desiderio di intraprendere una carriera artistica non sono stata molto aiutata. Non era tanto il posto fisso, nella mia famiglia non c’è mai stata questa cultura, diciamo che papà sognava per noi tutte/i delle bellissime carriere, e sognava soprattutto che l’officina diventasse una specie di Pininfarina. Il suo grande desiderio era che ognuno di noi raccogliesse un ramo per creare questa realtà.
Allo stesso tempo però siamo stati educati dai nostri genitori in un modo che ci ha messo le ali. Io stessa sono stata educata così, proprio da mio padre, nel senso che già da ragazza mi ha instradata verso una concezione orientata al sapere, all’arte, alla cultura.
Anche se era un carrozziere mio padre ha sempre amato la lettura, è un grande lettore, ricorda a memoria parti intere de La Gerusalemme liberata, de La Divina Commedia, e poi è un artista, non solo nel suo lavoro, ha un animo di artista, è un sognatore. E mia madre è per tanti aspetti lo stesso, una donna fuori dal comune, una grande sognatrice.
Posso dire dunque che avevamo tutti gli elementi che ci hanno aiutato a crescere, per quanto mi riguarda a diventare quella che sono. Devo molto a questo loro approccio …

V.: Però …
C.: Però te l’ho detto, mio padre a un certo punto sognava per me un’altro tipo di carriera, e così mi sono iscritta alla Bocconi, perché lui voleva che diventassi una manager. Non era la mia starda, e così quando ho cominciato a lavorare come attrice ho lasciato, anche se di recente, più che altro per risarcire me stessa, ho ripreso gli studi e mi sono laureata in canto lirico al Conservatorio di Avellino.
Aggiungo che verso i 17 anni ebbi un colpo di testa, perché volevo dimostrare alla mia famiglia che le mie aspirazioni non erano velleitarie, così feci un provino a Roma e fui scritturata dalla compagnia di Ludovica Modugno e Gigi Angelillo e con questa carta speravo di convincere, soprattutto mio padre, di questa mia idea. Però la cosa non funzionò e così arrivò la Bocconi. Per i primi 3 anni sono sttaa una studentessa modello, poi ebbi una crisi profonda su quello che volevo fosse la mia vita e a quel punto ripresi in mano il mio sogno, che poi ho realizzato.

V.: Ti va di scavare ancora un po’ nel tuo lavoro?
C.: In che senso?
V.: Nel senso che vorrei che tu raccontassi in che cosa consiste materialmente, come si svolge quotidianamente, praticamente che fai. Se fossi un’operaia ti chiederei che mansoni hai.
C.: Allora, una parte importantissima del mio lavoro è lo studio e l’approfondimento. Per essere più precisa ti racconto più o meno che cosa succede. Parto da un’idea, per esempio vorrei scoprire quella comunità, in quel luogo, dopo di che attingo dal sistema di relazioni che ho costruito nel tempo, avendo 60 anni ci sono cose che oggi sono per me più semplici. Diciamo che in particolare quando sono io a proporre il progetto parto dall’idea e dal sistema di relazioni sia artistico che istituzionale per strutturarlo e garantirne la sostenibilità, anche economica.

V.: E direi che in qualche modo anche il tuo percorso con la Bocconi ti aiuta.
C.: Sicuramente sì. Anche quello che ti dicevo prima, che in pratica mi sono inventata il mio lavoro, lo devo assolutamente anche a una formazione culturale che la Bocconi mi ha dato e che mi ha portato a non aspettare che qualcuno mi chiami ma essere io stessa ad attivarmi in prima persona per mettere su ciò che mi serve per realizzare un progetto.
Un esempio è uno dei progetti più importanti che ho realizzato, a Matera, nel 2019, per il quale effettivamente ho investito tanto, dalla riceerca dei finanziamenti, alla scrittura e alla presentazione del progetto e, dopo l’approvazione, realizzarlo in tutte le sue fasi, dalla parte organizzativa a tutte le fasi artistiche successive,
Per fare questo lavoro ho impiegato un paio di anni, ho riunito tre paesi del Mediterraneo, la Cabilia, Creta e la Catalogna, oltre che Matera e la Basilicata, e ho messo insieme 50 cantore del Mediterraneo con cui ho realizzato più spettacoli, nello specifico la messinscena del canto.

V.: In pratica sei artista, manager e imprenditrice.
C.: Sì, possiamo dire anche così. Poi, quando sono nel pieno del lavoro, la giornata si articola in diversi modi. C’è la parte artistica, dove per esempio curo i laboratori teatrali con gli abitanti o con le comunità con cui lavoro, faccio una parte di ricerca sul campo, sia antropologica che etno-musicologica, metto insieme la ricerca con ciò che arriva da questi laboratori di teatro e di canto e da tutta questa materia, da tutto questo contenitore diciamo così, traggo le direttrici drammaturgiche che si trasformano a loro volta in una sorta di messa in scena, di narrazione che tiene insieme tutti i livelli, quello della memoria, quello della contemporaneità, quello dei canti, quello della cultura materiale di un luogo e tanto altro ancora.
Sono i periodi in cui mi alzo presto la mattina e mi metto all’opera per arrivare sempre più vicino all’esito finale, al risultato. È un’altalena continua molto bella tra fasi di studio, fasi di lavoro, cose più teoriche e cose più operative.
Infine ol mio lavoro si articola ancora in un altro modo quando sono un’attrice scritturata e quindi vado in teatro per le prove, per la messa in scena, o quando realizzo i concerti, dove se vogliamo c’è una forma di lavoro artistico più tradizionale. Però questa parte qui sta diventando sempre più marginale nella mia attività.

V.: Ho una coriosità: in media quante ore al giorno canti?
C.: Almeno un paio d’ore. Naturalmente ci sono periodi più intensi, ma comunque almeno un paio d’ore al giorno, tra studio, lavoro e altro, canto.

V.: E i maestri a cui ti ispiri?
C.: Allora, il mio primo maestro di teatro è stato un maestro in tutti i sensi, Massimo de Vita, del Teatro Officina di Milano. È stato una persona che anche per le sue scelte artistiche mi ha dato molto.
V.: Cosa ti ha lasciato, che cosa hai “rubato” da lui?
C.: L’arte come umanità, il teatro come umanità.

V.: Altri?
C.: Guarda, considero delle grandi maestre tutte le scrittrici che leggo, tutte, e poi le poetesse, gli scrittori anche.
V.: E in questo caso cosa ti hanno lasciato e ti lasciano attraverso i loro libri?
C.: Non è facile, ma direi che dalla loro scrittura imparo continuamente come vivere questo passaggio necessario tra l’essere uomini e donne …
V.: … Senza smarrire il senso delle nostre vite.
C.: Sì, senza smarrire il senso dei nostri percorsi di vita. In qualche modo anche ricostruirlo con altri codici e quindi rinnovarlo, però senza smarrirlo. E poi voglio dire, davvero con il cuore, che maestre per me sono state tutte le donne che ho incontrato in questi anni, le anziane, che sono state centinaia. Devo tanto anche a loro,
direi che ognuna mi ha lasciato tanto, quando le incontro a commuovermi è in particolare il mistero, che rimane in queste figure quasi inafferrabile, almeno per la mia generazione.
Avendo, come ti dicevo, 60 anni ho vissuto tutto il processo di ricerca di autonomia, di emancipazione che sentivamo necessario. Ecco, invece quando incontro queste donne sento sempre che attendono qualcosa, come se la vita non avesse dato loro tutto quello che si aspettavo di avere. Devo dire che un poco anche mia madre è stata questo, per me.
Io che non ho avuto figli, penso che per mia madre, insieme, formavamo una unità ideale, un’unità femminile ideale, sia la dimensione della maternità, che è fondamentale, sia la dimensione di coltivare la propria passione, che poi si trasforma in lavoro.
Mia madre si rispecchiava in me, mi diceva beata te quando parti, che hai la tua indipendenza, mentre io dicevo beata te che hai cinque figli che ti attorniano. In questo senso insieme formavamo una unità femminile ideale.

V.: Mammà che belle cose che dici. Per finire ancora due domande.
Ecco la prima: che lavoro vuoi fare tra 100 anni?
C.: Guarda, ti rispondo con la mia utopia più assoluta: fermare la violenza con il canto, fermare le guerre con il canto. Immagino che le donne, anche gli uomini, si mettano a cantare nei luoghi dove c’è la morte.
Ho sempre immaginato che se un capo di governo nel momento delle decisioni cruciali ascoltasse la ninna nanna cantata dalla mamma il mondo sarebbe migliore. Chi ci governa secondo me ha abbandonato il canto, per questo lo sentiamo tanto lontano da noi, è così lontano.

V.: Caterina, cosi mi fai commuovere.
C.: Ma no.
V.: Ma sì. Ecco la seconda domanda: per te perché il lavoro è importante, vale?
C.: Premesso che ha la fortuna di fare un lavoro che amo tantissimo ti rispondo che il lavoro vale perché ci permette di raggiungere la felicità. Naturalmente c’è anche la fatica, ma per me la dimensione del lavoro è la felicità.

CREDITS
La foto di copertina é di Andrea Semplici
Le foto del testo sono tratte dalla pagina facebook di Incipit Art