Fabrizio Santini l’ho incrociato a Join Maremma Online il mese scorso. Ha raccontato di ambiente, di sostenibilità e di futuro con l’approccio che piace a me, ma di questo ne parliamo un’altra volta. Gli ho chiesto di raccontare la sua famiglia e le «sue» miniere e ne è venuto fuori la bella storia che potete leggere di seguito. Non penso io debba aggiugere altro. Soltanto buona lettura.
Mettiti un po’ qui a cecce che si ragiona un pochinino
di Fabrizio Santini
Con una serie di «c» aspirate e di «t» che sembravano «th» all’inglese (o all’etrusca): era così che quando ero bambino spesso mio nonno mi chiedeva di sedermi ai suoi piedi nelle calde sere estive per parlare un po’ con me, che giravo come un frustone – diceva mia nonna –, e raccontarsi come era andata la giornata. Io sono nipote di minatori, e sembra strano persino a me dirlo, perché non mi riconosco affatto nello stereotipo che so che emerge nella mente di molti. Forse persino nella mia. Se non sapessi. Se non l’avessi vissuta.
I minatori maremmani erano diversi, perché per l’appunto erano maremmani, con le loro battute taglienti e gli scherzi feroci, con la loro apparente chiusura e l’orgoglio di una terra che ti conquista per la sua bellezza e crudezza, con le loro bestemmie che erano delle composizioni teatrali, dei trittici spesso, con lo spirito dissacrante per tutto, solo per Santa Barbara no. Sembra strano a dirlo, in pochi lo sanno, ma i maremmani sono stati briganti e butteri, scariolanti (1) e carbonai, ma anche minatori. Per dirlo meglio, quando dico maremmani mi riferisco anche alle migliaia di persone provenienti da ogni parte d’Italia per tagliare il bosco, fare il carbone, bonificare i paduli e scavare in miniera, che così si sono ritrovati a dirsi maremmani: siciliani e calabresi, abruzzesi e veneti, marchigiani, pistoiesi, casentinesi. Un vero melting pot alla «cingnala» in umido.
Come diceva Bianciardi, uno dei pochi intellettuali grossetani, noi maremmani siamo butteri ma anche minatori. Lui che con Cassola ebbe l’ardire di andare alle fermate del bus di Massa Marittima e Niccioleta, Prata e Tatti e chiedere ai minatori come fosse davvero il lavoro in miniera, a chiederglielo col magnetofono per registrare, la mattina presto alla corriera pe’ la prima gita (così si chiamavano i turni in miniera). Bianciardi e Cassola che pubblicarono nel 1953 I Minatori della Maremma, che nella prima edizione che mi capitò tra le mani aveva la prefazione di Jannacci, e che tanto fecero arrabbiare i vertici della Montecatini che non si capacitavano del perché due giovani scrittori, sedicenti giornalisti, non chiedessero direttamente le informazioni all’ufficio stampa della Compagnia mineraria, per farsi rifilare un dossier, che diceva che tutto andava bene, che ci si trovava nelle miniere più avanzate d’Italia. Dossier che poi ho letto. Dopo aver intervistato decine di minatori. Non solo i miei nonni.
Tutti e due i miei nonni che erano minatori, tutti e due di nome Fosco, nonno Foschino e nonno Foscone, così li chiamavamo sin da piccoli, per distinguerli – in base alla loro stazza – nei nostri discorsi, quando eravamo lontani, in città coi miei genitori.
Nonno Foschino, piccolo e tosto, classe 1914, repubblicano, di Potassa, detta anche Stazione di Gavorrano, perché c’era uno degli scali merci per la pirite. Nonno Foschino che lavorava sin dai suoi 14 anni per mantenere sorelle, mamma e poi moglie, figlio, figlie orfane di sorelle e lavorava tanto ma così tanto che un giorno mio padre lo andò a trovare all’uscita della miniera di Valmaggiore, verso Caldana, vicino alle cave di marmo rosso portasanta, per portargli il pranzo cucinato da nonna Tilde. Era un giorno di pioggia, tra scioperi e occupazione, e non lo trovava. Si, mio padre non trovava suo padre, sinché si decise di chiedere timidamente a un minatore dalla faccia nera di fuliggine e fumo e si sentì rispondere: «oh locco, so’ io ! ‘Unno vedi!?».
L’altro nonno, Foscone, classe 1921, grosso e bonaccione, poliziotto in moto, volontario in Russia, fascista sino alla fine dei suoi giorni, e poi minatore, capo meccanico in miniera e in laveria, con il vizio di dare soprannomi a tutti perché i nomi non se li ricordava mai. Ma sempre pronto anche a dare l’esempio in miniera, a essere il primo, a farsi largo con le sue manone quando c’era un’ingiustizia. Nonno Foscone che come molti (non tutti) fascisti in miniera coi comunisti si aiutavano, che «’un ci si lascia morì da soli li sotto». Magari si picchiavano fuori, a metà strada tra la casa del Popolo e la (ex) casa del fascio dopo una partita a palla a manda’ (2), ma lì sotto per la miseria no, «un ci si lascia soli a morì».
Ecco, la miniera, sembra strano dirlo, io l’ho vista da piccolo, a Gavorrano è stata chiusa nel 1984 quando avevo 14 anni. E poi a Campiano nel Comune di Montieri nel 1994, che avevo più di vent’anni e mi impressionò il grande escavatore con le ruote enormi, più alte del mi’ zi’ Giovanni – uno degli ultimi minatori – che me la mostrava orgoglioso. Da piccolo ho visto anche la vecchia Aurelia correndo al mare a Follonica con la 128 di nonno, ho visto le strade per «anda’ alle Biancane di Monterotondo dove la terra bolle e sbuffa o all’acque ferruginose delle Roste sotto Montieri», ho visto la strada per il Casone di Scarlino, le ho viste luccicare quelle strade per l’oro degli stolti, la polvere di pirite persa dai camion e dalle teleferiche. Anche le teleferiche ho visto prima che le smontassero, negli anni ’70, che con le loro paioline (vagoncini) appese per aria, che per decine di chilometri superavano colline, da Fenice Capanne, da Niccioleta, da Rigoloccio a Bagno di Gavorrano e portavano pirite, dalle miniere agli scali ferroviari o all’imbarco a mare, nel Golfo di Follonica. Erano tempi in cui un territorio poteva avere una delle miniere di pirite più grandi d’Europa e si poteva permettere di non avere l’autostrada. Quando si dice mobilità su rotaia, oggi sembra una eresia.
Ho visto le teleferiche infiammate dei fochi del venerdì santo, le ho viste portare panierine (3) di cibo dimenticate a casa o lettere di annuncio che “è nato il tu’ figliolo”, per minatori che uscivano troppo di fretta, spesso anche colla febbre per «‘un perde un giorno di lavoro che si lavora a cottimo li sotto e pe’ ‘un fa’ tardi in miniera che la corna (4) sòna puntuale all’inizio della gita (5) e se ‘un se’ li la gabbia (6) scende e te perdi il giorno di lavoro e la paga». E ho visto l’imbarco a mare di terra Rossa a Scarlino, dove il fratello di mio nonno, Zi’ Remo, è stato l’ultimo guardiano del faro, e me li faceva accènde anche a me i fari.
Sono nipote di minatori anche nella storia dei miei genitori, che, ventenni, nella seconda metà degli anni ‘60 sono dovuti «andà in città pe’ llavorà che la minera dicono che è in crisi». E così si trasferirono a Varese, e presero la 500 gialla per venire a farmi nascere a Grosseto e poi si traferirono a Roma e presero la 500 blu (la gialla ce l’avevano rubata) per far nascere mio fratello Federico all’ospedale di Grosseto, in Maremma. E così mio babbo, tecnico TV, mia mamma, maestra, io e mio fratello siamo cresciuti tra Varese, Milano, Roma e Firenze e poi Roma di nuovo, con la Maremma nel cuore e la fine delle vacanze di Natale, Pasqua, estate, che ancora a 16 anni prendevo il treno per tornare a «casa» – ma non era questa la casa? – e piangevo. Era d’estate soprattutto – lunga, afosa e densa di rondini e di lucciole – che giocavo con gli amici di paese tra le parti abbandonate della miniera di Ravi, in mezzo alla terra gialla di zolfo e rossa di ferro e l’odore acre dell’acido che si formava quando pioveva sulle pozze di polvere di pirite che diventavano iridescenti. Si giocava, colle voci delle nonne che ci chiamavano pe’ ffa’ merenda col pane col pomodoro, e noi ‘un gli si dava udienza mentre si recitavano a memoria le battute di Bud Spencer e Terence Hill e ci si infilava (pazzi incoscienti) nei buchi e nelle gallerie di miniera. Mi ricordo bene quelle sere, soprattutto di giugno, in mezzo alle lucciole, mentre nonno raccontava, con me che pensavo: «io da grande divento ricco e questa miniera la trasformo in un museo e la regalo al ‘mi paese» … eh già che il mi’ paese era Ravi mica Roma.
Poi sono cresciuto e ho fatto l’università, proprio a Roma, poi ho conosciuto una ragazza tedesca, in una grotta di Ravi, e ho finito gli studi ad Amburgo, ma la Maremma e le sue Colline Metallifere, quelle per cui piangevo, erano ancora li. Possibile tornarci? Possibile costruirci un futuro professionale? Tentare di continuare a fare l’assistente universitario in una città bella – perché Roma è bella, diciamoci la verità – piena di stimoli e luci o provare a tornare in Maremma, calma, verde di macchia, gialla di zolfo, rossa di ferro, azzurra di mare?
E’ giusto che a questo punto vi dica che ci sono stati sempre tre posti in cui mi sono sentito a casa: in Irlanda – simpaticissimi e accoglienti gli irlandesi – ma c’è troppa pioggia e non mi piace la Guinness; in Giappone, chissà che un giorno non mi ci trasferisca; in Maremma, e tornarci è stata la scelta migliore della mia vita. Erano gli anni ’90 inoltrati e per fortuna ho avuto un figlio – con la ragazza tedesca – che è nato a Grosseto (anche lui) perché lei si voleva trasferire in Maremma.
Poi un signore con la barba bianca, un Natale, mi fa un regalo. No, non è Babbo Natale, anche se ha la barba bianca e una voce bassa e calma. Mi viene a trovare in mansarda, nella casa dei nonni, mentre scrivo le ultime pagine della mia tesi di laurea, sul Self Regulation Learning, si chiama Stefano, mi ha visto lavorare d’estate come animatore ambientale nel “suo” campeggio, sa cosa studio e gli manca un esperto di didattica nel Laboratorio di Educazione Ambientale che la sua cooperativa sta per avviare grazie ad un finanziamento Europeo, Regionale, Comunale e della Cooperativa stessa. Già a lavoro, da qualche mese, ci sono un botanico, una geologa e uno zoologo, ma gli manca un esperto di didattica ed educazione. Rompo in un pianto caldo, era quello che non avrei nemmeno osato di sperare.
E stato così che ho lasciato l’Università per il posto di lavoro più bello della terra, il Laboratorio di Educazione Ambientale la Finoria. Finalmente avevo capito cosa volevo fare. Unire le scienze dell’Educazione in cui mi ero appena laureato con l’Educazione Ambientale.
Intanto la passione per la miniera permane, sotterranea. Stefano, il Presidente della Cooperativa che gestisce il LEA ha fatto una tesi in storia sui minatori ed è tra i più attivi fautori della nascita di un Parco dove erano le vecchie miniere. A partire dalla loro chiusura, sindaci, cittadini, ex minatori, associazioni culturali, tutti volevamo il Parco, abbiamo lottato contro i vari impedimenti burocratici che noi italiani ci possiamo immaginare e nel 2003 inauguriamo. Prima il Parco Minerario Naturalistico di Gavorrano, poi gli altri siti minerari dei paesi e comuni vicini e nasce finalmente il Parco Nazionale Archeologico Tecnologico delle Colline Metallifere.
Il 18 luglio 2003, all’inaugurazione, orgoglioso con il mio gilet da Guida Ambientale Escursionistica, con mio nonno Foscone (Foschino era morto poco prima) che continuava a raccontarmi dove si era fatto male con la lamiera di quel bandone che copriva i binari degli skip (7) per le laverie alte e dove aveva litigato col caporale e dove lavorava suo babbo Armido a rattoppare e risaldare i carrelli sfondati dal peso e dalla acidità della pirite (perithe si pronucia in maremmano).
Il nostro Parco adesso ha 13 anni, coinvolge i 7 comuni delle Colline Metallifere grossetane (Follonica, Gavorrano, Massa Marittima, Monterotondo Marittimo, Montieri, Roccastrada e Scarlino) e porta quasi 100 mila visitatori all’anno nelle nostre zone. Dal 2010 siamo Geoparco della rete Europea e Mondiale dei Geoparchi, da pochi mesi come programma UNESCO. Il nostro nuovo nome è Tuscan Mining UNESCO Global Geopark e ci capita due o tre volte all’anno di essere individuati dagli Uffici della rete Globale a Parigi, per ospitare delegazioni di territori europei che vogliono costituire un nuovo Geoparco. Stiamo diventando un esempio di valorizzazione della geodiversità (8). Nel 2011 siamo diventati destinazione Europea d’Eccellenza (EDEN Per siti ex minerari e industriali riqualificati) e dal 2014 abbiamo ottenuto da Europarc Federation la Carta Europea per il Turismo Sostenibile di cui sono responsabile. Il mio compito adesso è avere contatti con le amministrazioni, le imprese, le guide ed i cittadini dei 7 comuni del Parco per concordare con loro azioni concrete verso una maggiore sostenibilità economica, ecologica, sociale e culturale del nostro turismo. Io sono contento come una Pasqua, il Parco ha una direttrice giovane competente ed entusiasta, i politici locali continuano a credere nel progetto, i compaesani ne vanno orgogliosi, qualche polemica c’è sempre, ma le soddisfazioni e le occasioni per raccontare le nostre storie aumentano. Quello che piace di più a chi viene a visitarci sono le storie che le nostre guide raccontano, le storie dei nostri nonni, noi che siamo gli ultimi ad averli avuti i nonni minatori.
Però si badi bene, noi non raccontiamo solo come lavoravano i nostri nonni, gli aneddoti e le risate, le poesie in ottava rima improvvisate a prendere in giro i superiori e i colleghi, se stessi e la morte, in agguato ogni giorno, come in qualunque altro luogo e momento della vita, ma li sotto sembra di più. Ci piace raccontare storie anche per ricordare le lotte che sono state fatte per conquistare alcuni diritti che oggi ci sembrano troppo scontati e che – invece – non sono scontati per nulla, soprattutto in molte altre miniere o luoghi di lavoro del mondo. E’ a loro, i nuovi minatori, spesso quattordicenni come i nostri nonni, ma che rispetto a loro lavorano – oggi – in condizioni ancor peggiori, che dedichiamo le nostre memorie e le storie che le nostre guide raccontano nei vari musei, gallerie di miniera visitabili, percorsi a piedi, in bicicletta, a cavallo, in grotta. Ecco, direi per finire che la fortuna e il destino che mi sono costruito ha fatto si che potessi assistere a tutti i momenti salienti della vita di questo nuovo gioiello delle Colline Metallifere, il nostro Geoparco.
Non lo so, deciderà Vincenzo, perché per me la storia potrebbe anche fermarsi qui. Se proprio volete saperne di più allora vi accenno un po’ di me e degli aspetti educativi e didattici del Geoparco e delle certificazioni e progetti internazionali. Il rapporto con Roma non è terminato, collaboro con la Fondazione Sviluppo Sostenibile per i progetti di Educazione Ambientale ed allo Sviluppo Sostenibile in tutta Italia. Ho 46 anni e due figli ventenni che studiano e lavorano in Germania e che piangono di commozione quando tornano in Maremma. Un fratello che condivide con me la grande casa dei nonni e al piano terra abbiamo un teatrino di inizio ‘900, che si fece costruire il direttore della Miniera Marchi; disastrato quando abbiamo ereditato la casa, restaurato ora grazie all’aiuto di tanti amici. Mio fratello gira il mondo, realizza documentari naturalistici in zone estreme per sensibilizzare ad una vita più sostenibile, si è trasferito anche lui da Roma in Maremma e appena può, al termine di qualche lungo viaggio pota i due filari di vite e i nostri 89 olivi, con cui facciamo il nostro olio, taglia la legna nel bosco e porta anche lui i turisti in miniera. Gestiamo insieme un piccolo B&B, nella casa de nostri nonni, con un nostro caro amico attore milanese oramai trasferito in maremma che anima le serate di teatro per bambini nel nostro teatrino del piano terra. Ecco, questo è davvero tutto, però ora non traete conclusioni affrettate perché non siamo facoltosi, soltanto ricchi, di vita e relazioni, e allora se ci venite a trovare, mettevi a cecce, che si ragiona. Vi aspettiamo, ma non tutti insieme, soprattutto non tutti in alta stagione, che ci vuole tempo e spazio per raccontare le storie.
Note
1. Scariolanti e badilanti : operai con le carriole ed il badile, spesso veneti, che operavano nelle bonifiche maremmane nel ‘900. Un monumento a loro ricordo accoglie all’ingresso di Grosseto nord.
2.Palla a Mandà o Palla a 21 o Palla eh! È un gioco simile al Jeu de Paume, un tennis giocato con le mani e una pallina fatta in casa, dura e poco elastica. Si giocava senza arbitro, con spinte e parolacce come ragioni, la metà campo che cambia, usando le piazze diverse di ogni paese e con vino e gazzosa a disinfettare strofinandole le mani segnate dei minatori. Il Gioco è ancora oggi giocato in moti paesi della maremma e del senese. L’Associazione culturale Attivarti che la promuove collabora con il Parco Nazionale delle Colline Metallifere in vari progetti di turismo sostenibile. http://attivarti.org/v2/altri-progetti/palla-a-21palla-eh/ , Attivarti si occupa anche di Buiometria partecipativa insieme alle guide del Parco: http://attivarti.org/v2/buiometria-partecipativa/
3. Panierina: valigetta in cartone e poi in metallo per contenere il cibo che i minatori consumavano in miniera, non in mensa.
4. Corna: sirena che annuncia l’inizio del turno (o gita)
5. Gita: Turno di miniera. Dagli anni ‘940 in poi c’erano tre gite: di prima (07.00 – 15.00) di seconda (15-.00 – 23.00) e di terza (23-00 – 07.00)
6. Gabbia: ascensore che porta in galleria in sotterranea
7. Skip: un tipo di vagone spesso usato nelle laverie
8. Geodiversità, termine coniato dall’UNESCO per indicare le diversità litologiche di un luogo. Si potrebbe dire citando il prof. Costantini, geologo esperto delle Colline Metallifere, che la geodiversità è la biodiversità delle rocce e minerali. Proprio il prof. Costantini propone di fondere la bio e la geodiversità nel concetto più ampio di eco diversità.