Caro Diario, non so a te, ma a me una donna che tu le chiedi di definire la sua vita lavorativa con una immagine, una frase, e lei ti risponde «tutta la mia vita è stata una continua ricerca del senso del bello; se gli esseri umani applicassero questa regola pure quando fanno una frittata saremmo tutti più felici» mi fa andare al manicomio.
Dice ma tu già eri ben predisposto da quando è tornata dalla cucina con il vassoio, le tazze e la caffettiera e ha detto «’o caffè ce lo pigliamo con la macchinetta, perché altrimenti ci perdiamo il profumo.» Va bene, è vero, lo ammetto, se è per questo non mi è sfuggito neanche il riferimento al ricamo come lavoro meditativo. E allora? Questo che significa? Mica è colpa mia se tra la gente normale che racconto c’è così tanta umanità, calore, saggezza? Che poi questa volta il merito non è neanche mio, è stato l’archeologo Francesco Panzetti – che pure lui prima o dopo te lo ritrovi da queste parti -, che una mattina mi scrive «Vincenzo, questa storia qui non te la puoi perdere» e io questo ho fatto, non me la sono persa, e così qualche giorno dopo Francesco mi è venuto a prendere e ce ne siamo andati a Melito, primo comune dell’area Nord della città metropolitana di Napoli.
Durante il viaggio Francesco mi dice che Antonietta Cataldo è la madre di un suo caro amico – Raffaele Di Lorenzo -, che ha 65 anni e che da qualche anno è in pensione, per meglio dire è da qualche anno che si è ritirata dall’attività. «È una donna piena di energia positiva – aggiunge – un esempio straordinario di come la passione per il proprio lavoro possa cambiare la vita delle persone».
Siamo arrivati a casa di Antonietta e Raffaele che erano passate da poco le tre del pomeriggio amico Diario, del caffè ti ho detto e della frittata pure, e allora il resto della storia te la faccio raccontare da lei così come l’ha trascritta Francesco, che lui è assai più veloce di me con la “tastiera” del tablet.
«Vincenzo, sono nata a Torre Orsaia, nel Cilento. C’era molta povertà dalle nostre parti, i miei genitori lavoravano a mezzadria – grano, granone e pastorizia-, e così sono cresciuta in questo mondo rurale in cui i bambini si abituano molto presto a essere indipendenti. In campagna già a 3 anni bisogna essere autonomi, i genitori hanno da fare non è che possono stare troppo appresso ai figli, sveglia all’alba, sull’aia c’è vita già di primissimo mattino.
A 8 anni il solito problema, i genitori mi dovevano piazzare da qualche parte perché lavoravano, e così mi ritrovo a scuola di ricamo. La maestra ricamava, nel senso del ricamo classico, io invece volevo cucire e per esercitarmi facevo di tutto: mi prendevo i ritagli di stoffa da sotto al tavolo e me li portavo a casa, e durante il giorno guardavo e imparavo, ho cominciato con i vestiti delle bambole e con gli abiti delle sorelle. Con i genitori che dicevano sempre che non c’era niente cominciai a creare da me delle cose, per esempio le borse che non potevo comprare, mi bastava un pezzo di tessuto vecchio, dopo vi faccio vedere una cosa che ho conservato.
Ad un certo punto papà trovò lavoro come facchino in un hotel di Capri e così i miei lasciarono la mezzadria e il Cilento e arrivarono a Napoli, non prima di aver comprato una casetta, in vico Zuroli, al numero 10. Avevamo un nuovo mondo attorno a noi, come la prostituta che scendeva dal secondo piano tutta profumata e ben vestita insieme al suo protettore. A me sembrava stupenda, mia madre invece mi tirava facendomi capire che non era una persona da frequentare. Lì ho imparato tutto quello che non volevo essere nella vita, ma ho appreso anche tantissimo, ho scoperto che esisteva un altro mondo.
A 15 anni volli andare a lavorare per esser indipendente; i miei genitori mi avevano fatto frequentare un corso di operatrice meccanografica ma a me non piaceva, volevo vedere gente, mi piacevano gli abiti, il bello.
Trovai un posto di lavoro in una catena di grandi magazzini, mi conquistai un posto di rilievo al reparto dischi, amo molto la musica, tutta la musica, solo il jazz non riesce a prendermi.
A 18 anni mi fidanzai e lasciai il lavoro, mi ero lasciata sconfiggere dalla mia timidezza. A 25 anni avevo già i miei due figli, ricordo che per la nascita di Raffaele mi preparai alcune cose del corredo. Un giorno, comprando dei bottoncini, la negoziante apprezzò le mie bavette; dissi che quello era il mio lavoro. Si, secondo me si può essere timidi e allo stesso tempo andare avanti osando. La signora del negozio mi chiese altri lavori del genere e io li feci; mi alzavo alle 5 di mattina e mentre sistemavo i bambini lavoravo. Consegnavo a Secondigliano. Tenni questa cosa per me, avevo paura che se ne avessi parlato l’avrei persa.
Di lavoro ne arrivò tanto, uncinetto, cucito, e così allargai il giro, oggi si direbbe che diventai prima imprenditrice di me stessa e poi cominciai a coinvolgere le persone vicine, le amiche, i parenti.
Vincenzo, l’entusiasmo è contagioso, e poi parliamoci chiaro, lavorava solo mio marito, e a me il mio lavoro piaceva, perché rinunciare? Andavo al mercato, compravo delle cose semplici e le arricchivo con le mie creazioni. Mi devi credere, le ammiravano tutti.
Un giorno andai a un maglificio importante e indossai di proposito una maglia girocollo (argentina); vidi gli occhi della proprietaria che non si staccavano dalla mia maglia, a un certo punto mi chiese dove l’avessi comprata e io risposi come al solito, “è il mio lavoro”.
Mi diede dieci abiti femminili di maglia di lana tricot di una tinta improponibile, verde pisello – fondi di magazzino -, e mi chiesero quando prendessi per un lavoro così bello. Caddi nel panico, ci pensai un poco e risposi “diecimila lire”. I dieci vestiti erano da consegnare in due settimane. Feci un sacco di prove, ce la misi tutta, quando riportai gli abiti mi tremavano le gambe ma la signora fu contenta, mi pagò senza problemi.
La vita è fatta di persone giuste al momento giusto, e un giorno incrocio uno stilista napoletano che voleva farsi realizzare degli abitini a tubino neri, tipo Chanel. Chi è questa pazza che fa queste cose qui? – chiese osservando le mie creazioni -. Risposi come ogni volta: è il mio lavoro.
Mi diede da fare dieci vestiti, feci il lavoro venni pagata e quando tornai a casa dissi a mio marito “guarda cosa sono riuscita a fare”. I dieci vestiti mi avevano fruttato un milione e mezzo, adesso non mi poteva fermare, avevo messo assieme sacro – la mia passione per il lavoro -, e profano – i soldi -.
E non finisce mica qui. Un pomeriggio mi arriva una telefonata dal maglificio: “c’è una imprenditrice che fa abiti eleganti, ha visto i suoi ricami e vuole venire subito da lei, sta con l’autista, prepari il campionario.“
Voi che avreste fatto? Io accettai, anche se il campionario non sapevo neanche dove stesse di casa. Avevo però le mie amiche, alle quali avevo regalato nel tempo varie cose, cominciai da quelle che abitavano nel mio palazzo, ad altre telefonai e arrivarono in men che non si dica: avevo il mio campionario fatto di tutte le realizzazioni regalate nel tempo alle mie amiche.
Ricevetti l’imprenditrice in cucina. Lei rappresentava l’azienda più grande di Arzano, lavorava con le sete del comasco, faceva solo l’elegante cerimonia e univa le sete del comasco ai ricami della nostra tradizione.
Mi chiese quante capi ricamati potevo fare al giorno. Dieci – risposi -, convinta che l’avrebbe considerato un numero eccessivo. Invece disse “sono pochissime” e dopo poco andò via. Chiamò dopo quindici giorni, chiedendomi di andare da lei. Mi presentai con un tailleur viola, della serie o la va o la spacca (il nostro è un ambiente molto superstizioso). Andò a finire che mi fece caricare in macchina centocinquanta abiti, che dovevano essere fatti tutti uguali, precisissimi. Come fare? Mi tornò in mente il sistema della carta velina, quello che avevo visto nel ricamificio a otto anni, e così la precisione era assicurata. Adesso bisognava organizzare il lavoro, e così coinvolsi mia sorella e le amiche del palazzo, ben contente di trovare un lavoro, perché sia chiaro che il lavoro va pagato, sempre. C’era chi cuciva, chi imbastiva, e alla fine per quel lavoro arrivarono tre milioni di lire.
Ricordo che la sera del pagamento quando tornai a casa mio marito era in camera da letto, era rimasto a casa per accudire i figli. Mi chiese “e allora, come è andata?” Io presi i soldi e li buttai in aria, fu un atto liberatorio, la dignità del mio lavoro nessuno la poteva più mettere in discussione.
Da lì in poi cercai di strutturare meglio la mia “impresa” formando una decina di persone che poi diventarono venti e poi ancora di più, aprendo un laboratorio, imparando e “rubando” le tecniche che non conoscevo, come ad esempio la tecnica del telaio (vedi il rovescio e non il dritto, per cui non vedi i colori; invece è bello lavorare con i colori), seguendo tutti e correggendo gli errori, accettando nuove sfide, come quando mi dissero che il ricamo era passato di moda e bisognava disegnare, dovetti chiamare mio figlio Raffaele e chiedergli di aiutarmi.
Siamo andati a cento all’ora, per me è stata un’esperienza straordinaria, è durata 8 anni, aprimmo un laboratorio bellissimo, mi svegliavo felice al mattino, mi sentivo a casa in questo laboratorio pieno di cose.
La mia creatività era finalmente libera, non più asservita alle richieste del mercato, per avere la sicurezza economica. Insieme a mio figlio mi sono completata potendo fare la parte poetica del mio lavoro.
Ecco Vincenzo, direi che ci siamo, che ti ho detto quasi tutto. Che posso aver dimenticato? Beh, che fai sempre fatica a far vedere quello che sai fare. Che l’abito ha un’anima e quando lo metti sul manichino ti parla. Che bisogna saper accettare le critiche più dei complimenti. Che il più bel complimento l’ho ricevuto dal grande stilista un po’ spocchioso che alla fine della sfilata ha gridato “Aldo, questa non è brava, questa è un mostro!”. Che la più bella cosa nella vita è poter guardare negli occhi le persone che lavorano con te, perché ci sta il lavoro, che quello bisogna farlo bene, e ci stanno le persone, che quelle le devi rispettare sempre. Cosa voglio dire? Che devi capire le loro ansie e i loro problemi, che devi capire cosa ti chiedono quando ti dicono “Antonietta, dovrei mettere i marmi alla scala di casa, lo posso fare?”. Alle persone devi dare prima di tutto un abbraccio, a chi lavora devi dare un lavoro, non la carità. Per me il rispetto è questo, il resto sono chiacchiere.»