Caro Diario, l’incontro di Robert K. Merton con il concetto di Serendipity, come ricorda egli stesso, è dato dalla convergenza di almeno quattro interessi: quello sociologico «per il fenomeno generico delle conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali», quello metodologico «per la logica della teorizzazione», quello «per la storia e la sociologia della scienza» e quello «per i neologismi che si rendono necessari per descrivere fenomeni appena scoperti e idee appena emerse».
Prendendo a prestito il termine da una lettera di Horace Walpole a Horace Mann, Merton definisce in ambito sociologico il concetto di Serendipity come l’esperienza che permette di sviluppare una nuova teoria o ampliarne una già esistente sulla base dell’osservazione di un dato imprevisto («una ricerca diretta alla verifica di una ipotesi dà luogo ad un sottoprodotto fortuito, ad una osservazione inattesa che ha incidenza rispetto a teorie che, all’inizio della ricerca, non erano in questione»), anomalo («l’osservazione è anomala, sorprendente, perché sembra incongruente rispetto alla teoria prevalente, o rispetto a fatti già stabiliti. In ambedue i casi, l’apparente incongruenza provoca curiosità, stimola il ricercatore a trovare un senso al nuovo dato, a inquadrarlo in un più ampio orizzonte di conoscenze») e strategico («affermando che il fatto imprevisto deve essere strategico, cioè deve avere implicazioni che incidono sulla teoria generalizzata, ci riferiamo, più che al dato stesso, a ciò che l’osservatore aggiunge al dato. Com’è ovvio, il dato richiede un osservatore che sia sensibilizzato teoricamente, capace di scoprire l’universale nel particolare»).
Per cogliere il dato anomalo, imprevisto e strategico e attivare il processo che siamo soliti definire Serendipity, occorrono dunque menti allenate che risultano particolarmente sollecitate quando operano in luoghi che Merton definisce ambienti socio cognitivi serendipitosi proprio perché agevolano le impreviste interazioni socio cognitive con altre menti preparate. Il caso, infatti, favorisce la scoperta con una incidenza significativamente maggiore quando il ricercatore, lo scienziato, opera in microambienti con queste caratteristiche cosicché è innanzitutto in questi contesti che la ricerca empirica si dimostra feconda e perciò «non soltanto verifica ipotesi derivate teoricamente, ma dà anche origine a nuove ipotesi».
Tra i numerosi esempi che si possono addurre per dimostrare la relazione forte esistente tra il luogo (dove il genio opera) e la possibilità (che il genio si manifesti) ci piace qui ricordare: il Cavendish Laboratory di Cambridge; il California Institute of Technology (più comunemente noto come Caltech) di Pasadena (nel solo laboratorio di Renato Dulbecco sono stati in 4: lo stesso Dulbecco e Howard M. Temin nel 1975, Susumu Tonegawa nel 1987, Leland H. Hartwell nel 2001); la Harvard Society of Fellows; il Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences (dove aveva soggiornato e lavorato, tra gli altri, Thomas S. Kuhn), citati dallo stesso Merton assieme al Cavendish a sostegno delle proprie ipotesi.
Un ulteriore interessante aspetto della questione è quello che mette in evidenza come ogni attività di ricerca, governata da un paradigma, con la produzione di teorie, idee e fatti che da essa è determinata, contenga in sé gli elementi destinati a produrre il suo superamento, a rendere possibile quelle nuove scoperte che ad un certo punto renderanno necessaria l’adozione di un nuovo paradigma.
È Thomas S. Khun, nel suo lavoro sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche, a definire il concetto di “scienza normale” («una ricerca stabilmente fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore») e a sottolineare che:
«la scoperta comincia con la presa di coscienza di un’anomalia, ossia col riconoscimento che la natura ha in un certo modo violato le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale; continua poi con un’esplorazione, più o meno estesa, dell’area dell’anomalia, e termina solo quando la teoria paradigmatica è stata riadattata, in modo tale che ciò che era anomalo diventa ciò che ci si aspetta»;
«l’anomalia è visibile soltanto sullo sfondo fornito dal paradigma. Quanto più preciso è tale paradigma e quanto più vasta è la sua portata, tanto più riuscirà a rendere sensibili alla comparsa di un’anomalia e quindi di un’occasione per cambiare il paradigma»;
è con il passaggio dal vecchio al nuovo paradigma che si compiono le rivoluzioni scientifiche, cioè «quegli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello».
La prospettiva delineata da Merton con il concetto di Serendipity è interessante dunque da molti punti di vista, tra i quali è particolarmente utile segnalare:
la già citata «importanza sociologica delle conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali nella vita sociale in generale e delle fasi impreviste nella crescita della conoscenza» e dunque la necessità di integrare, nella comprensione del concetto di Serendipity, la prospettiva psicologica con quella sociologica (Merton ricorda a questo proposito anche l’indagine di William F. Ogburn e Dorothy S. Thomas su circa 150 casi di scoperte multiple indipendenti e la loro conclusione che determinate innovazioni «diventano praticamente inevitabili mano a mano che crescono determinati tipi di conoscenza e che scienziati e tecnologi innovativi che sono concentrati sugli stessi problemi raggiungono le stesse soluzioni»);
la spinta all’innovazione che contraddistingue – fino a rappresentarne il tratto distintivo, l’imprinting organizzativo -, l’attuale fase di sviluppo, in particolare nei confini della ricerca scientifica, della sua organizzazione, delle sue rivoluzioni, del rapporto tra organizzazione della scienza e valorizzazione del talento;
la storia delle scoperte fatte per genio e per caso, che ha avuto protagonisti numerosi e illustri;
le ragioni per le quali in ambienti ricchi di interazioni socio-cognitive è più probabile che il caso favorisca determinate scoperte;
la necessità di andare al di là dei termini puramente logici con i quali vengono presentate le teorie scientifiche per ricostruire il corso dell’indagine così come è stata svolta dal ricercatore e mettere in evidenza ciò che effettivamente è stato fatto per arrivare a quella scoperta.
Ancora una volta vale la pena insistere su quest’ultimo aspetto.
Merton non è, naturalmente, il solo a soffermare la sua attenzione sull’importanza di colmare o quanto meno ridurre le differenze tra la documentazione pubblica del saggio scientifico (standard scientific article) e il corso effettivo dell’indagine (quello che sarebbe stato possibile documentare senza le obliterated scientific serendipities).
Dell’opera di Thomas Khun abbiamo detto, ma in realtà già Ernst Mach aveva osservato che sono le incongruenze con le quali hanno a che fare gli scienziati, è la zona vasta di confine tra quello che ci si aspetta da un esperimento scientifico e quello che in realtà l’esperimento stesso suggerisce (anche e soprattutto quando contraddice le aspettative) a determinare la scoperta, per poi evidenziare che «conoscenza ed errore discendono dalle stesse fonti psichiche; solo il risultato permette di distinguerli. L’errore riconosciuto con chiarezza è, come correttivo, altrettanto utile cognitivamente della conoscenza positiva».
Di Karl R. Popper si potrebbe dire che ha riassunto da par suo la questione in questo modo: «Tutta la mia concezione del metodo scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste di questi tre passi: 1) inciampiamo in qualche problema; 2) tentiamo di risolverlo, ad esempio proponendo qualche nuova teoria; 3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di risoluzione. O, per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche. Credo che in queste tre parole, problemi, teorie, critiche, si possa riassumere tutto quanto il modo di procedere della scienza razionale».
Francis H. C. Crick e James D. Watson hanno voluto rendere omaggio all’aiuto ricevuto da Jerry Donohue, giovane cristallografo statunitense, nella scoperta del modello a doppia elica della struttura molecolare del Dna che li porterà a vincere il Nobel per la medicina nel 1962.
Peter B. Medawar, che il Nobel per la medicina lo aveva vinto nel 1960, alcuni anni dopo ha scelto provocatoriamente di intitolare una sua conferenza alla televisione inglese Il saggio scientifico è un inganno?, proprio con l’obiettivo di mettere in risalto i limiti dello Standard Scientific Article, (SSA) e l’incidenza delle Obliterated Scientific Serendipities (OSS) sulla documentazione dell’effettivo corso dell’indagine.
James Hillman ricorda in una delle sue opere più straordinarie come, ricostruendo la nostra storia con una persona cara «compattiamo il suo carattere soltanto in queste immagini compatibili, le arrangiamo in una storia coerente e omettiamo tutte le cose che non c’entrano […] Se una persona è ubbidiente, educata, tranquilla; se non presenta vistose bizzarrie, ci aspettiamo che abbia un carattere altrettanto ammodo. Senza un occhio allenato a cogliere le discrepanze significative, le nostre previsioni saranno inevitabilmente sbagliate […]. Nessuno aveva notato alcunchè di strano perché nessuno aveva l’occhio per vederlo». Per poi sottolineare più avanti come «[… Nella nostra cultura iperpsicologizzante …] invece di guardare, somministriamo test; invece di usare la visione immaginativa, leggiamo rapporti; invece di colloqui, inventari di personalità; invece di racconti, punteggi ai test. […La psicologia …] per valutare l’anima usa concetti e numeri, invece di affidarsi all’occhio anomalo di un osservatore allenato».
Richard P. Feynman, nel corso della sua prolusione in occasione del conferimento del Premio Nobel (Science, n° 153, 12 agosto 1966, pp. 699 – 708) torna sulla questione affermando: “abbiamo l’abitudine, quando scriviamo gli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche, di rendere il lavoro quanto più rifinito possibile, di nascondere tutte le tracce, di non prenderla per i vicoli ciechi o di descrivere come la prima idea che si era avuta era sbagliata, e così via, [… cosicché finiamo col perdere di vista …] quello che si é fatto veramente per arrivare a quel lavoro.
Lo scienziato Piero Carninci, alla domanda relativa all’anomalia, alla sorpresa, che ha permesso al consorzio Fantom 3, che al tempo dirigeva, di mettere in discussione la regola “un gene, una proteina” (prima si riteneva che il flusso di informazione posseduto dal Dna si trasferisse in maniera unidirezionale alle molecole che lo trascrivono e lo traducono nel linguaggio degli amminoacidi; dopo si è scoperto invece che il “trascrittoma” (Rna) ha non solo la funzione di trasportare e tradurre informazioni ma anche quella di coordinare il complesso lavoro teso a rendere integrate ed efficienti le migliaia e migliaia di componenti attive della cellula, di contribuire a regolare l’espressione del Dna) ha così risposto: «l’aver trovato, dall’analisi dei nostri cDna, questi Rna che non avevano nulla a che fare col dogma centrale, ovvero non codificavano per alcuna proteina. All’inizio, non sapevamo che fare con questi oggetti, che sembravano cose indesiderate ed inutili. Ho avuto abbastanza difficoltà anche con certi colleghi, che ritenevano questi Rna un artefatto dei miei esperimenti prima di considerare qualcosa al di fuori del dogma. Uno di loro, ad un meeting nell’agosto del 2000, ha dichiarato che questi cDna erano semplicemente junk [spazzatura]. È significativo quanto tempo passi prima che delle osservazioni, che ora sembrano logiche, possano cambiare il vecchio dogma e come anche noi scienziati siamo così poco flessibili: un grande insegnamento». Di fatto, sulla base della propria esperienza, Carninci ripropone in buona sostanza l’idea cara a Butterfield, secondo il quale «di tutte le forme di attività mentale la più difficile da indurre […] è l’arte di adoperare la stessa manciata di dati di prima, ma situarli in un nuovo sistema di relazioni reciproche fornendo loro una diversa struttura portante; il che significa praticamente ripensarci su».
La questione relativa alla falsificazione scientifica in termini sociologici dello Standard Scientific Article (SSA), le differenze tra il modo personale di sviluppare i propri pensieri e l’ordine nel quale essi vengono presentati agli altri, è estremamente importante e feconda per la comprensione sociologica del progresso della ricerca perché in vario modo le discrepanze tra l’effettivo corso di un’indagine scientifica e la sua documentazione pubblica, nel momento in cui il saggio o la monografia scientifica vengono presentati, fanno sì che la documentazione pubblica della scienza non sia di per sé in grado di fornire parte significativa del materiale necessario alla ricostruzione del corso effettivo dello sviluppo scientifico. È insomma la storia stessa della scienza a suggerire che genio, caso e organizzazione sono tre fattori fondamentali per il buon esito della ricerca scientifica. E che gli articoli, i saggi, le monografie che tralasciano di dare conto di intuizioni, false partenze, errori, conclusioni approssimative, risultati accidentali che caratterizzano il lavoro di ricerca, per usare ancora le parole di Feynman, finiscono con l’essere di impedimento al progresso scientifico.
Una ulteriore e in questo contesto conclusiva sollecitazione è quella che si riferisce alla possibilità di ampliare e rendere maggiormente feconda l’area di intersezione nella quale il concetto di Serendipity può essere usato per comprendere la struttura del lavoro scientifico e le rivoluzioni da esso prodotte. L’idea è che tale possibilità si dimostri tanto più concreta quanto più si sposta l’accento, fino ad invertire la priorità, dalla prospettiva psicologica a quella sociologica, dal talento all’organizzazione, dal personale al sociale.
Tra gli argomenti a sostegno di questa tesi si può ricordare, da un lato, che il rapporto tra il genio e la scoperta serendipitosa è di per se stesso un fatto sociale, perché è sociale il genio ed è sociale il sapere in quanto luogo della relazione, com’è dimostrato in maniera semplice ma niente affatto banale dal fatto che il “genio” (italiano, indiano, pakistano, ecc.) ha quasi sempre bisogno di un laboratorio Usa, giapponese, inglese, francese, nel futuro prossimo venturo cinese, per rendere manifesta la propria genialità; dall’altro, che i processi di Serendipity sono più fecondi e accadono con maggiore frequenza laddove esistono sistemi forti di relazioni internazionali e si determinano quelle occasioni di confronto che sono fondamentali per creare innovazione.
Dato questo sfondo, diventano più evidenti le ragioni per le quali è utile che i governi delle organizzazioni scientifiche siano aperti alla possibilità di vedere messe costantemente in discussione convinzioni e assiomi consolidati e che le comunità scientifiche siano maggiormente esposte a sollecitazioni diverse da quelle cui sono abituate.
Il genio è insomma fondamentale ma non basta. La qualità va organizzata. I talenti vanno coltivati. Per fare sistema. Creare opportunità. Promuovere i cervelli che si hanno in casa. Attrarre quelli che provengono da altri paesi.
Se tutto questo è almeno in parte vero, la domanda per certi versi impossibile si riferisce alla possibilità di adottare uno di quei «neologismi che si rendono necessari per descrivere fenomeni appena scoperti e idee appena emerse».
La questione è di quelle rilevanti perché le parole e ciò che esse definiscono sono importanti. Ludwig Wittgenstein, nelle prime pagine delle sue Ricerche filosofiche, scrive che «[…] ogni parola ha un significato. Questo significato è associato alla parola. È l’oggetto per il quale la parola sta». Senza le parole e i loro significati, senza il linguaggio, la realtà, questo imprevedibile e affascinante miscuglio di cose, fatti, ragioni, passioni, sentimenti, sarebbe inaccessibile, dato che non si saprebbe come comunicarla e dunque come condividerla. Riconoscere l’importanza delle parole vuol dire dunque riconoscere le loro connessioni con gli specifici ambiti e significati ai quali esse si riferiscono, significa riconoscere la necessità di usarle in maniera appropriata.
Nel caso specifico la domanda per ora impossibile potrebbe essere così formulata: il concetto di Serendipity così come è stato qui prospettato presenta caratteri tali di novità da richiedere l’adozione di un neologismo e una nuova definizione? O, anche, c’è una parola più adatta per definire il concetto di Serendipity così come fin qui è stato delineato?
Per sua stessa definizione la domanda per ora impossibile è destinata a rimanere qui senza risposta. Il fatto stesso di averla formulata non è però senza conseguenze. Non solo perché può rappresentare il pretesto per futuri, proficui, vagabondaggi sociologici. Ma anche perché la formulazione della domanda, la determinazione di ciò che con essa effettivamente intendiamo e possiamo definire, è in vario modo connessa alla possibilità di rintracciare, presto o tardi, una risposta.
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Intorno al concetto di Serendipity e alle sue prospettive nell’ambito della ricerca scientifica
Scienze e Ricerche n. 33, 15 luglio 2016, pp. 5-10
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Indice delle voci
Nella foto inedita, al centro, il grande Robert K. Merton nel 1987 ad Amalfi in occasione del Premio Nazionale di Sociologia.
Grazie di cuore al mio amico prof. Sabato Aliberti, il primo a sinistra nella foto, per avermela inviata.