Boston, 29 Ottobre 2014
Caro prof.,
ricordo ancora il giorno della discussione della mia tesi di laurea. Non so se quello è stato il giorno della svolta, o, semplicemente, uno dei tanti attimi importanti di un più lungo processo di cambiamento, forse entrambi, o forse ho dato solo una spinta a quello che era il mio destino o, ancora, ho cambiato quest’ultimo affinché fosse molto simile, se non uguale, a quello che volevo io, “la ribelle” della famiglia, “the trouble maker” come direbbero gli inglesi.
Ma andare contro le tradizioni della provincia meridionale italiana significa davvero essere ribelli? E non faccio riferimento alle tradizioni buone, quelle che sono portavoce di una cultura storica che va tramandata; mi riferisco a quelle che ci bloccano li dove eravamo secoli fa e non ci fanno crescere, quelle che ci differenziano dal resto del mondo, ma con una nota negativa, perché secondo me è evidente che noi italiani non riusciamo a stare al passo, che ci siamo persi dei passaggi evolutivi importanti.
Sto divagando, lo so, mi sa che le mie capacità di sintesi sono peggiorate, ma giuro che è colpa della passione e dell’amore che ho per il mio Paese.
Dov`ero, ah, al fatto che ricordo ancora il giorno della discussione della tesi di laurea: la mattinata era finita, tutto era andato per il meglio e a me non restava che festeggiare e preparare le valigie. Eh si! C`è chi decide di prendersi una pausa dopo l’università, chi fa un viaggio, e chi, invece, pensa all’università come al primo passo “pensato” di un viaggio chiamato futuro.
Ero lì felice per il traguardo ed eccitata per quello prossimo, ma volevo anche che i miei genitori fossero meno preoccupati per la mia partenza. Fu per questo che decisi di farmi aiutare da lei, che immagino non sapesse dell’aiuto che stava per darmi quando mi avvicinai fuori dall’aula per fare due chiacchiere. Ero sicura che lei avrebbe appoggiato la mia decisione di andare a Milano a fare un master, così come ero sicura che mio padre si sarebbe tranquillizzato sentendo che lei, il prof. con il quale mi ero appena laureata, mi appoggiava.
Quello che né io e né mio padre potevamo sapere è che lei avrebbe fatto molto di più, mi avrebbe fornito quel dettaglio a cui non avevo pensato ma che ha decisamente fatto la differenza nel mio percorso professionale. Ricordo perfettamente le sue parole:
“Se vuoi veramente che questo Master abbia un senso, affiancalo a un Corso di Inglese. Sarà un anno duro per te, lo so, ma sono veramente pochi I traguardi raggiungibili senza una buona conoscenza della lingua inglese”.
Perché non ci avevo pensato? Forse per paura di chiedere troppo a me stessa, forse perché il master, per quanto a formula ridotta, un solo anno, prevedeva 8 ore di classi giornaliere: quando avrei trovato il tempo per studiare l’inglese? E invece non solo trovai il tempo di fare quello, ma feci anche lavoretti qua e là che mi aiutarono a pagare le bollette li a Milano e aggiunsero un minimo di esperienza lavorativa al mio curriculum.
Prof. non esagero, quell’anno ho studiato e lavorato per circa 14 ore a giorno, fine settimana inclusi, il tutto senza perdermi “le stravaganze” della giovinezza. Perché no, non si può fare una scelta tra lavoro e felicità personale altrimenti prima o poi o perdi il lavoro o perdi la felicità. Per me la chiave è riuscire a tenerli assieme, a fare in modo che si intreccino, insomma cercare di prendere i classici due piccioni con una fava.
Fu lì, in quell’anno, che capii che lavorare duro e divertirsi è possibile!!! Basta capire quello che ti piace fare nella vita e fare di quello il tuo lavoro.
La mia passione al tempo era, lo è tuttora, viaggiare, ma facendolo in maniera educativa, scoprendo culture diverse, amalgamandocisi, e cambiandosi. Non credo sia mai esistita una sola Milena e questo forse è stato il mio punto di forza: essere open – minded!
Insomma, laurea in Comunicazione, Master in Martketing, Comunicazione e gestione Eventi, brevi esperienze lavorative in sales, marketing e PR per diverse piccole realtà in Italia e poi mi son sentita pronta per il passo successivo: lasciare il mio Paese.
Vidi un annuncio per uno stage in Svizzera per una compagnia leader nei corsi di lingue, impegnata nell’organizzazione di viaggi culturali per studenti, principalmente americani. L`annuncio, così some il colloquio e gran parte del lavoro, erano in inglese, e benché non mi sentissi del tutto pronta per definirmi una utente autonoma, decisi di provarci.
Come è andata a finire sono certa che lei lo ha già immaginato: sono rimasta in quell’azienda, passando da internista a coordinatrice, poi a manager di area fino a diventare direttrice regionale (il tutto in quattro anni e mezzo).
Sinceramente non speravo di far tanta carriera, di sicuro non così presto, e invece ho imparato che la determinazione assieme a tanta passione ci può portare dove non crediamo di arrivare.
In cosa è consistito il mio lavoro? Aiutare gli studenti a fare un po’ quello che ho fatto io, con l’unica differenza che loro sono principalmente americani e più piccoli, studenti delle scuole medie. Gli facciamo capire quanto non esista educazione che renda senza conoscere la realtà al di là del loro giardino di casa, insomma li portiamo nel mondo, a scoprire quanta disparità e quanta similarità ci possono al contempo trovare.
Detto in modo molto riduttivo, organizziamo viaggi educativi, quelli in cui si visitano musei, si comprende la storia, si assaporano usi e culture di un determinato paese, il che dal versante del lavoro mio e del mio team vuol dire definire gli itinerari, mettere assieme i programmi scolastici, organizzare visite a musei e istituzioni di tutti i tipi, Vaticano compreso, e insomma viaggiare, viaggiare, viaggiare per fare in modo che tutto questo sia possibile.
Sono stati gli anni più belli della mia vita! E uso il passato perché due anni fa ho iniziato un’altra avventura, quella attuale, insomma l’esperienza americana.
Nel 2012 infatti la compagnia per la quale lavoro mi ha chiesto di trasferirmi a Boston per ricoprire il ruolo di direttrice del prodotto viaggi domestici. Non mi sarei dovuta preoccupare di nulla; avrebbero pensato a tutto loro: visto, trasloco e quant’altro.
L`unica cosa a cui avrei dovuto pensare era conoscere gli Stati Uniti così come conosco l`Italia e fare negli USA quello che avevo già fatto in Svizzera.
Certo, sono delle belle agevolazioni – ho pensato. Però, accipicchia, gli USA sono giusto un tantino più grandi dell’Italia e sarei passata dal dirigere un team relativamente piccolo a uno ben più grande. Ce l`avrei mai fatta? Bhé, in realtà continuo a chiedermelo, però continuo anche a pensare a mia nonna che mi diceva sempre: “chi non risica non rosica”. Sia sincero prof. a chi non piace rosicare? E quindi eccomi qui, a farmi promotrice dell’educazione per quella che sarà la nostra futura generazione, cercando di fare la mia parte per abbattere le barriere di un mondo che non deve lasciare spazio all`ignoranza!
Aprirsi, mescolarsi, confrontarsi, cambiare: sono queste le parole chiavi del nostro secolo, e per parte mia vivo con la soddisfazione di sapere che sto seguendo il cammino giusto per me, quello che mi sono scelto, anche se mi rimane un po’ di amaro in bocca quando penso al mio Paese.
Dove stiamo andando noi? Quali opportunità diamo ai nostri ragazzi affinché essi siano dei vincitori? Quali strumenti diamo loro per fermare quella che anni fa è iniziata come fuga dei cervelli e oggi è diventata fuga di pre-formazione del cervello?
Lo leggevo proprio stamane su un importante quotidiano italiano: “Ormai la fuga dal Bel Paese non riguarda più soltanto i “cervelli”, ovvero coloro che, già laureati, cercano all’estero occasioni di lavoro che qui non trovano; cominciano adesso a fuggire anche quelli che il “cervello” devono ancora formarselo, ovvero gli studenti della scuola secondaria che sfruttano la normativa europea sugli scambi culturali e che sempre più spesso si orientano a trascorre l’intero quarto anno, o anche soltanto qualche mese, in un paese straniero”.
E noi che facciamo? Stiamo lì a guardare o, addirittura, a incentivare il nuovo trend perché, giustamente, vogliamo una rappresentanza italiana nel futuro del mondo e siamo consapevoli che questo l’Italia non ce lo può dare? O non sarebbe forse meglio utilizzare le nostre risorse affinché sia il sistema italiano a cambiare?
Si, è vero, ci sarà da lavorare, ma è anche vero che noi italiani siamo riconosciuti all’estero come hard worker, perché allora non potremmo lavorare duro per noi stessi? Lo so che gli ambiti intorno a cui lavorare e migliorare sono tanti, a partire dalle scuole, ma io credo che il potenziale ci sia.
Io penso che sia ora che anche noi cominciamo a scrivere “Italiani” con la I maiuscola. E a chi ci crede io dico “non sei solo!”.
Questo è tutto prof., mi scuso se sono stata troppo lunga, ma ci sono tanti episodi, riflessioni e sentimenti che ritengo siano stati fondamentali nel mio percorso professionale e personale e che non avevo mai condiviso; il suo lavoro per affermare in Italia la cultura del lavoro ben fatto mi è sembrata un’occasione giusta per farlo.
Milena
Napoli, 30 Ottobre 2014
Cara Milena,
grazie per la tua bella lettera. Tu non lo sai ma io in questi anni ho raccontato spesso di te e della tua determinazione, ti ho “usata” come esempio per i più giovani, ai quali ho detto di come mi avevi colpito il giorno della prova intercorso, quando mi avevi presentato quel tuo progetto sulla Ferrari, dal quale poi è venuta fuori l’idea della tesi, e della meraviglia mista a senso di colpa quando mi avevi spiegato che a volte la mattina sembravi distratta perché spesso la sera lavoravi fino a tardi, perché alla tua età era giusto rendersi almeno in parte indipendenti.
Ti assicuro però che l’attenzione si fa massima quando racconto del giorno della tesi, che dal mio versante non l’ho vissuta del tutto come l’hai raccontata tu, nel senso che mi ricordo che mi chiedesti prima di darti una mano a “convincere” tuo padre, e ricordo il mio pudore a intromettermi, di fatto “abusando” del mio ruolo, in una faccenda tanto privata che in vario modo toccava la sensibilità e i convincimenti di una persona, tuo padre, che non avevo mai visto prima in vita mia.
Sul perché decisi di farlo non devo dire niente, dici tutto tu con la tua lettera, aggiungo solo che a volte anche pochi minuti, secondi, possono essere un’eternità, e in questa tempo parallelo io prima decisi per il si e poi pensai a che cosa gli avrei detto, questo: “Caro signor Annunziata, innanzitutto molto piacere e complimenti per sua figlia, che è una ragazza davvero in gamba. Guardi, non le parlo da prof., perché non sarebbe giusto, le parlo da padre, e le dico che come padre io mi sono apposto alla possibilità che il mio primo figlio ai tempi del liceo facesse un’esperienza all’estero di un anno, e dopo me ne sono pentito molto, perché ho capito di essermi comportato come uno stupido. Ecco, non ho molto altro da aggiungere, se non una cosa che lei sa molto meglio di me, che questa ragazza ha la testa sulle spalle, e se lei acconsente che vada a Milano si farà valere.”
Dopo di che ci siamo stretti la mano con affetto, ci siamo lasciati e solo qualche tempo dopo ho saputo da te che stavi a Milano, e dopo altro tempo in Svizzera e poi negli Stati Uniti, e tutto questo mi ha reso ogni volta molto felice e un po’ triste, molto felice per te e un po’ triste per l’Italia.
Ecco, questo è tutto, grazie ancora per la lettera, l’Italia con la I maiuscola ha bisogno di persone come te, proviamo a farci venire qualche idea, che sarebbe davvero bello riuscire a costruire qualche cosa assieme.
Vincenzo