Caro Diario, a Daniela Sansone ho chiesto di raccontare la sua storia a Maggio del 2019, è arrivata qualche giorno fa, ma il premio della pazienza è stata la bellezza e perciò sono contento assai. Quello che ha scritto lei all’inizio te l’ho messo alla fine, è bello, ma la sua è una storia da entraci dentro dall’inizio, perciò faccio soltanto un’eccezione, per questa frase qui: “La poca memoria o meglio il dimenticare è il mio pregio, perché dimentico il male e perdono, e difetto, perché perdo occasioni, cose, date e tanto altro”.
Non ho altro da aggiungere, se non che forse ritorno alla fine. Buona lettura.
Ciao Vincenzo, sono una ragazza o meglio una “zita” cilentana di 37 anni, in altri tempi a zita avrebbero sicuramente aggiunto il suffisso ella.
Ho vissuto sempre nel mio paese di nascita, Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, con qualche breve gita fuori porta. Mia mamma si chiama Filomena, casalinga, ed è per metà partenopea e per metà cilentana. Papà Pantaleo, vigile del fuoco ora in pensione, è cilentano al 100%. Infine c’è mio fratello, Giuseppe, di 3 anni più piccolo di me.
Attualmente lavoro e gestisco Villa Marchesa, un agriturismo sito in Castelnuovo Cilento, insieme a Cristian Santomauro, che è il mio compagno di vita, collega, socio, il critico più cattivo ma anche mio sostenitore, insomma colui che mi sprona a fare sempre meglio.
Ho conosciuto Cristian quando lavoravo in un agriturismo del suo paese, Piano Vetrale e da lì non ci siamo più lasciati e anzi abbiamo unito le nostre forze e passioni, io con la mia cucina cilentana e lui con la sua Ammaccata, l’antica pizza cilentana, da anni lui porta avanti il suo progetto di recupero di questa antica tradizione ed ora lo facciamo insieme.
Il tempo mi ha permesso di capire quanto questo lavoro possa darti – mi ha fatto conoscere persone, storie, sono andata in tv per eseguire le mie ricette cilentane, ho partecipato a show coking dove ho conosciuto lo chef Carlo Cracco, interviste radiofoniche, filmati divulgativi sulla cucina cilentana, manifestazioni – ma anche quanto può toglierti, per esempio è assai difficile portare avanti un rapporto di coppia o essere presenti in famiglia, gli orari sono impossibili, si lavora quando gli altri fan festa. È difficile per un uomo Vincenzo, quasi impossibile per una donna, a meno che il lavoro e il luogo di lavoro non diventi il fulcro della tua famiglia.
Scrivendoti, ho pensato che sembra sempre che facciamo poco nella vita, ma se ci fermiamo a pensarci su vengono fuori tante cose fatte, tante piccole esperienze.
Mi sono diplomata a 18 anni presso l’istituto tecnico prima e poi, più avanti, presso quello alberghiero.
Come mai? Beh, da piccoli è abbastanza difficile avere le idee chiare e comuqnue io non le avevo.
Una volta diplomata, ho subito cercato di rendermi autonoma lavorando come ragioniera: scrivania, computer, scadenze, orario di lavoro. Ho tentato anche qualche concorso, sai, i genitori pensano che nel posto fisso ci sia la felicità. Ricevetti anche una telefonata da Milano per lavorare in una azienda come contabile, ma i miei ovviamente non erano d’accordo nel farmi andare così lontano, da sola poi.
Ero brava a scuola. Pensai anche di andare all’Università ma un po’ perché non sono stata invogliata a farlo, un po’ perché non volevo gravare sul bilancio della mia famiglia, mi convinsi che era meglio lasciar perdere. Ti devo dire che spesso ci penso, chissà, mai dire mai, magari mi iscriverò all’università della terza età.
Ho fatto anche un pò di doposcuola per arrotondare. E sono stata anche un’allenatrice di pallavolo per bambini dai 3 ai 12 anni. Mi piaceva moltissimo stare con loro, adoro lavorare con i bambini, ti trasmettono una carica ed un’energia straordinaria e poi la loro spontaneità è ciò che li rende speciali.
Ricordo che una volta ho fatto anche da assistente al veterinario del mio gatto. Mi disse che ero stata coraggiosa, solo che appena finito l’intervento sono uscita dalla sala operatoria e sono svenuta! Quindi so per esclusione che non sarei mai potuta diventare infermiere o medico perché alla vista dei punti svengo!
Dopo che ho lasciato lo studio contabile – i miei genitori non furono contenti – ho fatto qualche altro lavoretto tipo la cameriera, la segretaria, l’operatrice di call center.
A 30 anni decido finalmente di seguire la mia grande passione, quella che è stata sempre lì, che mi ha accompagnato e aspettato silenziosamente: l’amore per la cucina.
Così decido di ritornare sui banchi di scuola, i miei genitori continuano a non essere contenti, e mi iscrivo al serale dell’alberghiero. È iniziata da lì questa mia nuova avventura.
Vincenzo, non è stato affatto facile ricominciare tutto da zero, però che ti devo dire, è stata un’esperienza semplicemente fantastica! A un’età più matura si affronta tutto con maggiore consapevolezza, si è molto più curiosi, più partecipi alle lezioni, si interloquisce molto di più con gli insegnanti. Si riacquista anche una sorta di spensieratezza, almeno per quelle ore di lezione si ritorna ragazzini.
Pensa che ho potuto fare anche la famosa gita di fine anno! I miei genitori non mi ci mandarono da ragazzina, complice la fobia di mia nonna per i disastri su qualsiasi mezzo di trasporto, è il bello e il brutto di crescere con i nonni in casa, comunque dei miei nonni ti parlo tra poco.
Parallelamente alla scuola iniziai anche a fare le prime esperienze nelle cucine. Fin dall’inizio il mio palcoscenico è stata la cucina degli agriturismi. Da subito e da sempre “Terra e Tradizione”. Sento in me questo forte legame con la campagna. Lavapiatti, aiuto chef, commis, chef, pasticciere, panettiere, macellaio, questi i vari compiti che una sola persona doveva assolvere in cucina e quando ero più fortunata lo si faceva in due.
È un lavoro duro, è un ambiente maschilista, è un lavoro che ti lede il fisico e la mente, è un lavoro che ti spinge ad andare oltre i tuoi limiti, è un lavoro che ti costringe a prendere decisioni in frazioni di secondo e a trovare soluzioni immediate, è un lavoro pericoloso, è un lavoro di altissima responsabilità.
Ma l’amore per la cucina, anzi l’amore che provo quando cucino soprattutto per gli altri mi rende felice, mi fa stare bene.
È un lavoro che ti apre le porte del mondo, abbatte le barriere, l’ospite diventa la tua famiglia e quando vedi l’emozione nei suoi occhi per qualcosa che hai preparato è il regalo più grande che tu possa ricevere.
La chiamano food experience. Tu chiamale se vuoi emozioni.
Il forte legame con la tradizione contadina proviene dai miei nonni, ecco che ci ritorno.
Nonno Vincenzo e nonna Pippinella (Giuseppa) erano mezzadri, erano contadini, erano narratori silenziosi del loro tempo. Mi raccontavano delle tradizioni che i loro genitori gli avevano tramandato, degli stenti di due novelli sposi, dei figli che crescevano l’uno con il supporto dell’altro, di come nonostante fossero poveri contadini aiutassero chi non aveva da mangiare, perché chi coltivava la terra riusciva a portare sempre un piatto in tavola.
Nonna e le sue amiche mi raccontavano barzellette e aneddoti esilaranti di ladruncoli di frutta o di inciuci e di mariti chiusi in cantine con del buon vino, di nottate ad aspettare il turno per irrigare i campi e il ripetersi di gesti come lo sgranare del mais, dei fagioli, intrecciare le cipolle avanti a un caminetto, quando si iniziavano ad accorciare le giornate i lavori del contadino cambiavano ma non si fermavano, seguivano il lento scorrere delle stagioni.
Imparavi che con la luna piena certe cose andavano fatte e certe no, imparavi che il giorno di San Giovanni, il 24 giugno, si fa il nocino: si raccolgono 24 noci e per 24 giorni si fanno macerare in un litro di alcol. Imparavi tante cose, e io distrattamente ascoltavo, ero una bimba, una ragazzina, ma nonostante ciò non dimentico quell’aia dove con i cuginetti giocavamo alla settimana, l’ortensia vicino le vasche della fontana, il mio gattone Nerone, quel cortile, il giardino con i fiori che nonna vendeva al mercato insieme a ortaggi raccolti e messi in grossi cesti di vimini, quel focolare dove ci raccontavano storie di emigranti, spesso tristi e non sempre a lieto fine. Ma ero piccola, ero una ragazzina.
Cucinare per me è come viaggiare: mentre sono li a scegliere gli ingredienti, a prepararli, a mescolarli, la mia mente parte per luoghi diversi o spazia tra i ricordi e tra il tempo passato. Ti faccio un esempio.
Quando preparo i fusilli al ragù di braciola inevitabilmente vengo catapultata nella vecchia cucina di mia nonna, nella quale si accedeva salendo uno scalandrone in pietra e spingendo una grande e pesante porta in legno.
Il caminetto acceso, le mura tinte, le pentole appese, il tavolone centrale, la finestra sull’aia, il pavimento un po’ sgangherato e tutti lì, insieme, ognuno a fare il proprio lavoro: chi tirava la pasta, chi realizzava i fusilli con il ferretto, chi li sistemava metodicamente, tutti in linea precisi, sulle graticelle di canne e intanto quel meraviglioso sugo che pippitiava nel tiano, lento, distribuiva il suo profumo fino alle case dei dirimpettai.
So oggi come si fa il ragù nonostante mia nonna non mi avesse mai detto la ricetta. Lo so perché è impresso dentro di me, lo so perché ero lì, in quella cucina, mentre lei lo preparava e mentre io magari giocavo distrattamente, e so che sto facendo la cosa giusta perché risento lo stesso odore e lo stesso sapore.
Così come quando preparo il menù di una festa o di una ricorrenza mi ritrovo catapultata nella sala da pranzo del casale vecchio dove stavano i nonni seduta a questa grande tavola imbandita, con il servizio “buono”, quello del matrimonio, cacciato dalla cristalliera antica e con tutti i figli e i nipoti giunti da ogni parte d’Italia e quando era il decennale della Madonna delle Grazie anche dall’Australia. Devi sapere che mia nonna aveva 10 figli, fatti il calcolo aggiungendo nuore, generi, nipoti, ecc. ecc., una banda! Ma era bellissimo. È la convivialità, la gioia di stare insieme.
Ero quasi sempre presente e aiutavo in tutti i mestieri, tutte le usanze, le ricorrenze, che si facevano in casa o in campagna: la raccolta delle olive; l’uccisione del maiale e la preparazione dei salumi; i pelati, le conserve; la raccolta e la vinificazione dell’uva; l’orto; l’allevamento di piccoli animali da cortile come le galline. Il mio rammarico è non aver potuto godere di più della presenza dei miei nonni! Avrei ancora tante cose da chiedergli e tanti racconti vorrei sentire ancora.
La mie radici, la mia famiglia, i miei ricordi, il buon cibo che veniva dall’orto dietro casa, la condivisione a tavola con i parenti, ma anche con il vicinato, il rispetto per le persone anziane, tutto questo e tanto altro mi hanno reso quella che sono, i miei valori, la mia forza e le mie debolezze, le mie insicurezze, hanno influenzato il mio carattere, le mie scelte e inevitabilmente il mio lavoro.
In fondo un quadro, una poesia o un piatto non sono l’espressione di te stessa?
Delicatezza, semplicità, equilibrio sono gli aggettivi più usati per descrivere i miei piatti dai sapori distinti, estetica pulita, stretto legame con il territorio. Considero il passato il nuovo futuro e i ragazzi non devono dimenticare o rinnegare le proprie origini, la vocazione del proprio territorio – troppi mestieri si sono persi o si stanno perdendo – e usare la cultura e l’istruzione per essere liberi, per affrontare il proprio lavoro con maggiore consapevolezza, per apportare innovazione e tecnologia per poi proiettarsi in avanti nel futuro.
Ti racconto per ultimo quello che mi avevi chiesto all’inizio, insomma un po’ di me.
Ho frequentato una scuola di ballo liscio da ragazza per tre anni, il ritmo è dentro di me, di conseguenza amo la musica. Suonavo anche il pianoforte da bambina, i miei mi mandavano da una vicina di casa, bello si ma non era per me e così chiesi di poter giocare nella squadra di pallavolo del mio paese, preferivo muovermi e stare con gli altri bambini. Ho giocato a pallavolo in modo agonistico per almeno 15 anni senza mai smettere fino a quando non ho iniziato la scuola serale; calcio, calcetto, atletica, pallamano e pallavolo nella squadra delle superiori.
Ho imparato grazie anche a mia madre uncinetto, maglia, punto croce e ricamo. Bisogna almeno sapersi rammendare un calzino o attaccare un bottone o fare un orlo no? Sopravvivenza domestica!
Disegno e dipingo quando le mie emozioni non riesco a contenerle e a volte qualche piccola poesia. Con questo non voglio dire che sono ne un’artista o un poeta, penso solo che i mezzi attraverso i quali una persona può esprimersi sono davvero tanti.
Adoro fare giardinaggio, acquariofilia era un’altra passione che coltivavo da ragazza, infatti avevo allestito un piccolo acquario in casa e avevo anche progettato e realizzato un piccolo stagno in giardino.
Ho avuto, allevato e curato tanti tipi diversi di animali: cani, gatti, uccellini, galline, papere, tacchini, conigli, pesciolini, pipistrelli, colombi, rondini, topolini, criceti, ricci.
Ho frequentato corsi formativi di vario genere: inglese, primo soccorso, cucina, barman, programmi per pc, sommelier, assaggiatore di formaggi, stage di cucina in Italia e all’estero.
Mi piace molto leggere, sulle mie librerie trovi vari generi, i manuali ad esempio mi piacciono molto.
Mi piace viaggiare e da ogni viaggio ritorno con qualcosa di nuovo che sia un’idea, un pensiero, un cibo, un profumo, una conoscenza.
Il mio colore preferito è il verde e odio quando non vengo creduta o quando mettono in dubbio le mie parole perché sono una persona sincera. Di conseguenza odio la falsità e l’ipocrisia.
Ascolto molto, infatti mi ritrovo ad essere la confidente e consigliera di molti al contrario io difficilmente mi confido. Per dare consigli agli altri sono brava e molto oggettiva mentre per me sono veramente un disastro.
Ecco caro Diario, questa magnifica storia finisce così, adesso posso condividere quello che Daniela ha scritto all’inizio, che come ti ho detto pure è bello. Vai!
Ciao Vincenzo, forse non ti ricorderai neanche di avermi chiesto di raccontare la mia storia. Hai ragione, è passato un po di tempo, ma nonostante questo ho voluto scriverti e rispondere alle tue domande. Troverai tutto nell’allegato. Ti mando un caro abbraccio
Daniela Sansone
Rieccomi Vincenzo, ho ricevuto la tua email nel Maggio 2019, ed essendo io molto, troppo, riflessiva e insicura, ho fatto passare del tempo, poi è arrivata l’estate e i ritmi serrati ti impediscono di pensare e di dedicarti a qualsiasi altra cosa, tanto da trascurare anche te stessa. Alla fine accantoni, dimentichi, senza volere!
Poi è arrivato Marzo 2020 e sono andata in black-out totale! Lockdown, pandemia, immunità di gregge, DPCM, recovery fund, MEF …boh! Parole fino a prima sconosciute o non utilizzate si sono tradotte in 3 mesi chiusi a casa senza lavoro.
A Giugno abbiamo riaperto con la solita frenesia ma con l’ansia che non mi mollava mai, per poi ricominciare, a fine Settembre, di nuovo una lenta agonia.
Ho ordinato il tuo libro “Il lavoro ben fatto”, ma prima di leggerlo ho voluto riprendere la tua email e provare a rispondere. Lo faccio per me, ci devo provare, devo ricominciare da un punto, anzi da un punto interrogativo: quello delle tue tre domande.
Riuscire a parlare di se stessi non è cosa facile, non tutti ci riescono, non tutti vogliono capirsi o ascoltarsi e tanto più difficile è trovare chi ti ascolta e per questo oggi 30/11/2020 apro il pc e scrivo.
Ricordo perfettamente quando ti incontrai per la prima volta, ti ascoltai attentamente, lì, sotto quegli ulivi maestosi. Affascinante e coinvolgente era la tua voce e le storie che raccontavi ai tuoi giovani spettatori.
Ci presentarono, ci stringemmo la mano, tu di rimando, così senza conoscermi, ti interessasti a me chiedendomi di raccontarti semplicemente la mia storia, il mio lavoro.
Se la pubblicherai o se sarà di poco interesse non importa, perché per me è stato un bell’esercizio per l’anima e già per questo ti ringrazio.
D. S.