New York New York

Caro Diario, Giuseppe Jepis Rivello sta da quasi due settimane a New York, invitato da Pietro Costa, fondatore di Bacas, ti consiglio di non perderti i suoi Appunti Americani, come del resto sto facendo io, che se lui uno come lui potesse stare un anno intero a Big Apple penso che si inventerebbe una nuova edizione de Le mille e una notte, o anche, meglio, de Lo cunto de li cunti, così l’ancoraggio alle nostre radici sarebbe da subito evidente. Che ti devo dire, io ieri sera mi sono addormentato con il sapore dei suoi racconti nelle nostre prossime giornate a #Cip, alle tante storie che ne verranno fuori, ai pensieri, ai sogni, che a furia di ripetercelo ci stiamo cominciando a credere che “se lo puoi sognare lo puoi fare”.

 

Come puoi immaginare con Giuseppe a New York non mi sono voluto perdere il colpo, con discrezione, cercando di non essere invadente, perché se ci fossi io per due settimane lì cercherei di non dormire mai per non perdermi neanche un minuto o una possibilità, e lui è peggio di me, più resiliente come si dice adesso, e non solo per l’età.
L’idea per ritagliarmi un posticino nelle sue giornate americane mi è venuta leggendo questo bellissimo post che Jepis ha pubblicato – commentando questa notizia – prima sui social e poi sui suoi Appunti:
Il biglietto di sola andata è il dramma. Non andare a scoprire il mondo ma la convinzione di non tornare più perché non c’è nulla da fare. C’è tanto da fare nelle nostre terre. Dobbiamo invertire la rotta del pensiero, invertire la rotta dei sogni. Sognare al contrario, sognare di poter creare reddito, di poter cambiare lo stato delle cose, sognare e realizzare.
Chi resta ha il dovere di tenere acceso il punto di contatto, di continuare a costruire spazi di discussione dove alimentare i sogni di chi è già andato e vorrebbe tornare, di chi è ancora qui ma sente solo il bisogno di andare.
Non dobbiamo dare risposte ma porre nuove domande:
Come faccio a creare valore con le mie competenze, oggi, nel 2020 e come lo farò nel 2030?
Cosa ci fa la mia terra nel mondo? che vocazione ha, che ruolo vuole giocare?
Quanto posso cambiare partendo da domani mattina? immediatamente? E come tutto questo mi può portare verso la sostenibilità?
Sono le 5:27 del mattino e sto scrivendo da New York pensando che la mia personale provocazione sia che oggi, per molti di noi, sia veramente possibile vivere con un piede nella propria terra, uno nel mondo e con la testa in rete.

In risposta alla sua personale provocazione, io ho scritto questo:
Questa volta – per allargare la discussione – la prendo dal lato opposto da quello di Giuseppe Jepis Rivello e mi chiedo: Perché se avessi 20 anni o anche 30 dovrei restare in Campania dove la qualità della vita è pessima, dove non funziona quasi niente, dove vivere è più difficile, dove qualunque cosa decido di fare costa più fatica? Per me se non rispondiamo con serietà e rigore a questo “perché” i nostri restano solo buoni propositi, il che naturalmente non vuol dire che non ci possano essere casi di successo, ma per quanto possano essere numerosi restano casi, dal punto di vista del fenomeno sociale i giovani continueranno ad andarsene, io stesso se avessi 20 – 30 anni e non 64 non penso che resterei a Napoli. Per me c’è una dimensione politica oltre che sociale della questione che è sempre più ineludibile, e poiché capacità di dare risposte politiche in giro non ne vedo, faccio fatica a essere ottimista. Dopo di che nel mio piccolo resto in campo ogni giorno, a prescindere, ma il passaggio dalla testimonianza al cambiamento è tutto da costruire, i casi di successo non bastano, ci vuole visione, pensiero politico, capacità di risolvere i problemi a livello sociale e non solo individuale.

Dopo di che lui ci ha affettuosamente messo un punto così:
Hai ragione Vincenzo dobbiamo fare dei passi in avanti. Abbiamo il dovere di passare a un livello successivo, dobbiamo essere più incisivi. Sono convinto che il processo sia lento ma qualcosa per accelerare dobbiamo farla. Ognuno per la sua parte, ognuno per il suo ruolo e per il suo scenario di riferimento. Dare alla normalità le caratteristiche di quelle che oggi sono le eccezioni.

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Quando qualche giorno dopo gli ho detto che avevo voglia di inviargli 3 o 4 domande e di pubblicarle con le sue risposte non mi ha detto di no, anzi quando gli ho scritto la prima mi ha detto che era bella, e che questo gioco gli piaceva, però adesso mi fermo amico Diario, quello che ne è venuto fuori lo leggi tranquillamente da solo.

1. Andare e Restare
Allora Jepis, come sai l’idea è di partire dal tuo post e dalla mia risposta. Lasciando perdere amici, famiglia e tutto il resto, tu in quanto Jepis, dopo 10 giorni che stai lì, riscriveresti le stesse cose?

Ciao Vincenzo, non ti nascondo che New York mi è piaciuta da subito, più di molti altri posti che ho visitato per lavoro o per piacere. Mi focalizzo sulle cose che riguardano il lavoro. Questo posto mi ha dato da subito una sensazione avvolgente e incoraggiante ma allo stesso tempo mi ha anche comunicato una competitività ad altissimo livello. Due cose che da noi non sempre si trovano.
Ho riletto quel post un sacco di volte in questi giorni anche perché ha giocato un ruolo strano in questa parentesi americana. L’ho scritto appena sono arrivato ed è stato quasi come un razzo di segnalazione che ho mandato verso la mia terra per dire: sono qui, sono arrivato, ma ritornerò presto.
Oggi, tu, mentre sono in procinto di tornare a casa mi chiedi se lo riscriverei. Credo proprio di si, forse aggiungerei qualche altra domanda alla fine ma di sicuro non cancellerei nulla. Cambiare la rotta dei sogni, sognare di fare qualcosa nella propria terra è vitale per quanto mi riguarda. Anche le persone che ho incontrato qui sembrano confermarlo.
In questi giorni ho avuto a che fare con persone che hanno l’Italia nel cuore e sentono il bisogno forte di restituire qualcosa alla loro terra. New York ha rafforzato in me l’idea di restare a Cip e di continuare a provarci. Creare legami per non isolarci ancora di più.
Ecco, una cosa che sicuramente ho imparato è che dobbiamo rimanere con la valigia sempre pronta, ma non per andarcene, per andare e tornare.
Quello che ho scritto in quel post ha a che fare con un processo che tu definiresti di sensemaking. Mi spiego meglio: per quanto mi riguarda la questione del lavoro è strettamente legata alla creazione di senso che questo attiva nel posto in cui decidi di vivere e lavorare. Lavoro per costruire senso e spero che tanti lo facciamo oltre a me.
Infine tu mi chiedi di risponderti in quanto Jepis, escludendo tutto il resto, e io ti seguo volentieri nell’esercizio, però ti dico pure che Jepis senza tutto il resto non sarebbe quello che conosci.

2. New York e Cip
Se tra le tante cose immateriali che ti porterai da new York a Cip ne dovessi scegliere una sola – fai conto che all’aeroporto c’è un’intelligenza artificiale che ti cancella dalla memoria tutte le altre prima che parti – quale scegli di riportarti indietro e perché. Magari partiamo da qui e poi facciamo la stessa operazione al contrario, da Cip a New York.

Non c’è una sola cosa, come non c’è una sola storia, tra quelle che ho ascoltato, che mi porterei, perché sono tante, belle, e tutte diverse tra loro. Comunque ci provo.
Mi porto la forza e la determinazione con cui i bravi Italiani si sono fatti valere in queste terre ed il modo in cui hanno saputo gestire le loro vite e il loro lavoro e adattarsi al contesto, forse, ricreandolo e modellandolo sulla base anche della loro cultura.
Se poi però rimane un piccolo spazietto nella valigia e me lo permetti ci infilo una persona, Claudia, attrice e fisioterapista, che mi ha raccontato che in Italia si stava comunque avviando con il suo lavoro ma non era pienamente soddisfatta. Arrivata qui, il suo approccio lo ha dovuto “formattare” come dice lei, ha creato un metodo, riconosciuto e registrato, con il quale si sta facendo strada. Beh, quel fatto di dover “formattare” affinché le cose che facciamo possano comunicare meglio ed essere riconosciute forse un po’, a noi italiani, ci manca.
A proposito, scusa, ho visto che nell’angolo della valigia c’è ancora un piccolo spazio e quindi mi porto pure la maestria nel creare collaborazioni di valore, lo stare insieme “per”, questo si che è un punto sul quale dobbiamo lavorare tanto.
Da Cip ma non solo, dall’Italia intera, porterei qui a New York un po’ di belle teste e dei loro sogni, troverebbero un bel contesto. A questo proposito la missione di Bacas va molto in questa direzione, e a questo proposito mi piace dire che il suo fondatore, Pietro Costa, è stato lungimirante quando ha pensato che si potesse creare un “ponte” basato sui talenti e sulle persone di valore che da New York potessero andare verso l’Italia e viceversa.

3. Maestro e Allievo
La figura del maestro e il suo rapporto con l’allievo. Per quanto tu possa aver percepito in una decina di giorni, che caratteristiche tiene uMastru made in New York? Quali sono le differenze che hai percepito o anche solo immaginato rispetto al mio Mastro Giuseppe o al tuo uMastru?

Avendo ascoltato molti racconti ti dico che quello che mi è saltato di più all’orecchio è la capacità di lasciare libere le persone di scegliere il proprio percorso di crescita personale.
Ho conosciuto un musicista straordinario, JT Lewis, che ahimè non sono riuscito ad intervistare ma che in questo Ted un po’ ci parla di questo argomento e del suo approccio.
E poi ti consiglio di non perderti il racconto di Monica Castiglioni.

 

L’altro aspetto è che anche qui sembrano essere convinti che talento e la passione si alimentano con il sacrificio e con il rispetto di chi ne sa più di te. Ecco, fatta questa riflessione aggiungo che qui ho trovato molto di uMastru, e che la cosa non mi stupisce, penso che con tutti i cervelli e le maestranze che questa terra ha accolto doveva per forza essere così.

4. Money & Freedom
Soldi e Libertà. Aldilà della retorica, nella New York che stai avendo la possibilità di conoscere qual è la relazione che sei riuscito a cogliere tra queste due parole chiave?

La relazione è forte. Come ormai è forte in molti posti nel mondo. Ho la sensazione che in questo posto sia molto importante che la tua libertà sia sostenuta dalla capacità di fare le cose e farle nel modo in cui servono, a te e gli altri. Sembra che senza soldi qui non puoi fare quasi nulla ma allo stesso tempo la sensazione è che se hai voglia il modo per arrivare ai soldi che ti servono lo trovi.
Sì, sembra che ci sia accesso alle opportunità, più di altri posti. Ad esempio, rispetto ai soldi e alla libertà ho percepito che molti qui mettono a disposizione il proprio tempo e parte dei loro soldi per mantenere il livello di libertà che hanno raggiunto, per evitare che le cose degenerino, socialmente, culturalmente, politicamente.
Questa si chiama società civile lo so, e so pure cosa stai pensando, che noi in Italia la società civile con queste caratteristiche ce la sognamo. Un’altra sfumatura che ho notato è che le persone hanno poca paura ad esporsi politicamente, esprimono apertamente le proprie idee e sembrano avere maggiore sete di partecipazione, più voglia di prendere posizione. Naturalmente non so se è così in tutti gli Stati Uniti, ma qui a New York è così.

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Ecco caro Diario, per adesso è tutto, ma mi sa che ci torneremo su questa storia, le cose sono tante, come sempre ti tengo aggiornato.