Caro Diario, quando ho scritto questo racconto mio fratello Gaetano aveva perso da poco la sua battaglia contro la malattia e noi con lui, con tutto quello che ne consegue, perché anche il tempo che aggiusta molte cose non le può aggiustare tutte. Questo brano ha come protagonista il baccalà fritto, per quanto mi riguarda la madre di tutte le pietanze la sera della Vigilia di Natale. Non serve che io aggiunga altro, perciò buona lettura.
Questa vigilia di Natale la ricorderemo a lungo.
Sono contento perché so che a lui sarebbe piaciuta tanto una festa così, soprattutto gli sarebbe piaciuta l’idea di festeggiarlo con questo trionfo di baccalà, perché stasera dal primo piatto – mezzi paccheri di Gragnano con baccalà, pomodorini pachino e ceci di montagna –, al gelato – rigorosamente al baccalà –, passando per il piatto forte – il baccalà fritto –, sarà un continuo omaggio a nostro fratello e al suo piatto preferito, che se fosse stato per lui avrebbe mangiato baccalà tutti i giorni. Tanto, diceva, si può cucinare in mille modi diversi.
Ieri mattina, mentre prendevamo il caffè sprofondati sui divani di casa, Maria, Fernando e io ci siamo fatti un sacco di risate ricordando di quella volta che mancò poco che lo dovessimo portare al pronto soccorso per le ustioni alla lingua e al palato in seguito allo strafogamento di un pezzo di baccalà allora allora tirato via dalla padella.
L’opera dei pupi cominciava per la verità sin dal pomeriggio, quando arrivava e come prima cosa posizionava con cura pacchi e pacchetti sotto l’albero. La sua tesi, alla quale tutti avevamo democraticamente dovuto conformarci, era che i pacchetti non dovevano essere riconoscibili, perché altrimenti non sarebbe stato più Natale ma una festa con tanti compleanni – papà e mamma ti hanno regalato questo, lo zio quest’altro e così via –, mentre invece da che mondo è mondo i regali a Natale li porta solo Babbo Natale. E sia chiaro che valeva per tutti, grandi e piccini. Per evitare che qualcuno di noi venisse a mancare nelle cuciture, facesse insomma lo gnorri, a inizio dicembre si incaricava di portare lui la carta per tutti, poi Maria aveva il compito di consegnarla a Franco e Luigi non appena fossero arrivati, perché a Fernando ci pensava lui, gliela spediva come ogni anno a scuola.
Non ti preoccupare, – gli diceva allora nostra sorella – io appena arrivano la prima cosa che faccio gli dò la carta, a loro li saluto dopo, con calma, tanto è da Natale dell’anno prima che non li vedo, e che sarà mai. E allora lui un po’ faceva finta e un po’ si mortificava davvero, e le orecchie grandi e un po’ a sventola gli diventavano rosse, e farfugliava cose tipo «ma che significa, è per mantenere la tradizione».
Tornando all’opera dei pupi, una volta che aveva finito con i pacchetti cominciava a sfrugugliare ora mamma, ora noi, ora i nipoti, ma questa parte qua non durava molto, roba di un’ora e mezza, due al massimo, in pratica fino al momento in cui si cominciava a friggere il baccalà, perché a quel punto si metteva di piantone in cucina e non se ne andava fino a quando non ne aveva mangiato almeno una dozzina di pezzi. Maria, nostra mamma o Sofia lo cacciavano a forza di suppliche e spintoni. Lui faceva una giravolta su se stesso e rieccolo al proprio posto di combattimento. Io, Fernando e Ciro, il marito di Maria, urlavamo che non era giusto che il baccalà fritto se lo finisse tutto da solo. E lui ci intimava tra un morso e l’altro di non dire sciocchezze perché tanto ce n’era per tutti, e poi ci spiegava, ogni volta neanche fosse la prima, che a lui la sua parte piaceva mangiarla così, calda e croccante, che anzi avremmo fatto bene a seguirlo anche noi, perché poi quando il baccalà fritto sarebbe arrivato a tavola riscaldato, dopo la pasta con le vongole, l’insalata di rinforzo, la frittura di gamberi e i broccoli di Natale non sarebbe stata più la stessa cosa. A quel punto avresti dovuto spiegargli che anche il cenone fa parte della tradizione, che deve seguire anche lui certe regole perché altrimenti che cenone è, che se avessimo fatto tutti come faceva lui ci sarebbe stato chi avrebbe mangiato prima la pasta cresciuta con i cavoli, chi prima la frutta secca, chi prima le cassatine, chi prima il panettone e buonanotte al secchio, ma avresti solo perso tempo. Sì, perché lui a quel punto ti avrebbe risposto senza fare una piega che questo approccio così democratico al cenone non gli piaceva, che lui non era mica come gli altri, che lui era speciale, che il baccalà fritto per un anno intero a lui non lo cucinava nessuno e perciò una volta all’anno, la sera della vigilia, con il baccalà fritto faceva come gli pareva a lui.
Con gli anni avremmo dovuto trovare pace, in fondo l’unica scelta vincente, se non volevi finire cornuto e mazziato, nel senso che non solo si mangiava il baccalà ma ti schiattava pure in corpo, sarebbe stata quella di lasciarlo fare, anche perché di baccalà ce n’era davvero tanto per tutti. E invece no. Perché il nostro era soprattutto un modo per tenere vive le tradizioni di famiglia, compresa la guerra del baccalà e quella della frutta secca, che sarebbe arrivata più tardi, con Fernando che avrebbe interpretato la parte di nostro padre. Il boss, quando arrivavano a tavola noci, nucelle e castagne infornate, era capace di far succedere il terremoto di Casamicciola, perché mamma le portava ancora chiuse nelle buste che magari così sarebbero durate di più, diciamo fino alla Befana, mentre lui le voleva servite in un bel cesto di vimini «che non è che se ne vogliamo una in più ci dobbiamo mettere paura di aprire la busta».
Tornando alla guerra del baccalà, quella si combatteva ogni anno come si doveva combattere, fino a quella volta che per sbaglio sfilò dal piatto e si gettò in bocca, come faceva lui, con un solo gesto, il grosso pezzo di baccalà che stava sopra la carta assorbente e non sotto, e si procurò la famosa ustione. E chi se lo scorda più: cominciammo tutti, tranne mamma, chi a ridere, chi a fare festa, chi a ballare al grido di «la Madonna si è vista», non nel senso di «ci è apparsa la Madonna» ma nel senso di «giustizia è stata fatta». Forse davvero non l’avremmo finita più se nostra madre non ci avesse intimato di aiutarlo in qualche modo o di portarlo al pronto soccorso. Per fortuna bastarono gli sciacqui di acqua e bicarbonato, per fortuna per modo di dire, perché non si era ancora completamente ripreso che già aveva ricominciato ad allungare le mani nel piatto. Fu allora che dal profondo del cuore di mamma venne fuori quel «ma allora tu si ’nu baccalà overo» che ci fece schiattare tutti dal ridere, baccalà compreso.
Questo breve racconto è tratto da Via Canova fa parte di Testa, Mani e Cuore, una mia raccolta di racconti pubblicata nel 2013 da Ediesse.