Il leader è nudo

Caro Diario, era il 1995, tu neanche eri nato, e tre dirigenti della Cgil – Ettore Combattente, Rosario Strazzullo e Riccardo Terzi -, un filosofo – Biagio De Giovanni -, un giornalista – Luca De Biase – e un sociologo, il sottoscritto, scrissero e firmarono un documento che fu la base per una discussione molto ampia che a un certo punto diventò un volume a più di cento mani.
Mi è venuto in mente perché oggi su La Repubblica Ilvo Diamanti ha pubblicato un articolo intitolato “Gli italiani e l’uomo forte, così i leader hanno oscurato i partiti” e con tutto il rispetto, che è tanto, a me questo fatto di accorciare sempre di più l’ombra del futuro sul presente non convince.
Secondo me limitarsi a registare quello che dice la “gente” non ci porta da nessuna parte, o almeno da nessuna delle parti che mi piacciono. Secondo me bisogna tornare a pensare, bisogna tornare a farlo come singoli e come comunità, ciascuna/o con la propria testa, con il proprio punto di vista. Sì, al tempo del leaderismo esasperato sono più che mai convinto che occorra ripristinare il dominio della Ragione e delle Ragioni, che una testa ben fatta sia meglio di una testa ben piena, come ha scritto Morin, che per essere persone per bene la testa bisogna averla al proprio posto, cioè sul collo, come diceva Totò.
Come dici amico Diario? Perché ripigliarla da così lontano? Perché sono convinto che chi non ha passato non ha futuro. Dopo di che è evidente che se parte una discussione è la discussione di oggi, che però secondo me farebbe bene a tenere presente alcune delle cose scritte in questo documento di 23 anni fa, perché vedi amico mio, la Politica è una cosa seria, ha delle regole, una metodologia e un senso che valgono sempre, sono i contenuti che cambiano di volta in volta, ma ho l’impressione che questa volta occorra cominciare dal principio, altrimenti non si va da nessuna parte. In ogni caso tu leggi e, se ti va di dire la tua, scrivi come sempre a partecipa@lavorobenfatto.org
Resto in ascolto.

UN FUTURO PER LA POLITICA:
VALORI, PROGRAMMI, CLASSI DIRIGENTI

idee, valutazioni e proposte discusse nel 1995 tra Ettore Combattente, Luca De Biase, Biagio De Giovanni, Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo, Riccardo Terzi

1. Il centro sinistra e la questione italiana
1.1.
L’attenzione del mondo politico italiano è da tempo concentrata sulle prossime elezioni. Si discute di regole per assicurare ai contendenti uguali opportunità, di garanzie per coloro che usciranno sconfitti dalle urne, di tempi più e meno utili entro i quali eleggere il nuovo Parlamento. Le scelte, di breve come di lungo periodo, sembrano in larga parte subordinate a tale obiettivo e la tendenza ad amplificare, e a tratti esasperare, la loro importanza, è ampiamente diffusa. A nostro avviso, il voto servirà invece essenzialmente a determinare condizioni più o meno favorevoli all’avvio del processo di ricostruzione dello Stato democratico. Riteniamo perciò necessario un dibattito meno condizionato dalla politica giorno per giorno, dall’angoscia dell’appuntamento decisivo, dalla sindrome dell’ultima spiaggia. Del resto, le stesse vicende della sinistra italiana, tanto ricche di appuntamenti prima decisivi e poi mancati, consigliano maggiore prudenza e lungimiranza.
1.2.
La tesi di fondo di fondo che intendiamo sostenere è che il centro sinistra, se vuole credibilmente proporsi come forza capace di rinnovare l’Italia, deve dare voce al bisogno di valori presente nella società e, contemporaneamente, definire la propria identità, ricostruendo le culture e i soggetti politici che lo compongono, valorizzando i pluralismi e le differenze in esso presenti. Per questa via esso potrà non solo spendere al meglio le proprie ragioni nel corso della competizione elettorale ma anche conquistare nuovi spazi di iniziativa ben oltre il voto ed i suoi stessi esiti.
1.3.
La crisi di sistema con la quale si è chiusa la prima fase della repubblica si manifesta sempre di più come crisi di unità e di identità della Nazione e dello Stato. Essa ha travolto culture, soggetti e luoghi della politica e la sua risoluzione passa per la realizzazione di una compiuta democrazia dell’alternanza, fondata su regole condivise, in cui le differenze si determinano non sui principi ma sulle scelte programmatiche e di governo. In Italia, contrariamente a quanto avviene negli altri Paesi democratici, è questa una frontiera ancora tutta da conquistare. I tempi e le caratteristiche con cui tale processo potrà realizzarsi dipendono fortemente dall’impegno, la consapevolezza e la capacità di innovazione che le diverse forze sapranno mettere in campo.
1.4.
Non ci si può dunque limitare alla individuazione di un leader. Né appare convincente la rincorsa amodelli di formazione e di definizione delle scelte tradizionalmente caratteristici delle forze di centro destra. Esse propugnano l’idea del capitalismo come società naturale ed utilizzano la crisi dei partiti per sostenere e dare una base di massa alla propria cultura plebiscitaria. Alle forze di centrosinistra spetta dunque il compito di rimotivare la politica, di rinnovarne le forme, di evitare che la costante opera di devalorizzazione dei partiti sia di fatto finalizzata alla costruzione di comitati e macchine elettorali, o, peggio ancora,di una sorta di Forza Italia di area progressista. I nuovi ed inediti problemi di partecipazione presenti nella società italiana richiedono necessariamente risposte complesse, regole democratiche che non lascino margini a tentazioni di tipo plebiscitario, analisi e approfondimenti che sappiano andare al di là della polemica politica quotidiana.

2. Gli elementi di contesto
2.1.
Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, con le vittorie di Margaret Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, la destra afferma la propria capacità di presentarsi come forza moderna e innovativa, in grado di dialogare e di rispondere alle aspettative di ceti diversi. In qualche modo essa comprende in anticipo la crisi del rapporto tra blocchi sociali e scelte politiche e a tale crisi risponde riaggiornando e rilanciando quelle idee e ricette liberiste sulle quali edificherà la sua lunga stagione di governo nei principali paesi occidentali. Il mercato, la ripresa economica, l’innovazione tecnologica, la riduzione delle tasse oltre che obiettivi puramente economici diventano così modelli culturali attorno ai quali conquistare e consolidare la leadership sociale e politica.
2.2.
Gli anni 90 sono segnati invece dalla crisi del liberismo. Sono gli anni in cui negli Stati Uniti i democratici riconquistano la leadership dell’Unione e nella Germania riunificata viene avviato, con uno sforzo senza precedenti e non ancora concluso, il programma per l’integrazione e lo sviluppo dell’ est. La stessa vittoria di Jacques Chirac in Francia è resa possibile dal recupero di concetti e valori della destra plebiscitaria e popolare e non certo dall’impostazione rigorista che aveva reso famosa la signora di ferro. In Italia, la vittoria di Silvio Berlusconi nelle elezioni del 27 marzo 1993 presenta invece significativi caratteri di controtendenza. Vendendo sogni prima ancora che benessere, slogan piuttosto che concrete soluzioni ai problemi aperti, egli riesce a presentarsi, utilizzando messaggi generici e semplificati, come l’elemento di novità sulla scena politica italiana.
2.3.
Negli stessi anni la sinistra, nonostante la forte spinta al cambiamento avviata a ridosso della caduta del muro di Berlino, appare statica, poco incline o comunque troppo lenta a cogliere le novità che vanno maturando nella società. La sua capacità di attrazione, fondata sulla difesa degli interessi e dei pezzi di welfare funzionali alla loro tutela, si riduce sempre più mentre la sua iniziativa appare determinata da condizioni di necessità piuttosto che da orientamenti e scelte politiche autonomamente assunte. Contemporaneamente, le stesse opzioni culturali e di valore alla base della sua azione di rappresentanza vanno offuscandosi, determinando una sua sostanziale identificazione con le strutture più burocratiche ed assistenziali della società. La sovrapposizione tra spesa sociale e spesa assistenziale, lo sfascio del sistema sanitario, l’inefficienza della pubblica amministrazione, sono alcuni degli esempi possibili in questa direzione. Sta di fatto chené gli avvenimenti dell’89,con le spinte liberatorie da essi determinati, né lo scoppio di tangentopoli, con i suoi effetti devastanti sui partiti e le classi di governo, bastano alla sinistra italiana per scrollarsi di dosso la sua immagine statalista e conservatrice.

3. I caratteri della crisi italiana
3.1.
La crisi italiana è magmatica, profonda, dagli esiti incerti. Essa si caratterizza contemporaneamente per la grande debolezza dello Stato e della Nazione, per la crescente forza dei poteri oligarchici e delle corporazioni, per il rapporto distorto tra i partiti, la società e lo Stato, per il costante prevalere delle formule e delle parole sui fatti, per la carenza di luoghi e spazi democratici. Siamo in presenza di un tale insieme di fattori da rendere difficile la sua rappresentazione perfino a livello terminologico. Agli slogan semplificatori del centro destra, il centro sinistra deve rispondere innovando, scegliendo i contenuti, proponendo riforme sul piano sociale, politico, istituzionale. Alla società del conformismo e della superficialità che si regge su quelli che Norberto Bobbio ha definito i servi contenti, va contrapposta una società che valorizzi la creatività e le differenze. Una società che ha bisogno della partecipazione autonoma e consapevole delle singole persone, delle associazioni e delle forze sociali, delle amministrazioni e dei governi locali e nazionali. Una società basata sul rispetto delle regole. Una società nella quale fare bene e fino in fondo il proprio dovere è la condizione per poter rivendicare i propri diritti. Una società che sappia favorire le relazioni tra le persone che la vivono e la popolano e tra esse ed i diversi soggetti sociali, politici ed istituzionali che la governano.
3.2.
A modelli gerarchici e centralizzati è necessario contrapporre la cultura della flessibilità, della responsabilità, del decentramento. Occorre moltiplicare i centri ed i protagonisti della politica ed adoperarsi perché la realtà torni ad essere rappresentata dai contenuti e non dalle forme in cui essa viene espressa. Occorre che la sinistra ritorni ai Valori, si mostri capace di suscitare attese e fiducia nel futuro potenziando e qualificando allo stesso tempo la propria proposta programmatica. E’ su questa strada che essa potrà ricostruire una propria funzione nazionale, invertire il processo di progressiva marginalizzazione del nostro Paese dall’Europa, contribuire a dare soluzione alla Questione Italiana.
3.3.
La fine della prima fase della Repubblica ha lasciato in eredità una democrazia dai molti tratti illiberali, nella quale i partiti, compresi quelli di sinistra, hanno occupato spazi impropri ed hanno stabilito rapporti distorti con lo Stato ed i suoi poteri. Con la crisi del liberismo e il superamento della contrapposizione tra mercato e stato sociale ritorna la necessità di recuperare quei valori propri del liberalismo che hanno contaminato la parte migliore della cultura liberale e democratica dagli anni 30 ad oggi. La pluralità dei poteri, la loro autonomia e separazione, le funzioni di reciproco controllo rappresentano, in questo quadro, il terreno di ricerca da contrapporre alle spinte ed alle scorciatoie di tipo plebiscitario.

4. Una nuova classe dirigente per ricostruire la democrazia italiana
4.1.
La costruzione delle istituzioni della seconda fase della Repubblica rappresenta il compito prioritario di tutte le forze che intendono candidarsi al governo del Paese. I temi istituzionali vanno tenuti distinti dalla lotta politica quotidiana; il rapporto tra destra e sinistra ha qui un punto di verifica decisivo. Piuttosto che ad eventi propri della politica spettacolo o a frettolose abiure della storia, riteniamo perciò che il processo di reciproco riconoscimento e legittimazione vada affidato alla coerenza ed all’impegno con il quale si contribuisce alla ricostruzione dello Stato democratico e alla formazione di una nuova classe dirigente.
4.2.
L’Italia ha oggi più che mai bisogno di una classe dirigente che sappia indicare, innovando, le ragioni di una nuova unità della Nazione; che riconosca la non esaustività delle problematiche sociali; che sappia coniugare il bisogno di autonomia e quello di solidarietà; che abbia consapevolezza della rilevanza che, nell’era della competizione globale, rivestono le economie di sistema, i fattori ambientali, gli ambiti territoriali; che sappia perciò guardare con un approccio federalista al tema dello Stato. Interpretare i mutamenti avvenuti nell’economia e nella società e corrispondervi ridefinendo e rafforzando icompiti dei poteri locali e territoriali ci sembra il modo migliore per evitare che la discussione sul federalismo si esaurisca tra parole roboanti e frasi ad effetto molto spesso vuote.
4.3.
La costruzione di una nuova classe dirigente è un processo certamente più laborioso della ricerca di un leader. Essa ha bisogno, per formarsi, che la cultura e l’esercizio della partecipazione, della responsabilità e del controllo prevalgano sulla delega; che i legittimi interessi che ciascuno rappresenta siano comunque subordinati all’interesse generale; che le regole sostituiscano la discrezionalità e l’arbitrio. Non è certo un caso se dall’educazione dell’ordine mezzano al quale si dedicava il Genovesi, alla ricerca dei cento uomini di ferro teorizzata da Dorso, alla costruzione della società di mezzo di cui si discute ai giorni nostri, i passi avanti realizzati non sono stati né quelli auspicabili, né quelli necessari. Eppure, a nostro avviso, proprio da qui potrà venire un contributo importante al compiuto sviluppo della democrazia italiana.
4.4.
Per questo non ci convince una concezione della politica tutta incentrata sul rapporto fra leader e riteniamo debba essere combattuta la tendenza ad affrontare temi decisivi con un tatticismo troppo spesso esasperante. Si tratti di regole o di federalismo, di lavoro o di Mezzogiorno, di giustizia o di aborto, niente sembra sfuggire a tale destino. Invertire tale tendenza è possibile se si definisce un nuovo protagonismo ed un più deciso apporto dei poteri e della società diffusa, dagli amministratori locali agli imprenditori, dalle associazioni ai sindacati, ai cittadini. L’esperienza pure importante che si sta realizzando attorno a Romano Prodi, va dunque potenziata, ampliata, non lasciata isolata. Così come è necessaria una discussione più approfondita e meno conformista sui valori e i contenuti programmatici che sono alla base dell’alleanza politica di centro sinistra. A cominciare dal valore del lavoro.

5. Il Nuovo Corso italiano: il valore del lavoro
5.1.
La possibilità di un Nuovo Corso italiano, la costruzione di una risposta nazionale alla crisi del Paese,hanno nell’affermazione del valore del lavoro, il proprio centro, il proprio motore, la propria anima. E se è vero, come noi riteniamo, che i numerosi elementi di rottura che caratterizzano la crisi italiana hanno una ragione fondamentale nell’incapacità e nella non volontà di cogliere appieno la relazione esistente tra mancato sviluppo del Sud e mancata modernizzazione del Paese, è evidente che il Mezzogiornotorna prepotentemente a rappresentare una frontiera decisiva per il futuro dell’Italia. Il vero e proprio processo di identificazione tra Questione Lavoro e Questione Meridionale è ormai un dato di fatto. E nel contesto europeo il dualismo italiano, con un mercato meridionale sempre meno indispensabile alla struttura produttiva di un Nord d’Italia sempre più integrato in Europa, è un fattore destinato a moltiplicare le spinte di tipo secessionista. E’ tempo dunque che una nuova politica per il Sud, che sappia coniugare interessi e solidarietà, che avvii finalmente una fase di sviluppo autopropulsivo, diventi una concreta priorità per l’intero Paese.
5.2.
Assumere il lavoro come valore vuol dire realizzare un grande programma di qualificazione e di valorizzazione delle capacità culturali e produttive delle persone, in primo luogo quelle meridionali; potenziare gli strumenti legislativi e contrattuali previsti a sostegno dell’occupazione; decentrare e qualificare, ridefinendone compiti e funzioni, il Ministero del lavoro, le Agenzie per l’impiego, gli Uffici di collocamento; adottare programmi formativi all’interno delle aziende e schemi di orari flessibili e ridotti; combattere il lavoro nero ed illegale e sostenere il lavoro autonomo regolare e la piccola impresa. In questo quadro, diventa sempre più decisiva la capacità di integrazione e di coordinamento con l’Unione Europea. Con la fine dell’intervento straordinario, infatti, i fondi europei rappresentano le sole risorse aggiuntive effettivamente disponibili e la loro corretta attivazione è essenziale per dare credibilità e sostanza ad una strategia che punti decisamente alla Creazione ed alla Diffusione d’Impresa.
5.3.
Il Sud ha bisogno di sviluppo diffuso. Lo sviluppo diffuso, per non restare soltanto uno slogan, ha bisogno che si rafforzino i Poteri Locali, che si investa in legalità, formazione, infrastrutture avanzate, che si promuovano e si valorizzino anche nel sud le esperienze dei distretti industriali. Per questa strada passa la stessa possibilità di affermare una cultura imprenditoriale meno schiacciata sulla ricerca forsennata del profitto. Creare nuova ricchezza, partecipare al processo di rafforzamento della struttura democratica della società, incentivare l’autonomia, la responsabilità, le relazioni, sono alcuni caratteri possibili di una nuova funzione sociale dell’imprenditore.

6. Il Nuovo Corso italiano: il valore della socialità
6.1.
In una società avanzata, al valore del lavoro deve corrispondere il valore della socialità. Le persone non vanno solo protette e risarcite dalle conseguenze di una competizione sempre più spinta, ma vanno sostenuti in tutto l’arco della loro vita con politiche di promozione e di valorizzazione delle loro capacità fisiche ed intellettuali. La promozione della persona, della sua libertà, della sua autonomia, rappresenta il fondamento di ogni moderna concezione dello Stato Sociale. In questo quadro, l’azione sociale dello Stato deve riguardare innanzitutto le nuove generazioni. I giovani rappresentano infatti la principale risorsa per il futuro in una società che sarà sempre più fondata sulla flessibilità, la velocità, l’innovazione, il cambiamento.
6.2.
Le politiche scolastiche e formative rivestono dunque una straordinaria importanza così come, in tale ambito, l’estensione e la tutela dell’obbligo scolastico e la lotta al lavoro nero e minorile. Le stesse politiche di sostegno alle famiglie numerose e monoreddito vanno sviluppate condizionandole al rispetto dell’obbligo scolastico. All’idea di un’istruzione sempre più dequalificata va contrapposto un programma finalizzato all’innalzamento del numero di diplomati ed al restringimento della forbice tra iscritti all’università e laureati. L’istruzione e la formazione dovranno rappresentare l’interfaccia delle politiche per l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Si afferma in questo modo una concezione del lavoro come esperienza insostituibile di autorealizzazione e socializzazione, come contributo allo sviluppo dell’economia e della società.
6.3.
Una società può definirsi veramente avanzata se è in grado di valorizzare il potenziale di innovazione di ciascuna classe di età, comprese quelle più anziane. Il recupero di valori come la memoria e l’esperienza, la realizzazione di sistemi flessibili tra formazione e lavoro e tra lavoro e pensione, la domanda di reintegrazione possono e debbono rappresentare, a cinque anni dal 2000, un’occasione euna risorsa. I servizi alle persone sono infatti decisivi per impedire che lo sviluppo tecnologico determini fenomeni di disintegrazione sociale, di emarginazione e di vera e propria perdita di identità per fasce sempre più consistenti di cittadini. Da qui la necessità di istituire un mercato sociale volto alla soddisfazione della domanda di reintegrazione, di assistenza e di cura del cittadino utente. Crescita dell’occupazione, incrementi della produttività sociale e ruolo di un welfare riformato rappresentano, in questo quadro, gli aspetti diversi e complementari delle politiche di un’Italiache sarà tanto più moderna quanto più saprà riconoscere il bisogno di investire in socialità.

7. Pazienza e Lavoro
7.1.
Un grande filosofo contemporaneo ritorna spesso sulla necessità di affrontare la vita e le difficoltà piccole e grandi, individuali e collettive che essa ci fa incontrare, con Pazienza e Lavoro. Ci sembra francamente che nel nostro Paese ci sia, dell’una e dell’altro, estremobisogno. Più che cose nuove, si vedono in giro tante cose vecchie con un nome (qualche volta) nuovo. E poi superficialità e conformismo in dosi massicce e non di rado fastidio per le opinioni diverse. Forse per questo ci piacerebbe che alle prossime elezioni il centro sinistra si facesse interprete del bisogno di diffondere la democrazia. Forse, potrebbe essere qualcosa di più di uno slogan. Potrebbe essere l’alternativa vera a chi sostiene che, se servono un milione di posti di lavoro, debba scendere in campo Berlusconi; o che la tutela della legalità è un affare che riguarda Di Pietro (ieri) o Caselli (oggi); o anche che per risolvere i problemi di Napoli e di Roma basta affidarsi a Bassolino e Rutelli. Non è un alternativa semplice, neppure per il centrosinistra. Eppure il segreto potrebbe essere proprio qui. Nella capacità di prospettare un futuro nel quale ci sia spazio per l’impegno e le ragioni di ciascuno.

sfondo
Achille Flora
Hai ragione Vincenzo. Il problema italiano è quello della classe dirigente, sia amministrativa sia politica. È qui che si è persa la sinistra, senza più riferimenti sociali, rapportandosi solo ad un’élite di professionisti. Uno scambio che ha progressivamente assunto, specie al Sud, i caratteri di un’occupazione di ruoli pubblici a fini privati. Purtroppo una classe dirigente virtuosa, come quella nittiana, penso agli enti di Beneduce o ai cento uomini di ferro di Dorso, non c’é più e ricostruirla non sarà facile.

Osvaldo Cammarota
Tutto si è polverizzato, anche la politica
Note in bozza

Caro Vincenzo, abbiamo le prove che il documento scritto nel ‘95 e che ci hai riproposto qui poteva essere la traccia su cui lavorare per innovare la sinistra e contrastare la triste deriva in cui sta naufragando l’Italia dei giorni nostri. Le prove stanno nei risultati raggiunti nelle esperienze in cui sono stati praticati princìpi autentici di “democrazia partecipativa”.
Potrei darne diretta e documentata testimonianza, avendo dedicato anima e corpo dal ’93 a questa appassionante sfida; ma il ritorno ad un sia pur piccolo e marginale impegno politico-istituzionale, mi porta a ragionare su che cosa sia la politica oggi, nella percezione e nell’agire, nel tempo che viviamo.
Che cosa è accaduto nei 23 anni da quel documento?

Sulla percezione, ho fatto una piccola ricerca intervistando persone di diverse generazioni:
La politica? … È un luogo sporco, inagibile, dove chiunque sia eletto pensa soltanto ai fatti suoi.
Che cosa sono i Partiti, i Sindacati? … Sigle ormai vuote, che hanno tradito la loro missione.
E le istituzioni democratiche? … Un teatrino di pupi … meglio non votarli proprio.
Sull’agire politico le risposte sostanziano le valutazioni precedenti:
Nessuno si cura degli interessi generali, di bisogni collettivi …
Si pensa solo a interessi particolaristici che servono a fare clientela …
Invece di governare i conflitti, la politica li esaspera a fini di consenso …

È un piccolo spaccato che certamente non ricalca il dibattito che si svolge nei salotti buoni della politica, ma sfido a non considerarli indizi, chiavi di lettura, per capire il successo dei movimenti politici che oggi governano il paese.
Che cosa poteva accadere di diverso?

Nei 23 anni da quel documento la politica si è rinsecchita nella più chiusa autoreferenzialità. Non ha elaborato risposte più avanzate alla crisi della rappresentanza, né ha corrisposto la diffusa domanda di partecipazione che proviene da una società un tempo densa e complessa ma ormai polverizzata.
Polverizzata ma globalizzata nella suggestione – alimentata dai media – di poter esercitare la libertà soggettiva senza limiti, senza rispetto per l’altro da sè. Ma questo è liberismo selvaggio, nulla a che vedere con il pensiero liberale.

Anche nell’agire politico è prevalso lo stile del liberismo selvaggio, fino ad assumere tratti di individualismo proprietario nell’esercizio di ruoli e poteri pubblici di rappresentanza.
Negli anni ’80 e ’90, la “destra” ha aperto la stagione del leaderismo dirigista (con Berlusconi e i suoi emuli) e la “sinistra” ha stupidamente inseguito quel modello.
Non c’è, dunque, da stupirsi se, nel tempo che viviamo, risultano “vincenti” coloro che soffiano sul fallimento dei modelli “comunisti” e “capitalisti” (da Trump a Putin, da Salvini a Di Maio).
La politica e le classi dirigenti selezionate negli ultimo 30 anni, sono un derivato di problemi irrisolti che già il ’68 aveva vigorosamente segnalato:
il superamento dei classici conflitti del ‘900 tra capitale e lavoro;
la “domanda” di nuove forme di democrazia, adeguate alla società complessa.

La buona Politica, secondo me, dovrebbe ripartire da qui; da problemi irrisolti che hanno radici lontane e profonde. Non è difficile, ma è faticoso, e le classi dirigenti che si sono formate in questi anni purtroppo non mi sembrano attrezzate per svolgere un lavorobenfatto. Insomma le pagine del “che fare” e del “come farlo” sono in larga parte da riscrivere e il contributo che ciascuno di noi può dare con le proprie idee e dal proprio “posto di combattimento” deve tornare ad essere decisivo. Naturalmente non è facile, ma ricominciare a discuterne mi sembra un primo passo nella giusta direzione.