Il Piccolo Principe di Serena Petrone

Caro Diario, come sai tra le cose che le/i ragazze/i del corso di Comunicazione e Cultura Digitale stanno facendo ci sono le storie ispirate a Il Piccolo Principe, che se vai sulla pagina di Intertwine ne trovi parecchie di belle, almeno secondo me. Volendone pubblicare una, ho scelto per molte ragioni di raccontare quella scritta da Serena Petrone, però alla fine trovi l’elenco di tutte le storie pubblicate su Intertwine con i nomi e cognomi delle autrici e degli autori.
Come dici amico mio? Quali sono queste ragioni?
Preferisco non dirtelo, finirei per spiegarti la storia e invece è meglio che tu la legga, che poi magari abbiamo modo di tornarci su. Proprio per non farti prendere collera ti dico che una cosa che mi è piaciuta assai è il titolo e aggiungo che se la storia di Serena sta qui è perché è un ottimo esempio di lavoro ben fatto, il #lavorobenfatto di una studentessa che insieme alle sue compagne e compagni di corso hanno scelto di essere autori, di utilizzare in maniera consapevole gli «arnesi» che hanno a disposizione, a partire da Intertwine, per essere produttori e non soltanto consumatori di contenuti. Ecco, io con questo mi fermo, tu invece mettiti comodo, leggi e poi fammi sapere se le storie di Serena e delle/dei suoi compagne/i di corso ti sono piaciute. 

IL MIO PRINCIPE È MAROCCHINO, VENDE LE ROSE E SI CHIAMA HASSAN
di Serena Petrone

1. Era la rosa più bella di tutto il mazzo
Me la ricordo come se fosse ieri quella notte di sei anni fa.
I pensieri mi si attorcigliavano dappertutto, non mi permettevano di dormire e a tratti mi facevano mancare l’aria. La stanza era troppo piccola. Il letto era troppo grande. Mi sentivo così maledettamente sola. Pensai bene di andare a fare un giro. In tuta e scarpette mi infilai Masini nelle orecchie e mi accesi una sigaretta.
«Non fumare che poi ti si rovinano i denti», me lo diceva sempre papà mentre mi scroccava una Marlboro.
L’aria era umida e allora mi alzai il cappuccio della felpa. Andai a sedermi su di una panchina, nella piazzetta dietro il mio appartamento e restai in silenzio lì, per qualche minuto, ad ascoltare i grilli che un poco riuscivano a coprire i miei pensieri.
Poi li vidi in lontananza. Un gruppo di ragazzi si divertiva a urlare e a fare versi. Erano ubriachi marci. Qualcuno non riusciva nemmeno a tenersi in piedi. Ero pronta ad alzarmi per tornare nel mio appartamento ma erano già troppo vicini.
«Cosa ci fai qui tutta sola?», mi chiese uno di loro dopo aver sputato un po’ di birra ai miei piedi.
Non risposi.
«Non ce l’hai la lingua? Dai apri la bocca e faccela vedere», continuò.
«Non ti mordiamo, stai tranquilla, non siamo vampiri», intervenne un altro.
Mi accerchiarono in meno di due secondi e io non ebbi neanche il tempo di rendermi conto di quanti fossero. Saranno stati 20. Forse 25. A me parevano 1000.
Iniziarono a dire cose sconce, a bagnarmi con la birra e poi a sputarmi addosso. La mia paura di essere donna era tutta lì di fronte a me, moltiplicata per venti, e mi sputava addosso.
Ero pronta al peggio. Volevo piangere ma non lo feci perché mamma, poco prima di morire, mi aveva fatto giurare che non avrei mai pianto di fronte a un uomo. E così tenni fede alla promessa. Ma avevo paura. Una paura assurda.
Uno di loro si slacciò la cinta e io chiusi gli occhi,con tutte le mie forze. Poi una voce.
«Andate via o chiamare polizia!»
Li riaprii e lo vidi. Era un omino magro magro, scuro come la notte. In una mano un mazzo di fiori e nell’altra un bastone con cui tentava di scacciare la mia paura.
Ci riuscì. Perché sebbene quelli fossero più grandi in numero erano totalmente sbronzi. Non appena ripresi fiato lo ringraziai. Lui mi sorrise, si sedette accanto a me e mi porse una rosa. Era la più bella di tutto il mazzo.
«Come ti chiami?», gli chiesi.
«Mi chiamo Hassan.»
Mi lasciai andare in un pianto disperato. No, non mancai alla promessa fatta. Quello accanto a me non era un uomo. Era un principe.
La ricordo come se fosse ieri quella notte di sei anni fa. Lo conobbi lì e allora. Il mio piccolo principe.
Il mio piccolo principe è marocchino. Vende le rose. Si chiama Hassan.

2. Il peggiore dei re
Non ricordo esattamente quanto tempo rimanemmo su quella panchina, quel che so è che non mi sentivo più sola. Parlava, Hassan. Era un gran chiacchierone. Dedussi subito che non doveva avere molti amici. Mi parlò del Marocco, di Erfoud. Di sua madre. E di suo papà. Di Said, il fratellino. E di Marisa detta Marinella, una prostituta di via Gianturco. «È la mia rosa», mi disse.
Mi raccontò anche del suo odio verso le pecore. Perché badare al gregge di famiglia non gli aveva permesso di giocare a calcio con gli altri bambini.
Una volta perse un agnello. Furono botte. L’agnello non è stato ritrovato mai più, in compenso lui ha una cicatrice sotto all’occhio.
Hassan voleva giocare. Ma suo padre dettava legge e lo trattava come il peggiore dei re tratta i suoi sudditi. Dopo aver badato al gregge doveva andare a prendere l’acqua al pozzo e i secchi pesavano. Inciampava spesso e quando accadeva, doveva fare il percorso due volte.
Un giorno, lungo il tragitto verso casa, incontrò degli amici che lo invitarono ad unirsi a loro per una partita a pallone. Si lasciò convincere. Ma si ruppe i calzoncini. E furono botte.
Mi raccontò anche di quanto gli piacessero i tramonti e ogni giorno non aspettava altro che calasse il sole per godersi la meraviglia.
Viveva per il tramonto e questo lo faceva sentire uno schiavo. Era uno schiavo.
«Io scappato a tredici anni», mi spiegò. «Io studiare.»
Voleva studiare Hassan. Non aveva mai visto un lampione prima dei tredici anni. Ne fu affascinato al punto che, quando venne qui, voleva diventare elettricista. O lampionaio. Come lo definiva lui.

3. Come i lampioni che illuminano l’oscurità della notte
Il viaggio che lo portò dal Marocco fino a qui fu molto lungo. Dovette vendere tre agnelli per comprarsi il silenzio di Buruk, un vecchio amico di suo padre che gli consentì di mettersi in mare. Navigò per giorni che per lui furono mesi. Una volta arrivato era completamente spaesato e ci volle un bel po’ prima che si sentisse a casa. In Marocco la vita era difficile, ma qui Hassan non trovò di certo ciò che sperava. O almeno non subito. Non studiò. Non divenne un lampionaio. Ci fu un periodo, all’inizio, in cui chiedeva addirittura l’elemosina e dormiva sui cartoni. Ma fu allora che ne conobbe uno. Elias. Sbarcato pure lui su questa terra quando era piccolino. Nei ristoranti non lo volevano come cameriere perché non sapeva la lingua. E allora se ne andò in giro per Napoli ad impararla.
Se la faceva tutta quanta a piedi ogni giorno. E ogni giorno a Mergellina si fermava, perché voleva godersi il mare. L’italiano Elias non lo masticava proprio bene, ma nei vicoletti coi panni stesi, ascoltando le canzoni neomelodiche che le signore mettevano mentre facevano i servizi imparò il napoletano.
Fu così che si inventò un mestiere. Con una chitarra da quattro soldi se ne andava in giro a raccimolare poco e niente. E come i lampioni illuminano l’oscurità della notte, Elias illuminava i sabato sera delle ragazze cantando «Sei bellissima» di Tony Colombo e « ‘O surdato ‘nnammurato» alle coppiette.
Era il suo pezzo forte. Ad Hassan Elias faceva tenerezza e per certi versi non lo capiva. Era povero e cantava. Cosa aveva da cantare? Però lo apprezzava. Perché per poco o niente lavorava. E non rubava niente a nessuno. Era povero, si. Ma meglio povero che ricco. I ricchi fanno schifo. Non si accontentano mai. Si comprano tutto. Pure l’amore delle femmine belle.

4. Vizi e debolezze
Che i ricchi facessero schifo e non si accontentassero mai lo aveva appurato quando incontrò Ciro, n ubriacone di Piazza Garibaldi che prima aveva tutto e che poi aveva perso tutto.
Ciro lavorava come bidello nel liceo dove studiavano Chicco e Andrea, i suoi due figli. Prendeva milletrecento euro al mese. La moglie, Cinzia, per aiutarlo andava a fare le pulizie a casa delle signore. Stavano bene e ogni tanto si andavano a fare qualche viaggetto. Ma Ciro voleva di più perchè quello che aveva non gli bastava. Si diede al gioco. E se all’inizio le cose andavano bene poi la situazione degenerò. Si indebitò fino al collo al punto che gli tolsero tutto. Vennero sfrattati e la moglie, insieme ai figli, gli voltò la faccia.
Da lì Ciro iniziò a bere. E se tu gli chiedevi perchè bevesse lui ti rispondeva che lo faceva per la vergogna. E per dimenticare. Ogni tanto Chicco gli portava qualcosina di soldi. Ma lui si comprava da bere. Cinzia gli mancava. E a volte gli mancava così tanto che nemmeno l’alcool gli bastava.
«E allora cosa fai quando manca moglie?»
«Me ne vado in Paradiso, a Via Gianturco»

5. Dimmi che sono la più bella di tutte
A sedici anni Hassan non aveva ancora fatto l’amore.  E una notte decise anche lui di andare in Paradiso. Sapeva bene cosa fossero le tette perchè, in Marocco, col fratello si divertiva a spiare la vicina di casa che ogni giovedì, al tramonto, andava al fiume a farsi il bagno. Ma quando si ritrovò di fronte a così tante tette di misure diverse, pensò che quelle del fiume eran ben poca cosa.
Non aveva molti soldi perchè le rose che Gianni il fioraio gli regalava e che poi lui rivendeva erano lo scarto di tutti i fiori. Era già tanto se riusciva a convincere qualcuno a comprarli. Quindi dovette adattarsi e si buttò tra le braccia dell’unica donna che accettò venti euro e due rose con tre petali.
Si chiamava Rossella. Era una donnona super truccata, bruttina, con le calze a rete e i tacchi a spillo. Avrà avuto su per giù quarant’anni. Hassan a sedici anni, per la prima volta giacque con lei.
Fu deluso, perché quella donna che non faceva altro che ordinargli di urlare ai quattro venti quanto fosse bella e brava, non era l’angelo che si aspettava.
«Dimmi che sono la più bella di tutte. Sono la migliore. Io ti faccio arrivare in cielo.»
Aveva raggiunto il culmine del piacere ma Hassan il cielo lo vedeva sempre da lontano. E quella donna lì, la vedeva uguale a tutte le altre. Una rosa qualsiasi in un giardino stracolmo di rose.Forse aveva sbagliato. O forse Ciro l’aveva preso in giro. Non doveva essere quello il Paradiso. Era pronto a dire addio a Rossella e a quel posto quando il cuore gli si fermò per un attimo. Da un’auto vide scendere una ragazzina dai capelli lunghi e scompigliati. Le gambe in bella mostra e il rossetto sbiadito la facevano sembrare più grande di quello che era. Hassan si sentì morire. L’aveva trovato. Il fiore più bello tra tutti i fiori.

6. Amore Incondizionato
In realtà si chiamava Marisa. Ma si faceva chiamare Marinella perchè le piaceva sentirsi un po’ come l’eroina di De Andrè. Sognava che un re prima o poi bussasse alla sua porta. Aveva diciotto anni ma il trucco e il seno prosperoso la invecchiavano di molto. Di notte faceva la prostituta e di giorno era una gran romantica.
Leggeva. Leggeva tanto e parlava poco. Quando Hassan la vide per la prima volta lei gli sorrise, lui ricambiò. Da quella volta tutte le notti bussava alla sua porta e l’aspettava per chiacchierare.
Chiacchieravano. E lui sempre, le regalava le rose più belle che aveva. Le conservava solo per lei. Quando gli chiesi come riuscisse a sopportare che altri uomini toccassero la sua donna lui mi rispose «Suo cuore è mio».
Deve essere questo l’amore incondizionato. Pensai.
Lei andava oltre al fatto che lui non avesse un soldo. E lui andava oltre al fatto che lei vendesse il suo corpo.
Si amavano. Le loro anime si amavano. Hassan mi raccontò che una volta lei tornò da lui con l’occhio nero. Un vecchio rozzo le stava facendo male e lei, che aveva le sue regole, si ribellò. Il vecchio allora dopo l’aveva gonfiata di botte.
I grandi fanno schifo. Hassan andò su tutte le furie. Lo avrebbe voluto uccidere. Ma Marinella lo strinse a sé. E lui le diede una rosa. Si piegò su di lei e le baciò l’occhio. Poi il naso. Poi le labbra. E si tuffò nei suoi capelli color rame.
Si amarono anche quella notte. Con la consapevolezza e la promessa che lui non l’avrebbe mai amata con il cuore di un vecchio.
«Prima o poi io ti sposo Marinella.»

7. L’essenziale
Mi svegliai sulla panchina con una coperta addosso e la rosa tra le mani. Hassan non c’era e per un attimo pensai che quello fosse stato soltanto un sogno. Ma la rosa era lì.
Io quella notte di sei anni fa non la dimenticherò mai. Anche se non l’ho più visto. Anche se son tornata su quella panchina tante volte inutilmente.
Non dimenticherò mai il Principe che mi ha salvato la vita. E anche se a volte mi sento sola. E mi manca la mia mamma. Quella forte e bella di quando ero piccola. Quella che mi leggeva le favole e ogni sera mi augurava di non crescere mai perchè i miei sogni di bimba mi avrebbero fatta diventare un’adulta migliore.
Anche se di notte, ogni tanto, mi manca il respiro e i pensieri mi si attorcigliano ovunque. E gli incubi mi bussano alla finestra.
Anche quando mi sento spaesata. E persa. In quei momenti penso ad Hassan. Il mio piccolo principe dal sangue rosso, la pelle nera e l’animo nobile. A lui che mi ha insegnato l’importanza del cuore, del sentire più che del vedere. A lui che mi ha insegnato che cos’è l’essenziale.
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