La macchinista Giovanna

Cosa vuoi fare da grande? Il macchinista. E tutti giù per terra. Ma non per il girotondo, per il ridere, neanche avessi detto la cosa più strana del mondo. Beh, a pensarci adesso, la cosa un po’ strana lo era, a cominciare dall’articolo, che essendo io una bambina, era evidentemente sbagliato.
Le bambole le ho sempre amate un sacco, solo che i trenini ancora di più, è una passione che non invecchia, neppure adesso che mancano venti mesi alla pensione.
La strada per diventare macchinista è lunga e difficile. Come tutti i miei colleghi, e le mie colleghe, che sono poche, ma ci sono, ho dovuto dimostrare di conoscere regolamenti, locomotive e materiale rotabile e di essere in grado di risolvere problemi e inconvenienti di ogni tipo, che quelli davvero non mancano nella vita di una macchinista, poi ho dovuto fare un certo numero di viaggi come seconda macchinista e infine ho dovuto superare la corsa prova. Dopo di che sono montata sulla mia prima locomotiva e le ho detto «ciao bella, mi chiamo Giovanna, sono la tua macchinista».

Spero che i miei compagni di lavoro non storcano il naso, ma per una donna le difficoltà si moltiplicano. Adesso che i figli sono adulti le cose vanno come devono andare, ma da piccini sono stati dolori. Mio marito quando gli girava storta diceva che ero pazza a non utilizzare il titolo di studio per vincere un concorso interno e cambiare mansione, quando gli girava dritta che avevo escogitato la maniera legale per abbandonare lui e i ragazzi al loro destino. La verità è che se volevo fare la scalda sedie non mi cercavo un posto nelle ferrovie.
Io ci sono nata macchinista, e comunque penso che ognuno il suo lavoro lo deve rispettare se vuole avere rispetto, bisogna farlo con impegno, con tutto quello che comporta, regole, diritti e doveri.
Che poi cosa vuol dire abbandonare i figli? E le frittate alle undici di sera e alle cinque di mattina, a seconda dei turni, che mio marito doveva solo metterle nei panini che così i ragazzi a scuola potevano fare merenda come si deve? E i compiti corretti tra un turno e l’altro? Italiano, scienze, matematica, latino, che il papà ha fatto la terza media e tante cose non se le ricorda? E la casa da tenere a posto che con tre figli e il mutuo da pagare anche se si lavora in due mica te la puoi permettere una persona che ti aiuta? La verità è che neanche mio marito ho mai abbandonato, persino il caffè la mattina non gli ho fatto mancare, che quelli che vengono dal Sud ne fanno una malattia: nero e fumante nel bicchierino di vetro come piace a lui se ero in casa, preparato nella macchinetta già sui fornelli che bisognava solo accendere il fuoco e aspettare che uscisse quando mi toccava il turno di mattina. Per carità, ho anche io i miei difetti, non sono mica un’eroina o una santa, però quello che dovevo fare l’ho sempre fatto, a casa e sulla locomotiva, per questo sono contenta quando Danilo, il primo, le mattine che si alza presto per andare a lezione, lo prepara lui a me il panino, e poi mi fissa con quegli occhi dolci come per dirmi «tieni mamma, per tutti i sacrifici che tu e papà avete fatto per farci arrivare fin qui». Queste sì che sono soddisfazioni, anche per quel capoccione di suo padre, che pure lui con il suo lavoro in officina la vita ha dovuto prenderla dritta per non rimanerci sotto.

Quando ho cominciato il mio era un lavoro da favola, anche se solo adesso me ne rendo conto. Sulla locomotiva si stava in due, si poteva scambiare qualche parola e ti capitava persino di dare un’occhiata al cielo stellato o alle luci di una città, di rimanere incantato di fronte alla luna che si specchiava nel mare o ai filari di uva che si inerpicavano su per la collina. Con gli anni, la crisi e gli apparati di sicurezza sempre più sofisticati le cose si sono complicate parecchio: da due macchinisti a un macchinista e un capotreno e poi un macchinista da solo; di giorno, tra andata e ritorno, si lavora dieci ore e non più otto; il riposo minimo tra due turni è passato da diciotto a undici ore; il riposo minimo quando dormi in un’altra città da sette a sei ore; il segnale di protezione di una stazione, il giallo insomma, non esiste più, perché obbligava i treni a rallentare e faceva perdere troppo tempo, con conseguenti rimborsi a destra e a manca, cosicché adesso il segnale è verde anche per il treno che si deve fermare e ciò ci obbliga, in particolare quando le condizioni di visibilità sono ridotte, a un lavoro supplementare, tutto basato sull’esperienza, in modo da individuare l’inizio del marciapiede e non oltrepassare il segnale, che se da verde diventa rosso ti costringe a ripartire solo dopo aver attivato una lunga procedura, con conseguente perdita di tempo e giustificazione con il solito capo con il culo appiccicato alla sedia.

La nostra giornata di lavoro inizia e finisce con i «tempi accessori», che non è che noi possiamo arrivare cinque minuti prima della partenza o andarcene a casa appena tornati, perché bisogna sistemare il treno in stazione o in deposito, disabilitarlo e metterlo in sicurezza, ma forse è meglio se questo lo racconto partendo dall’inizio.
All’inizio c’è da prendere il treno, che già qui non è la stessa cosa se è fermo in deposito o in stazione, e metterlo in condizione di partire per l’ora prevista, il che vuol dire mettere in funzione gli impianti elettrici, il riscaldamento o il condizionatore, caricare i servizi pneumatici, provare la trazione, l’apertura e la chiusura delle porte, l’efficienza degli strumenti di sicurezza a bordo, il controllo della parte esterna del treno, il sistema frenante, quest’ultimo con l’aiuto del verificatore o del capotreno. Finita questa parte, ti tocca controllare le prescrizioni che ti porta il capotreno con le eventuali anomalie che si possono incontrare durante il tragitto e come vanno affrontate, e qui capisci perché è importante conoscere i regolamenti, dato che una volta che hai firmato e accettato se le cose scritte sul foglio si rivelano sbagliate sarete comunque tu e il capotreno a pagarne le conseguenze.

Poi bisogna considerare che la locomotiva è una macchina, e come per tutte le macchine può capitare che qualcosa non funzioni già prima della partenza, e allora ti tocca stare là a cercare da un lato di porre rimedio e dall’altro di capire se è meglio partire o chiedere una locomotiva di soccorso, sapendo che in ogni caso dovrai giustificare le tue scelte.
Lo stesso accade se il guasto avviene durante la marcia del treno, che tu lo sai di tuo che se ti blocchi crei difficoltà anche a quelli che hai dietro, e ti danni l’anima per cercare di risolvere il problema, come quella volta che nella vettura pilota c’è stato un calo di tensione e ci siamo fermati e allora mi è toccato attraversare tutto il treno fino alla locomotiva, che si trovava in  coda, per fare il riassetto, dopo di che rifai di corsa il treno all’incontrario, ritorna nella vettura pilota e riparti sperando che non ci siano capi e capetti pronti a stressarti e a complicarti ulteriormente la vita. Ma che ci vuole a capire che sul lavoro la nostra più grande soddisfazione è riuscire a riparare il guasto e che ci sentiamo sconfortati, umiliati, quando invece non ci riusciamo? A noi basterebbe questo, e invece se quelli che se ne stanno con il culo comodamente seduti in ufficio, che già la metà basterebbero e gli altri li metterei a lavorare sui treni che così capirebbero cosa significa, decidono che non hai fatto tutto quello che potevi, giù multe e sanzioni disciplinari. Vorrei vedere loro al nostro posto.
Il semaforo verde, più tecnicamente la disposizione a via libera del segnale di partenza, ti dice che i binari sono tutti per te, che l’itinerario è libero fino al segnale successivo, e allora il capotreno ti da la partenza e tu aspetti che tutte le porte siano chiuse e vai. Vai per modo di dire, perché è la strumentazione di bordo che ti conferma il via libera, ti tiene costantemente informato sul colore del segnale che viene dopo, ti obbliga a rispettare la velocità prevista, ti chiede persino di farle capire che ci sei e sei vigile, ad esempio quando ti indica qualche variazione dei segnali sulla linea e tu devi premere un bottone per dire ricevuto, o quando si arresta se non schiacci a intervalli regolari l’uomo morto, cioè il pedale che serve per controllare che sei lì al tuo posto in perfetta efficienza.

La cosa più umiliante, mortificante, penalizzante, che può capitare a chi fa il mio lavoro è superare un semaforo rosso, con linguaggio più appropriato segnale disposto a via impedita. Può accadere, per distrazione, stanchezza, momentaneo malore, e con i mezzi satellitari attuali non si scappa, il treno si blocca, i tuoi capi vengono avvertiti in tempo reale, tu diventi di colpo inaffidabile, dopo di che multa, giorni di sospensione, visita psicologica e una volta che il medico ti ha considerato idoneo devi rifare percorso formativo ed esami. Soprattutto non ti aspettare comprensione dai tuoi capi, che invece loro lo sanno che per fare un lavoro come il tuo bisognerebbe essere più riposati. Come dice un mio collega che ha lavorato una vita qui al Nord prima di ritrovarsi tra gli esodati, il macchinista utilizzato come «agente solo» rappresenta il prototipo dell’uomo flessibile nella società attuale: una flessibilità sia fisiologica che operativa, in funzione di una realtà e di una identità intangibile, nella più totale solitudine e con il costante timore di perdere tempo.

Invece la cosa più orrenda che ti può capitare quando fai il mio lavoro è investire una persona, io ci sono passata e giuro che neanche se vivessi in eterno potrei scordare quell’uomo che si è lanciato a braccia aperte contro la mia locomotiva. Sono stata interrogata più volte dalla polizia e dal magistrato e ho dovuto spiegare che non potevo fare niente per evitare l’impatto. Quella volta lì mi ci sono voluti due mesi prima di tornare al mio posto, avrei preferito mille volte farmela sotto piuttosto che vivere un’esperienza così. Già, perché ancora non l’ho detto, ma questa storia di come fa a gestire la pipì per così tante ore una donna che lavora su una locomotiva è una delle curiosità più gettonate tra le mie amiche e una delle preoccupazioni più diffuse tra i signori capi, che non sono per niente contenti quando una donna vince il concorso da macchinista, mica solo per questo, anche per la maternità, i figli, la casa, e tutto quello che ne consegue. Come si fa? Si fa come si deve fare, la trattieni, aspetti di arrivare in una stazione di testa, quella volta nella vita che stai lì lì per morire avvisi il capotreno e al primo segnale rosso scendi e ti accucci davanti alla locomotiva. Di certo non te la fai sotto, io in tanti anni non l’ho mai sentita una cosa così.

Ecco, questa sono io, la macchinista Giovanna. Costanzo, il più piccolo, sedici anni tra un mese, l’altro giorno mi ha detto «mamma che dici, quando finisco il liceo ci vorrei provare». Gli ho fatto la faccia feroce e gli ho detto no, che lui deve fare il medico, non  il macchinista. In cuor mio però sono stata contenta, chissà se Costanzo se n’è accorto.

sara5

CREDITS
Questo racconto fa parte di Testa, Mani e Cuore, edito nella Collana Carta Bianca per l’editore Ediesse nel 2013.