Caro Diario, grazie al mio amico Giancarlo Carniani ho conosciuto una persona incredibile, si chiama Mauro Lotti e ha 77 anni. A inizio Febbraio, la volta precedente che ero stato a Firenze, Giancarlo mi aveva detto solo «c’è una persona che ti piacerebbe raccontare, non gli piace parlare di sé, ma ha una storia bellissima, non si sa mai, magari te la racconta, in ogni caso domattina ci fermiamo a fare colazione a Villa Olmi, lui ci passa sul presto tutti i giorni, se lo incrociamo te lo presento».
La mattina dopo così abbiamo fatto, e lo abbiamo incontrato, e gli ho parlato per pochi minuti, e mi è piaciuto un sacco, e alla fine gli ho detto che avrei avuto piacere a raccontarlo.
Come dici? Cosa mi ha risposto? Prima «ma guardi che io non ho nulla da raccontare» però poi dopo «comunque la prossima volta che viene ripassi a trovarmi, lei mi fa le domande e io le rispondo.»
Non so cosa avresti fatto tu caro Diario, ma io nei giorni scorsi ci sono riandato, complice ancora una volta Giancarlo, che è incredibile come ancora alla mia età possa capitare di conoscere una persona da appena un anno e di sentirla come se fosse tua amica da sempre. Tornando al punto, questo che puoi leggere di seguito è la trascrizione pressoché integrale della conversazione con Mauro Lotti a Villa Olmi in compagnia del figlio Jacopo, di Giancarlo e di Filippo Dispensieri, insomma un bel po’ del board di To Florence To Live Hotel, che come forse ti ho detto quando ho raccontato Giancarlo comprende, oltre a Villa Olmi, l’Hotel Mulino di Firenze e il Plaza Hotel Lucchesi. Ah, un’ultima cosa; prima di incontrarlo avevo fatto una ricerca su Google per sapere qualcosa di più su di lui e vuoi sapere cosa ho trovato? Giusto qualche piccolo riferimento qua e là, e anche questo suggerisce qualcosa di significativo sul protagonista della nostra storia.
«Allora Vincenzo, da dove cominciamo?»
«Direi di cominciare dall’inizio, dal suo primo lavoro.»
«Primo e unico direi; ho cominciato a lavorare in bottega appena finito le elementari, avrò avuto 11 – 12 anni, perché qualcosa l’ho persa per strada, non è che fossi così brillante a scuola. Per la verità mi sarebbe piaciuto fare il meccanico, ma mia madre non mi ha lasciato scampo, del resto papà faceva il ciabattino, bisognava imparare presto un mestiere e così mi sono ritrovato pellettiere. Ho fatto tutta la trafila, ragazzo di bottega, apprendista, operaio, e insomma a 20 ero già bello che artigiano imprenditore, ho preso a lavorare con me prima un ragazzo, poi una ragazza, finché sono arrivato al massimo dei dipendenti, che mi sembra siano stati 12 più 3 apprendisti.
Sia chiaro Vincenzo, in bottega il primo a lavorare sodo ero io, dovevo dare l’esempio, se non ce la mettevo tutta io chi mi avrebbe seguito?
Facevo borse, le inventavo. Vede, la miseria spesso fa venire fuori l’ingegno, perché soldi non c’erano, conoscenze non c’erano, e allora bisognava fare le cose dal nulla. Per esempio lo sa io che facevo?»
«No.»
«Andavo a Santa Croce a prendere gli scarti delle pelli. Ha mai visto a Santa Croce come fanno? Per raddrizzare le pelli prendono le forbici e le tagliano e io mi ero inventato questa cosa di tirare fuori dagli scarti dei rombi, dopo di che li mettevo insieme e realizzavo le borse. Naturalmente i rombi erano di tanti colori diversi e di conseguenza anche le borse. Adesso si chiama patchwork, di certo non l’ho inventato io, però ho inventato il recupero degli scarti delle pelli e con questo ho fatto la mia fortuna, mi hanno conosciuto e ho cominciato ad avere qualche soldo.
È andata avanti così fino ai 29 – 30 anni, quando ho incontrato Bertelli, che poi sarebbe diventato l’uomo di Prada e di Luna Rossa. Lui stava spesso a casa mia, si era diventati amici, e a un certo punto si decise di formare insieme ad altri tre una società, i Pellettieri d’Italia. Come le dicevo siamo partiti in cinque, ciascuno con il 20%, poi uno si ritirò, presi io le sue azioni e così io avevo il 40% e gli altri tre il 20% ciascuno. L’azienda era a Località Levanella, a Montevarchi, a metà strada tra Arezzo e Firenze. Debbo dire che nel successo dell’azienda hanno avuto un ruolo fondamentale l’ingegno e la capacità mentale di Bertelli, lui era già in quegli anni uno che non si arrendeva mai, io ero più tecnico, ero l’uomo di banco, lui invece era l’uomo delle relazioni, sapeva di tutto e di più, aveva contatti a destra e a manca. Degli altri due soci uno si occupava della parte commerciale, insomma era un po’, diciamo così, il rappresentante che doveva vendere il nostro prodotto e l’altro sostanzialmente ci aveva messo la sua parte di soldi e basta. Quando io sono venuto via c’erano intorno a 2000 dipendenti; pensi, da zero a duemila in una zona in cui all’inizio avevo dovuto portare io la manodopera da Firenze perché non aveva una tradizione di pellettieri.
Avevo 60 anni quando ho lasciato, prima di me lo avevano fatto gli altri due soci che avevano venduto a Bertelli per cui a quel punto lui aveva il 60% e io il 40%. Ci tengo a dire che ho lasciato di comune accordo, non c’è stato mai un litigio o uno screzio tra noi, mai, mai, mai, mai. È stata una scelta mia, di quelle che per tanti motivi uno a un certo punto della propria vita sente di dover fare.
Fosse stato per me non avrei fatto più nulla dal punto di vista imprenditoriale, però c’ho questi due figlioli, Jacopo e Maria Luce, e così a un certo punto ho chiesto cosa volessero fare e in particolare la figliola, spinta anche dal marito, ha tirato fuori questa cosa dell’alberghino.
All’inizio ho fatto molti errori, errori parecchio dolorosi anche dal punto di vista economico, del resto se tu non hai esperienza in una cosa o te la vai a fare da qualche altra parte prima di cominciare o la fai facendo errori, non è che ci siano molte alternative.»
«Non so se la cosa le può essere di conforto ma Ernst Mach ha scritto che conoscenza ed errore discendono dalle stesse fonti psichiche; solo il risultato permette di distinguerli. E ha aggiunto che l’errore riconosciuto con chiarezza è, come correttivo, altrettanto utile cognitivamente della conoscenza positiva. Detto in altri termini l’errore può essere una straordinaria modalità di apprendimento.»
«Si, però noi ci abbiamo messo anche molto del nostro, siamo stati consigliati male, per esempio questo albergo è bellissimo, però a vederla dal puro punto di vista imprenditoriale con gli stessi volumi rifarne uno daccapo da un’altra parte veniva meglio, avrebbe avuto più camere e non avrebbe avuto costi generali così alti. Lo stesso discorso vale per il Mulino, anche quello bellino bellino bellino, però solo 41 camere e nessuna possibilità di andare oltre perché è tutta roba vincolata. Per la verità il Mulino fu acquistato anche perché 15 anni fa c’era la mania di produrre energia elettrica, e ci si era detti che visto che ci passa l’acqua può essere utile fare un investimento in questa direzione. Abbiamo cominciato a lavorarci, abbiamo messo su il progetto, abbiamo avuto il nulla osta dallo Stato ma poi a un certo punto Provincia e Comune si sono messi di mezzo con l’idea che la cosa era così bella che si poteva allargarla e fare un ragionamento molto più grande. Lo sa Vincenzo qual è stato il risultato?»
«No, ma lo immagino.»
«Ecco, lo immagina, non si è fatto nulla, cosicché adesso stiamo ritornando alla carica, vediamo cosa succede, faremmo una cosa utile e daremmo una spinta all’albergo che più di tanto non fa, se ci si dà questo aiutino ci si vive. Comunque a un certo punto mi sono stancato di sbagliare e ho deciso di affidare la direzione di tutti gli alberghi a Carniani. Ecco, se prendo a confronto quello che hanno preso mio figlio Jacopo e Carniani a Firenze, il Lucchesi, quello lo capisco, perché è un palazzo nato albergo nel 1860 e si gestisce meglio, anche se i soldi si spendono uguale, sia ben chiaro. Se fosse stato di proprietà sarebbe stato una meraviglia, tirarci fuori l’utile per chi lo gestisce è parecchio più complicato, ma il Lucchesi è un investimento che ha senso.
Un discorso a parte merita Villa Salvi, anche quello un bel lavorino, un investimento fatto a Coverciano, abitazioni, garage, centro commerciale, ma anche lì non ha funzionato come poteva. Comunque, nonostante le difficoltà si va avanti, cercando di fare le cose bene, e rispettando sempre il lavoro e chi lavora, perché sa, le persone sono contente di lavorare con noi, e anche questa è una cosa importante.»
«Molto importante direi, ho avuto modo nelle mie giornate fiorentine di toccarlo con mano. Direi che visto che abbiamo finito con il lavoro possiamo venire alla voce passioni.»
«Beh, le passioni sono un discorso complicato. Sinceramente, potendo, ne avrei avute tante, ma non ho avuto né tempo, né quattrini. Io ho avuto sei fratelli, due dei quali sordomuti, il babbo morto in fretta e insomma mi sono trovato molto presto in una situazione nella quale tutto era sulle mie spalle. Era dura, il tempo chi l’aveva, i miei amici andavano a ballare e io a lavorare. Comunque i vizi, si sa, quando si ha due soldi in tasca vengono da sé, e allora ho preso quello che mi poteva rendere più di tutti, quello delle macchine, le automobili. Sa Vincenzo, a me di buttar via soldi non è mai piaciuto, perché a guadagnarli è dura. Io nella mia vita avrò cambiato, parlo di roba importante non di cose così, una trentina di automobili. Il meccanismo fin dall’inizio ha funzionato così: ne compravo una poi la rivendevo e con quel che guadagnavo ne compravo un’altra più grossa, poi più grossa, più grossa, più grossa. Negli ultimi tre anni il garage l’ho vuotato quasi completamente ma quelle che ci sono rimaste sono tutte gratis.
Ho un Ferrari 250 MM per il quale mi hanno offerto cifre inimmaginabili. Nel mondo degli appassionati funziona così, si fa di tutto per avere un determinato tipo di automobile. Ci stanno cose che diventano uno status symbol e dunque hanno un valore molto ma molto ma molto superiore a quello di mercato. Pensi che della mia Ferrari ne hanno fatto solo 13 esemplari, e con la mia ci ha corso Eugenio Castellotti.»
«Come si fa a mettere insieme un’auto cosi?»
«Come faccio? Fo le ricerche, cerco solo pezzi originali. Ora per esmepio ho puntato una macchina che sta in Francia, ce l’ha un museo, sono 12 anni che le sto dietro, l’è mezza macchina, perché di quell’altra mezza hanno perso i pezzi. Ecco, io sono alla ricerca dei pezzi, quando c’ho i pezzi vò da loro e dico io c’ho i pezzi, che si fa? O voi comprate i pezzi o voi mi vendete la macchina. Mi diverto a fare queste ricerche, a fare questi giochini. Si vende e si compra, quattrini non se ne tira fuori di tasca perché non ce ne sono.
Poi ho una Lancia Aurelia B20 Zagato, unico esemplare di tre costruite. L’ho ricostruita a forza di pezzi originali messi insieme. Perché sia chiaro Vincenzo che le mie non sono macchine inventate, glielo dico perché sa, in giro ci sono più cose false che buone. I miei pezzi devono avere il pedigree dalla nascita, devono avere certificati tutti i passaggi, e non è per niente facile.»
«Ma chi la fa tutta questa ricerca?»
«La faccio io, in proprio, con l’aiuto di un segretario, che poi lo chiamo segretario ma in realtà è il mio complice: mi aiuta a fare la ricerca, mi suggerisce come muovermi e quando poi siamo arrivati in fondo, con il pacchetto dei pezzi originali ciascuno al proprio posto, si costruisce la macchina.»
«Insomma lei fa il patchwork anche con le auto.»
«In un certo senso si. Purtroppo con mio figlio Jacopo ho passato un guaio, ha fatto due volte la Mille miglia ma gliela ho dovuta far fare di forza, eppure ha corso con una macchina meravigliosa, una Porche 550 Barchetta.»
«Guardi, se posso dire quello penso credo il guaio l’abbia passato suo figlio con un padre con una personalità come la sua.»
«Ma quale personalità, uno più bischero di me non esiste al mondo. La verità è che avrei voluto che me le avesse chieste lui le auto per correre e invece non me le ha chieste.»
«Forse perché quello non era il suo sogno e non si può vivere per realizzare i sogni di un altro, neanche se l’altro è tuo padre, che dice?»
«Dico che ci sta, che può essere come dice lei.»
«Un’ultima cosa, i quadri, la sua passione per la bellezza.»
«Mah, non lo so, qui sono più combattuto. È vero, a volte mi dicono che sono stato bravo a scovare una determinata opera d’arte, ma io in realtà non mi sento un intenditore. Diciamo che sono combattuto tra il denaro e la bellezza, riesco a riconoscere la cosa bella però non non mi va di pagarla molto per averla, anche per questo spesso rivendo i quadri un poco meglio di come li compro. Direi che più che altro è la curiosità, perché a me piace comprare dove sta il sudicio, vado a rovistare nei mercatini, tra le cose che si buttan via, non vado all’asta per comprare, la roba preparata non mi dà soddisfazione, io invece vedo se sotto il sudicio c’è il bello, ecco, è quello che mi interessa, comprare l’oggetto tutto sistemato non mi dà soddisfazione. Io il quadro lo devo scoprire, comprare le cose belle e fatte non mi interessa, mi interessa andare a scovarle. E come con i pezzi delle macchine, mi piace andare a cercare tra quello che non c’è, mi piace immaginare, mi piace la scoperta, è questo che mi dà soddisfazione. Per esempio adesso per fare una Topolino a furia di comprar pezzi ne ho quattro e mezzo tra le mani. Punto ad arrivare a cinque, quattro per i miei nipoti e una per me.»
«Per finire mi dice la prossima cosa che ha da fare qual è?»
«Allora, la prossima cosa che devo fare è campare fino a 106 anni, perché c’ho un progetto che mi ci vuole che arrivi a 106 anni per realizzarlo. Ho 3 o 4 macchine che devo riportare a Firenze e tra fare l’impostazione, trattarle, ritrovare quello che devo ritrovare mi ci vuole questo tempo.»
«Bellissimo, lei Mauro stamane mi ha fatto un gran bel regalo, grazie.»
«Prego. Però non mi ha chiesto cosa faccio tutte le mattine qui a Villa Olmi.»
«Cosa fa?»
«Il giardiniere, ed è un lavoro che mi piace molto.»
Ecco amico Diario, questo è un poco ma davvero solo un poco di Mauro Lotti, che gli americani avrebbero fatto in fretta a definirlo un selfmademan, ma secondo me lui è molto di più, perché si porta dentro Firenze, la scoperta, l’intraprendenza, la bellezza, la filosofia di vita, insomma l’Italia dai, che se questo nostro Paese riuscisse a dare un’organizzazione al talento, e a farlo diventare sistema, sarebbe davvero tra i primi al mondo.