Facile

Caro Diario, stamattina mi sono svegliato pensando al destino complicato di alcune parole, per esempio comprendere, mi ci ha fatto pensare la prima volta una decina di anni fa Derrida, che in una conversazione con la filosofa Borradori diceva a mo’ di esempio che comprendere il terrorismo non vuol dire affatto giustificarlo, al contrario, è la condizione per combatterlo con maggiore efficacia.
Ecco, secondo me un’altra parola dal destino complicato è facile, easy, che il vocabolario dice che sta per confortevole, comodo, tranquillo, calmo, disinvolto, spigliato, scorrevole, sereno, tranquillo, indulgente, semplice.

Semplice come abituarsi a fare bene quello che si deve fare, qualunque cosa si debba fare, perché se ognuna/o fa bene quello che deve fare tutto funziona meglio: la scuola, la fabbrica, l’ospedale, la bottega, la città.

Semplice come dare più valore al lavoro e meno valore ai soldi, più valore a quello che sai e sai fare e meno valore a quello che hai, perché è il lavoro che unisce e fa grande un Paese, non sono i soldi.

Semplice come dare di più a chi si impegna di più, a chi è capace di più, a chi merita di più e a chi sta più indietro, soprattutto quando lo stare indietro è il risultato della lotteria sociale, della diseguaglianza sociale, dell’ingiustizia dai mille volti.

Semplice come pagare le tasse, ciascuno per quello che ha, perché se le tasse le pagano tutti ciascuno ne paga di meno, in primo luogo quelli che hanno di meno, e tutti hanno servizi migliori.

Semplice come avere cura del bene pubblico, perché pubblico vuol dire che appartiene alla comunità, la comunità di cui siamo parte, e prendersi cura del bene pubblico vuol dire prendersi cura di sé stessi.

Semplice come fare tutto quello che devi fare tu prima di dare la colpa agli altri, anche quando quello che devi fare tu è solo l’uno percento del totale, perché essere responsabili vuol dire essere più autonomi, più autorevoli, più liberi.

Semplice come raccontare nelle scuole, tutte le scuole, dalla prima elementare all’università, perché fare bene le cose e usare in maniera consapevole le tecnologie, tutte le tecnologie, non è solo bello e giusto, ma conviene, vale per il coltello e per internet, per gli occhiali e lo smartphone, che non sono né buoni e né cattivi, dipende esclusivamente da come li usi.

Semplice come allacciarsi le scarpe o i bottoni della camicia, perché una volta che hai imparato a farlo nella maniera giusta e ti sei abituato non è che stai lì  a pensarci ogni volta, lo fai nel modo giusto e basta, perché è così che si fa.

Semplice come fare la raccolta differenziata porta a porta in una metropoli di 18 milioni di abitanti, perché basta metterla nel sacchetto trasparente all’ora giusta nel giorno giusto, e se sbagli ti ci mettono un bigliettino sopra e tu per la volta successiva hai risolto perché altrimenti sono guai seri.

Semplice come attraversare ogni volta l’incrocio senza creare il minimo ingorgo, anche quando ogni volta sono migliaia di persone e di autoveicoli ad attraversarlo, perché se ti sei abituato a rispettare le regole passi con il verde e ti fermi con il rosso e ce l’hai fatta.

Semplice come la semplicità che di per sé non elimina le contraddizioni (sociali, politiche, economiche, ecc.), il conflitto (tra istituzioni, organizzazioni, rappresentanze sociali, persone), tanto meno la pluralità (di punti di vista, idee, progetti, soluzioni, ecc.) semplicemente li colloca in un contesto (frame) più avanzato, dove a essere dirimenti sono tre cose: 1. il rispetto del lavoro e di chi lavora a ogni livello; 2. il merito delle questioni e delle soluzioni; 3. la qualità dei processi decisionali attraverso i quali nei diversi ambiti e dai diversi soggetti vengono assunte le decisioni.

Come dici amico Diario? Se è così semplice, perché sembra impossibile?
Io un’idea ce l’ho, però prima vorrei ascoltare quello che pensi tu, le nostre lettrici e i nostri lettori.

INTERVENTI

Andrea Gatto
Easy. Facile. Fatto bene e nei tempi giusti. Come l’artigiano in fondo alla strada che lavora bene. Come l’impiegato comunale che non è in ritardo e ti dà le risposte che ti occorrono in quel momento, magari con un sorriso e con garbo.
Facile come andare ogni giorno a lavori in bici e piegarla in funicolare. Click. Easy.
Facile come ascoltare il Napoli alla radio quando non puoi andare allo stadio né vedere la partita alla tv.
Facile come ritagliarsi il tempo per un tè, un bagno caldo, il libro che vuoi leggere da tanto tempo. Facile come riscoprire il piacere di una telefonata a un caro amico che non senti spesso, che vive lontano. O come rivedere il vecchio amico con un click.
Facile per il coltello e per la rete. Facile come fare impresa al Rione Sanità, come a San Giovanni a Teduccio, fare l’artigiano o il maker: avvii il tuo progetto, inizi la tua attività, lavori bene e le tue idee assumono forma, prendono vita, il tuo progetto decolla. Facile. Easy.
Facile come mettere in rete gruppi di riflessione, di ricerca. Thinktanking, saperi e menti. Storie di lavoro e di quotidianità.
Facile come organizzare gruppi di lavoro e network che interagiscono, raggiungono risultati e si divertono a farlo, superando la difficoltà di essere distanti migliaia di chilometri.
Facile come scorgere in lontananza il vento del cambiamento tra una rapina e un morto ammazzato. Facile come averne la certezza matematica. Facile come capire che c’è tanto altro se riesci a schivare i motorini, le buche e la trascuratezza.
Facile se riesci a farti strada ogni giorno tra polveri sottili e automobilisti incauti e arrabbiati.
Facile come non dover far capo all’operatore inconsapevole del call center delocalizzato per ogni problema, anche per risolvere un banale malfunzionamento, dai sistemi complessi all’attrezzo del tuo passatempo domenicale.
Facile se il digital divide non diventa una regola. E se in nome della digitalizzazione delle nostre città non siamo costretti a rinunciare alla rete per un mese o due, spesso per questioni a te del tutto ignote e incomprensibili.
Facile se la versione alpha dell’ultimo software che utilizzi ogni giorno non ti blocca dispositivo, lavori e consegne improcrastinabili.
Facile se tutti pagano le tasse, ma tasse bilanciate ai servizi corrisposti e ai guadagni. E che ti venga consentito di pagarle regolarmente, con serenità e appagamento, perché sai che stai dando il tuo contributo allo sviluppo della tua comunità, della tua Città, del tuo Paese. E che ti venga permesso di pagarle una sola volta, a un solo Stato.
Facile se i giovani del nostro Mezzogiorno, del nostro Paese, della nostra Europa e del nostro Mediterraneo non sono costretti a trovare il proprio equilibrio lavorativo, di vita e mentale tra lavoretti rimediati e ritmi stremanti e l’inconsistenza di un futuro cancellato che spegne stimoli e smorza entusiasmi.
Tu ti chiedi e ci chiedi «Ma se è facile, perché non lo facciamo?». Vincenzo, un annetto fa, insieme ai ragazzi del @Center for Economic Development & Social Change – CED ho provato a raccogliere le impressioni, o forse solo le speranze, di una delle nostre periferie del centro, il nostro amato Rione Sanità. In estrema sintesi l’idea è che uno sviluppo avulso da un cambiamento sociale capace di consentire una maturazione culturale e istituzionale diventa difficilmente attuabile e desiderabile. Senza uno sviluppo di lungo termine, uno slancio intergenerazionale, i nostri orizzonti rimarranno infelicemente confinati alle nostre aiuole e le nostre agende politiche continueranno a limitarsi alla mera propaganda e al conseguimento del consenso elettorale.
Io penso che su questo punto le tue riflessioni richiedano un assorbimento graduale e qualche lettura aggiuntiva, così come gli spunti che ne scaturiscono scritti dagli amici, da quanti ti seguono e da quanti apprezzano il tuo lavoro e contribuiscono alla crescita del progetto.
PS: a questo link qualche altro spunto che potrebbe essere interessante.

Andrea Volante
Facile ė una magia: tutto diventa facile dopo che l’abbiamo fatto, come gli esami di maturità che, se potessimo ripeterli ogni anno, sarebbero addirittura una passeggiata. Di certo la magia della leggerezza sta nel talento, che rende facili certe cose, ma soprattutto nella costanza, nell’allenamento, anche nella capacità di sopportazione, perché l’ingiustizia, le contraddizioni sociali, la gestione dello stress e della rabbia, sono cose reali, quotidiane e quantificabili e per questo pesano, altro che leggerezza.
Insomma: Easy è il diminutivo metropolitano di Sisifo, perché ogni fatica sembra inutile nella misura in cui sa metterci alla prova, ci stimola e ci allena. Quindi abbiamo tutto da guadagnare a metterci d’impegno e con metodo a farla facile, allora perché non lo facciamo? Probabilmente perché occorre il peso di una condanna per trasformare l’arroganza in determinazione, il talento in consapevolezza delle proprie capacità, serve il peso di una responsabilità per trasformare la fatica in leggerezza. È una magia che accade, per l’appunto, a chi sa farla accadere, e chi sa farlo ha qualcosa di magico, di speciale.
In tutta sincerità l’idea di trasformare questa magia in una regola mi spaventa, perché se facile diventa una regola, alla lunga, rischiamo di confonderla con la legge. Allora easy diventa il modo in cui tutto può essere semplice e deve esserlo per tutti, perché la legge è uguale per tutti e, soprattutto, non ammette ignoranza. Spesso mi soffermo a guardare le televendite, quelle con i più innovativi metodi di pagamento: mi piacciono i coltelli che tagliano senza sforzo, che non bisogna affilare, che basta appoggiarli alla carne e di colpo dal forno esce un piatto da leccarsi le dita, poco importa se poi il taglio giusto sa farlo bene il macellaio, un po’ meno la casalinga e per niente io che guardo la TV, rapito da tanta semplicità. E per comprarli? Dove si possono acquistare le migliori lame forgiate per la cucina da Hattory Hanzo in persona? Semplice, per l’appunto, basta un clic.
Caro Vincenzo, riverbero i sassi che tu lanci nello stagno, vediamo quanti altri cerchi facciamo: quello che lega i coltelli e la rete è anche questo, il consumo facile – ferita antica tra politica, filosofia ed economia che non vale la pena riaprire ora – perché easy è anche il rischio di esse resuperficiali e, troppo spesso, la superficialità è un lavoro ben fatto, purtroppo.
Credo fermamente che la semplicità e la leggerezza non possano essere svendute con superficialità, ci sono conseguenze nel volere le cose facili oltre ogni limite, che non riusciamo a gestire e poi si fa fatica a rimettere le cose in ordine. Il mio lavoro di educatore in comunità inizia dalla consapevolezza che esiste il fraintendimento che fare le cose facili è bello, è giusto, sempre. È evidente che, se non si riempie di significato la leggerezza, le cose semplici saranno soltanto banali. Al contrario, dare valore alla semplicità significa recuperare lo scarto con la radice delle cose, passare dal prodotto all’opera, o recuperare la radice della nostra esistenza. Dare valore alla leggerezza significa togliersi di dosso il peso delle colpe, dei rimpianti, superare la fatica delle emozioni costruite e mai autentiche. Se davvero bastasse un clic a renderci leggeri sarebbe la più grande delle finzioni, la migliore delle televendite, la maniera più facile in cui potremo consumarci, inutilmente.

Rita Marzano
Buongiorno Vincenzo! Bello Easy, mi è proprio piaciuto. Siete bravi, con questo mezzo di comunicazione. Io no, mi mancano le facce; non sono brava a chiacchierare senza vedere le facce: vado male pure a telefono. Comunque sarebbe bello poter passare il messaggio del lavoro ben fatto in precocissima età. Per i bambini, ogni cosa diventa facilmente naturale; siamo noi grandi ad essere duri di comprendonio, condizionati come siamo da esperienze negative, giudizi e pregiudizi. Che poi, quand’è che s’è inceppato il meccanismo di trasmissione del buon esempio? I miei genitori sono nati nei primi anni del 900: papà era del 1905, mamma del ’14. Non è che all’epoca fossero tutti stinchi di santo, ma ci tenevano ad apparirlo, si mettevano scuorno di fare le cose male, di ricevere un giudizio negativo. Mò no. Anzi, ci si fa un punto d’onore della cosiddetta furbizia. Ecco, se lo sai, mi dici quando c’è stata questa svolta? Siamo stati noi, generazione di contestatori, ad allargare troppo le maglie? Dovevamo contestare, ma un po’ meno? Pare nella nostra generazione siano comuni i genitori iperprotettivi, a maglia larga. Però io sono stata fortunata assai, coi ragazzi: credo di essere stata a maglia media. Che poi, sarà vero che la tecnologia sembra dare tutte le risposte, sminuendo il ruolo dell’anziano saggio? Io non credo. Anzi, credo – come te – che il nocciolo stia qua, nell’esempio: ed è per questo che la tua ricerca di buoni esempi da narrare può essere non un punto di partenza, ma IL punto di partenza. Speriamo.

Andrea Danielli
Stavolta Vincenzo ti ho proprio fregato. Ti ho risposto due anni fa, come puoi leggere in questo articolo: Innovazione, perché in Italia non cambia nulla (con 5 possibili antidoti).
Oggi, con più esperienza lavorativa, aggiungerei che quello che ti sembra facile non lo è affatto. Perché è richiesta una fase di apprendimento tanto più faticosa quanto maggiore è la soddisfazione che ci darà il lavoro. Per dirti, ho iniziato a fare boxe e per il momento sento soprattutto il dolore di un corpo non abituato a certi allenamenti. Magari tra qualche mese sentirò soprattutto il piacere di muovermi agilmente sul ring, parare e colpire. Se mollassi oggi lamentandomi del dolore molte persone mi darebbero pure ragione “ma sei matto a pagare per soffrire?” “già sei stanco per il lavoro, fai altro!”. Un altro fenomeno che va aggiunto, a spiegare le deficienze che accumula la maggior parte delle persone, è una combinazione di furbizia e pigrizia; mi spiego: al lavoro capita che ci vengano dati compiti che non sappiamo svolgere, abbiamo di fronte due opzioni: a) impariamo a farli, studiando, impegnandoci =fatica b) li sbologniamo a un collega, copiamo da qualcun’altro =risparmio, sono furbo! Bene… in Italia tanta gente impara fin da scuola a seguire il b: copia i compiti, chiede le risposte ai compiti in classe, pensa di risparmiare e di investire meglio il proprio tempo (fidanzate, canne, sport). Anch’io ho seguito talvolta il b, ma per una parte minima della mia carriera scolastica. Sono sempre stato abituato a farmi il mazzo – e vabbeh, ho una curiosità insana e insaziabile per tutto e ho sempre studiato e letto per conto mio. Persone che seguono b a scuola e al lavoro non imparano a fare nulla: quando finalmente sono messe alla prova crollano miseramente e finiscono a fare lavori degradanti. O rimangono disoccupate. “A” si sbatte di più all’inizio, ma poi si abitua a sbattersi, a risolvere problemi, e diventa per lei/lui più semplice. “B” si convince di esser furbo ma rimane un incapace che schiva problemi. E più cresce meno riuscirà a cambiare. In Italia B va per la maggiore: per i modelli negativi, perché siamo pigri e ce la siamo sempre cavata. Dobbiamo assistere chi soffre all’inizio del percorso A. Motivarlo correttamente, un po’ bastone, un po’ carota, punire dall’inizio chi segue B, perché non c’è niente di furbo a crescere stupidi.

Feliciano Roselli
Semplice sarebbe insegnare fina da piccoli che qualunque cosa tu faccia se la fai bene inneschi un meccanismo virtuoso per te e per chi ti circonda.
Semplice sarebbe insegnare che se fai bene il tuo lavoro, puoi fare del bene anche a chi non ha le tue stesse opportunità, sociale e alle volte anche fisiche.
Semplice sarebbe insegnare fin dall’infanzia che se tutti maturassimo la coscienza del fare bene la società sarebbe più equilibrata e virtuosa.
Semplice sarebbe finire di proporre modelli di un’Italia in declino come modello di successo sociale ed economico.
Ecco … Questo per me sarebbe semplice.

Fabrizio Santini
Vincenzo, sai quanto mi piace il lavoro ben fatto, ma sai anche quanto non mi piace la retorica e il buonismo. Fare un lavoro ben fatto non sempre è così facile, se nn si è abituati alla soddisfazione dopo l’impegno, se non si è abituati a guardarsi mentre si fanno le cose (gli psicologi come me la chiamano metacognizione), se non si hanno esempi tra i pari (coetanei) a scuola, in famiglia, nella società. Per questo sono così importanti le testimonianze che racconti, per far vedere che c’è una buona quantità di persone che fa le cose fatte bene ed è felice.
Ora ti lascio, cerco di andare a far bene un lavoro a Vienna: rappresento l’Italia (insieme a vari colleghi) al 13° meeting internationale sulla mobilità sostenibile.
(NdA: se volete saperne di più su Fabrizio leggete la sua storia.)

Leonardo Balletta
Vincenzo sembra impossibile perchè c’è un’intera generazione, forse anche due, culturalmente incellofanata, soffocata dalla logica del “valetutto”. Cresciuta senza fame ne’ ambizione, in contesti familiari/sociali in cui era più facile sviluppare e coltivare clientele che sogni e progetti, in scuole in cui si cavalca il talento anzichè insegnare il valore del lavoro e del sacrificio.
Troppi alibi, poca voglia di mettersi in gioco in un mondo in cui, “lo dicono tutti, anche la TV”, è più facile arrangiarsi o tentare la fortuna che vendere la propria professionalità.
E allora? Ci arrendiamo? No. Tocca proporre nuovi modelli vincenti, bisogna raccontare le storie e i percorsi di chi ce l’ha fatta, di chi ha lavorato duro ed ha raggiunto i suoi obiettivi diventando un’Eccellenza. Nel lavoro, nell’arte, nello sport, nella vita. Trovare nuovi esempi da anteporre a quelli commercialmente imposti dalle tv e dai media. Perchè sembra impossibile, è sicuramente difficile, ma c’è chi ci riesce, e deve raccontarci come ha fatto. Deve raccontarlo ai bambini, ai ragazzi, magari anche alle loro famiglie. Deve raccontare quante ore al giorno studiava, si allenava, suonava. Quante volte ha pensato di mollare tutto. E poi cosa è successo dopo, cosa è diventato, cosa E’, e cosa HA.
Come fai tu, come sto provando a fare io, nel mio piccolo, in ambito sportivo. Ce ne sono tanti di campioni da raccontare, ragazze e ragazzi che hanno dato tutto, che hanno lavorato tanto, e che hanno deciso di emergere, di crescere, di migliorare. Dando un significato e una dignità alla loro vita. Sono cresciuto nel mito di Mennea, ascoltando i racconti dei campioni slavi della pallacanestro che andavano a in palestra a tirare all’alba, prima della scuola; qualche tempo fa mi è toccato sentire da un professore di Educazione Fisica che vantava una serie di vittorie con la sua squadra di calcio della scuola grazie alle prodezze di uno studente in odore di professionismo che “i ragazzi che fanno sport a quel livello non possono mica seguire le lezioni e studiare, è chiaro che senza comprensione da parte dei colleghi poi vengono bocciati e non riescono a diplomarsi”. Ecco. Dobbiamo trovare e proporre nuovi esempi, dobbiamo ristabilire le priorità, dobbiamo tracciare nuovi percorsi da seguire alternativi a questi.

Domenico Pisani
Semplice il lavoro ben fatto? Non è epoca di lavori ben fatti, molte volte pur affidandosi a persone considerate professionisti ti accorgi che la qualità del lavoro lascia a desiderare. Non occorre e non serve amore per il lavoro fatto bene, ma tante piccole cose che si sommano e danno il risultato, perché al di là delle capacità intellettive o manuale un lavoro ben fatto è quando magari ci impieghi quei pochi minuti in più nel realizzarlo ma sono minuti ricchi di attenzione, che vanno dalla scelta dei materiali a come assemblarli, nella capacità di rendere ogni componente rintracciabile, visibile, perché il lavoro ben fatto non ha paura di concorrenze perchè la sua forza sta nel valore che esprime attraverso la qualità del suo lavoro.

Rosario Pagano
Secondo me è sempliece eppure sembra impossibile perché tutto ciò che è semplice e naturale non è ambizione, potere, controllo, perché cercare la semplicità e la naturalezza nel fare qualsiasi cosa non produce prestigio, immagine, visibilità in una società in cui l’apparire e, quindi, l’avere sono il diktat a cui non si riesce a non sottostare.
Il lato oscuro, l’avere, esercita con grande veemenza il suo fascino e da qui la voglia dell’individuo di emergere nello status societario non per merito, non per capacità, non per passione, ma solo per una sorta di legge della jungla in cui vale ogni mezzo per avere un posto importante nella società. D’altra parte il lato buono, l’essere, deve essere scelto con consapevolezza che è l’unico modo per essere un rappresentante civile di una società che non lascia indietro nessuno, anche se il criterio meritocratico è importante come stimolo per fare sempre meglio. Ma non per sopraffare l’altro ma soltanto perché le proprie capacità siano al servizio di un sistema equo e semplice nel quale tutti vivono con uguali diritti e doveri e nel quale il lavoro deve essere il fondamento per realizzarsi e lo strumento di libertà da ogni potere, da ogni controllo, da ogni sopraffazione. Mi rendo conto che la situazione attuale – mi vengono in mente politica, religione, interessi economici, multinazionali e chi più ne ha più ne metta – non induce a pensare che possa essere facile attuare una pacifica rivoluzione mentale e culturale, l’unica consentita ed attuabile, ma è proprio questo il momento di tenere duro per chi ritiene che il lato buono dell’essere debba prevalere sul lato oscuro dell’avere. Ecco perché, anche se sembra impossibile, l’utopia, il sogno possono diventare realtà. Che la forza sia con noi.

Nunzia Moretti
Leggo le parole di Vincenzo e penso: «sta dicendo tutte cose naturali ed ovvie, eppure oggi inattuate se non addirittura inattuabili.» Poi però mi viene in mente che il primo verbo che ho imparato a scuola è stato il verbo essere e non il verbo avere, «io sono» non «io ho».
Io sono se faccio bene il mio lavoro qualunque esso sia.
Io sono se esprimo la mia libertà fino a quando non impedisco ad un altro di esprimerla a sua volta.
Io sono se penso al «nostro» benessere e non solo al «mio», perché io da sola non posso fare nulla, perché tutti abbiamo bisogno degli altri, il punto è che il bisogno non dovrebbe identificarsi con l’uso delle leggi e delle persone a proprio piacimento, ma con un interscambio.
Io sono se il mio lavoro viene apprezzato e valorizzato non solo economicamente.
Io sono se i piccoli tasselli che costruisco con la mia esistenza ogni giorno servono di supporto all’esistenza di un altro.
Io sono solo se «noi» siamo.
Ecco, io penso che se capiremo questo sarà tutto – ma veramente tutto – più facile.
A proposito, il verbo avere non mi è mai piaciuto molto, «io ho» non fa per me.
Cogito ergo sum diceva Cartesio che ne capiva sicuramente più di me, non diceva Cogito ergo habeo, perché pensare ti fa «essere» che è la cosa più importante, mentre avere dovrebbe servirci solo per vivere tutti dignitosamente, senza diseguaglianze e discriminazioni. O no?

Tina Magenta
La semplicità mi fa pensare a quando da bambina vivendo in un paesello di campagna, spesso sentivo parlare di povertà, e vedo ora i due termini sovrapporsi. E da quella povertà piena di dignità, di sapienza, di poco, emerge la vita semplice di gente che con poco e niente di suo, riusciva anche a pensare a chi aveva ancora meno, e quel poco che sottraeva a sè serviva a far crescere , o meglio a non far morire una comunità, a salvaguardare seppur faticosamente “il bene comune”: Una generazione di uomini e donne sono cresciuti e si sono evoluti grazie a questo modo semplice, concreto e generoso di vivere.

Antonietta Di Lorenzo
E perché, professore? Bella domanda. Mi viene da pensare a Baumann e alla sua definizione di “Società liquida”, e anche al senso del Tempo, che ormai si è, credo, completamente stravolto. Tutto si muove in fretta, nessuno vuole più aspettare, anche le stagioni, paradossalmente, segnavano il Tempo, segnavano dei cicli, pure loro si sono messe alla rinfusa. Persone, gruppi sociali, si muovono senza regole, travolgendosi in un ritmo frenetico – pare si chiami “cultura della fretta o dell’adesso” – mettendo in crisi aspirazioni e potenzialità.
Easy. Io lo proporrei come un nuovo mantra, da ripetere ogni giorno, per cercare cosi di alleggerirla quest’epoca, che se non ricordo male, Spinoza definì “delle passioni tristi”, magari non proprio inteso nel suo senso, ma triste però lo è.
Tutti o quasi pervasi dal fatto che si fa del mondo il proprio dominio, che sia ambientale o altro poco importa, questo è il concetto di libertà che abbiamo oggi.  Si, libertà, che bella parola, quanto sangue e quante lacrime è costata, e adesso che cosa ne facciamo? Utilitarismo, tutto deve servire a qualcosa, e questo purtroppo ricade sui giovani e li plasma in senso negativo. Per essere ‘Easy”, per uscire da questo, che sembra un vicolo cieco, occorre la gioia del fare disinteressato, dell’utilità dell’inutile, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati. E poi ascoltare chi, dell’Easy, ne fa una scuola pensiero di vita felice. E non è poco.

Silvia Trovato
Vincenzo, la tua riflessione mi fa aprire molte porte. La semplicità appare impossibile perché spesso anteponiamo così tante sovrastrutture che perdiamo di vista l’essenza della semplicità, la strada dritta che scocca come una freccia, e procediamo per sentieri tortuosi. La complessità deve essere la chiave di accesso alla semplicità; credo che nell’abitudine al pensiero complesso sia la chiave di questa semplicità. Più rispetto di sé, degli altri, del lavoro, dei desideri nostri da incrociare a quelli dell’altro.
Il merito delle questioni, scrivi tu, e anche questo è un punto fondante, la profondità, perché è con quella che arriviamo alla semplicità, che cerchiamo anche noi affranti, con le nostre povere e forti mani, di spogliare le sovrastrutture per arrivare all’essenza.
Dico povere e forti mani perché è così che a volte sento le mie, frenate, tra l’azione e il pensiero, quando questa semplicità la vedo vicina, ne sento il colore, e mi pare di non avere la forza sufficiente, allora per arrivarci, per arrivarci devo respirare forte. Scegliere, decidere, prendere parte, entrare nel nucleo delle decisioni è parte della semplicità, è esercizio di libertà, perché altrimenti rischiamo di perderlo il senso di questa parola. E tu che dici Vincenzo? Perché è semplice e sembra impossibile?

Anna Sara Vozza
Semplice? No, semplice non è. Facile? No, nemmeno quello! Perché? Perché è da bambina che cerco di fare le cose bene perché è così che si fa, è da sempre che ci metto anima e corpo per un ideale. A costo di non dormire e di non pesare sugli altri, caparbia e passionale ci metto tutto il mio meglio per un obiettivo comune, giusto, condiviso.
La verità? È che io sociologia manco la volevo fare, poi ne ne sono innamorata si, perché ti apre la mente, perché ti fa osservare la realtà da mille sfaccettature in un eclettismo di colori e sfumature. Ma quando annaspi per trovare il tuo posto nel mondo, quando ti senti tutto e nessuno, quando ti svegli e hai mille idee ma nessuna da realizzare ti chiedi: quanto ne vale la pena?
È anche una questione di dignità, uno stile di vita, e allora si, diventa semplice agire in un certo modo. Il mio spirito guerriero mi spinge a non abbattermi di fronte alle difficoltà o alla chiusura mentale di chi preferisce non vedere per non farsi male, non osare, non cambiare. La verità, professò, è che la sociologia ci rende dinamici ma immobili e che sarebbe tutto più semplice se anche all’università ci avessero detto certe cose. Sarebbe tutto più semplice se a guidarci ci fossero meno interessi. Soprattutto in questo periodo mi guardo intorno e la sfida di motivare le persone e stimolare al cambiamento non la perdo mai, è solo che talvolta si fa a botte con questa società e diventano maggiori le paure e instabili le fondamenta. Comunque no, semplice non è.

Francesca Di Ciaula
Caro Vincenzo, leggo quasi sempre quello che pubblichi, pur se in prima lettura in maneira veloce. Semplicemente leggo come se bevessi un bicchiere d’acqua che scorre giù veloce, per poi magari ritornare indietro e ripassare i punti più densi di senso, concetti ristretti in poche righe come quelle finali in questo caso.
È vero, viene tutto più semplice quando ti fermi sulla soglia dell’altro e osservi, magari ascolti se uno ci riesce. Rispetto è secondo me una parola cardine. Viene semplice buttarsi a capofitto in un’impresa o progetto e sapere che ti costerà impegno e fatica, ma è là che non ragioni, perché senti la curiosità, la voglia di andare a vedere cosa ne verrà fuori, se ce la farai.
Aggiungo che mi
piace tutto questo, che ciò che facciamo qui serve a mettere inseme conoscenze, percorsi, fatiche, a costruire un sentire che vuol essere comune, apporti che confluiscono in uno stesso fiume. Un sapere vero, quello che si costruisce insieme e non resta confinato nelle sole pubblicazioni individuali. Tutto questo ha a che fare con il mezzo, il web e le inesplorate sue potenzialità che vanno piegate, prese e utilizzate per realizzare percorsi mai finiti, anzi incompiuti, come incompiuta è una rete che si allarga senza sapere a quale nodo potrai agganciarti, a quale terminazione (segmento, connessione) ultima, provvisoriamente ultima, potrai arrivare.

Silvia D’Aguanno
Facile, spontaneo, come il desiderio, quella forza innata in ognuno di noi che è vita e a seconda delle modalità in cui esso ci attraversa, ci offre ali di gabbiano affinché si dilatino i nostri orizzonti oltre quella linea immaginaria che tanto ci rassicura quanto ci frena. Secondo me è necessario non tanto spiegare il senso del mondo, del bene e del male, del perché le cose vadano in un certo modo, ma dimostrare a tutti che si può stare in questo mondo dando senso alla vita, che tutti possiamo vivere con passione e soddisfazione ogni giorno, risorgendo ad ogni alba e perché no, adottando la vita.

dipinto di Matteo Arfanotti

dipinto di Matteo Arfanotti