4 Ottobre 2016
Caro Diario, l’articolo di Gianni Tomo che puoi leggere qui è del 26 Settembre, per me già il titolo dice un mondo «Prima di semplificare è d’obbligo razionalizzare le norme», e insomma se non fossi stato così preso dal lavoro ne avrei scritto prima. In ogni caso, questi ragionamenti qui non hanno scadenza, per fortuna direbbe Gianni e per fortuna dico pure io, perché noi qui nei modi in cui il mezzo – nel senso di media of course – lo permette stiamo cercando di fare un lavoro di ricerca, di approfondimento, quasi di scavo archeologico, perché se non andiamo in profondità è difficile ritrovare il lavoro ben fatto del dottore commercialista.
Per ora è tutto, la discussione rimane come ogni volta aperta e come ogni volta spero che siano in tante/i a partecipare.
23 Settembre 2016
Caro Diario, la bella storia di Gianni Tomo che puoi leggere tra poco, naturalmente se non lo hai fatto già, mi ha fornito a fine Luglio 2016 il pretesto per scrivere un nuovo articolo – Fare bene le cose perché è così che si fa – che ha creato a propria volta l’occasione per sviluppare una interessante discussione a più teste e più voci, di cui se volete potete leggere qui. È la seconda volta che racconto di Jullien e del suo ultimo libro – Essere o Vivere, Feltrinelli – in pochi giorni, ma davvero quando il grande filosofo francese ha scritto che «la situazione non è separabile dalla sua evoluzione, le cose si costituiscono perché evolvono» io ho pensato a Gianni e al suo lavoro e mi sono ripromesso di tornarci su. Poi oggi Gianni ha postato sui social l’articolo di un suo amico e collega, Giancarlo Allione, dall’eloquente titolo «Per semplificare dateci almeno un anno di tregua», pubblicato da Eutekne, che potete leggere qui e così ho rotto gli indugi. Io continuo a sperare che siano in tanti a intervenire, a partire dal lavoro di Gianni ma senza fermarsi lì, provando a esplorare i limiti e i confini del lavoro di dottore commercialista e delle effettive possibilità di farlo bene. Per intanto buona lettura.
Gianni, il commercialista e il lavoro ben fatto
Caro Diario, per il superlativo in genere non ci vado pazzo, per quello assoluto meno che mai, perciò non dirò che la storia di Gianni è la più sudata della mia vita, però la storia di Gianni è la più sudata della mia vita. L’amicizia tra me e Gianni è nata ai tempi di Austro e Aquilone, nel 1994, e io lo so come lavora perché l’ho sperimentato sul campo. È stato così che fin dall’inizio del mio viaggio nel mondo del lavoro ben fatto, ogni qualvolta abbiamo potuto chiacchierare con un po’ di tranquillità, ho continuato a ripetergli «Gianni, un giorno o l’altro devo raccontare il tuo lavoro», con lui a rispondermi «Vincenzo, ti voglio bene, per me sarebbe un onore – dice proprio così, con una combinazione di affetto, di educazione e di napoletanità che lo rendono unico – ma non è cosa. Tu dici che una cosa fatta così-così non va per niente bene e io sono d’accordo, lo sono per carattere, per formazione e per geni ereditari. Però nel mio lavoro è troppo difficile definire un lavoro ben fatto, non dico che è impossibile, però è difficile assai, c’è sempre qualcuno che rimane insoddisfatto, magari un giorno ti racconto il perché».
Adesso immagino tu ti stia chiedendo che lavoro farà mai Gianni Tomo, te lo dico subito, il dottore commercialista, che lui nella sua vita professionale non ha fatto praticamente altro, mentre nella vita vita c’è tanto altro, lo sci, Roccaraso, il Rotary, la valorizzazione di Castel dell’Ovo, ma questo te lo racconto un’altra volta. Adesso ti dico invece che tutto è iniziato nel settembre del 1977, a 18 anni, appena diplomato, per genio e per caso, grazie a un periodo di stage presso uno studio professionale che all’epoca era tra i più importanti d’Italia. L’esperienza, ostacolata da suo padre, preoccupato per il ritardo che avrebbe potuto comportare – come in realtà avvenne – sul percorso di laurea, è stata allo stesso tempo un’occasione di grande rammarico e di grande crescita. Di rammarico perché la laurea l’ha conseguita quando il papà non c’era già più. Di crescita perché se avesse seguito la via canonica non avrebbe avuto modo di vivere in presa diretta il fermento dei primi anni ’80 ed essere già pronto per i tanti momenti successivi che si sono poi rilevati davvero importanti per la professione, e chissà che questo non suggerisca qualcosa di più generale circa il rapporto tra il sapere e il saper fare, tra il pensare e il fare.
Adesso però torniamo a noi, perché qualche giorno fa sono riuscito finalmente a farmelo dire il suo «perché», e ho deciso di raccontarlo a te come lui l’ha raccontato a me, sperando che ti piaccia, come è piaciuto a me.
«Vincenzo, mettiamo che un commercialista si occupi di assistenza tributaria: quando è che per il cliente egli ha fatto un lavoro ben fatto?Inevitabilmente quando gli avrà fatto pagare poche tasse. Vogliamo dire il meno possibile? Fermo restando naturalmente il rispetto della legge e delle norme?»
«Diciamolo.»
«Perfetto. Però se poi l’Agenzia delle Entrate avrà ritenuto che c’è stato qualche errore il cliente penserà in tempi rapidissimi – magari ancor prima che si sia appurato se l’errore veramente c’è stato oppure no – che il suo commercialista non ha fatto un buon lavoro. E tieni presente che tutto ciò si può verificare per ogni diversa pratica professionale: dalla migliore redazione di un bilancio che venga impugnato dai soci, creditori o che non sia accolto da una banca per un nuovo fido, alla più articolata e meticolosa predisposizione di una pratica di agevolazioni finanziarie o di rilancio aziendale che – per qualche strano, imprevisto, non di rado infondato motivo – non dovesse andare a buon fine. Dato questo contesto, te la posso dire la mia morale della favola?»
«Dimmela.»
«Il commercialista – qualunque commercialista – per quanto bravo, di fiducia e insostituibile egli possa essere agli occhi del suo cliente, in tempi più o meno rapidi potrebbe essere destinato a non esserlo più.»
«Gianni, scusami, ma non capisco. Tu mi stai dicendo che un commercialista non può fare un lavoro ben fatto?»
«No! Ti sto dicendo che la valutazione se il lavoro è stato ben fatto o meno non può essere fatta in assoluto e comunque non può dipendere soltanto dal risultato.»
«Qui ti seguo. Per quasi dieci anni ho raccontato ai miei ragazzi all’Università di Salerno che la bontà di una decisione non dipende solo dal risultato, come dimostra il fatto che puoi sbagliare a fare un cross e fai gol – il massimo del risultato in una partita di calcio – e puoi tirare un tiro meraviglioso e il portiere te lo para.»
«Ecco, mi fa piacere che tu dica questo. Nel nostro lavoro ci stanno una miriade di aspetti oggettivi e soggettivi da tenere presente. L’approccio e la professionalità con cui il commercialista fa il proprio lavoro è il primo naturalmente, ma poi c’è quello che il cliente si aspetta dal commercialista, poi ci sono le interpretazioni, poi ci sono gli errori (del commercialista, del cliente, dell’agenzia tributaria, di chi deve erogare il prestito, del legislatore, ecc.), insomma se contempero nel tempo tutte le parti – sempre a partire dal commercialista – ritengo di poter dire che è davvero molto ma molto difficile arrivare a un lavoro riconosciuto da tutti come ben fatto.»
«Una volta mi hai parlato delle difficoltà che ci sono persino a definire un equo compenso.»
«Si, un altro esempio è quello degli onorari. Quando è che un onorario per un lavoro teoricamente ben fatto è davvero equo, per il commercialista e per il suo cliente? Un tempo, con le tariffe professionali ora abolite, esistevano parametri minimi e massimi di riferimento, oggi non più.»
«E quindi?»
«E quindi restano tutti più o meno insoddisfatti. La buona consulenza si vede nel tempo, spesso ben dopo la fissazione e magari il pagamento degli onorari. Se le cose non dovessero andare a buon fine il cliente penserà a prescindere di aver pagato troppo.»
«Gianni, posso dirti con sincerità quello che penso?»
«Non è che puoi, devi!»
«Con questa storia che il dottore commercialista non può fare un lavoro ben fatto non mi convinci, innanzitutto perché conosco te, e poi perché sono convinto che qualunque lavoro può essere fatto bene.»
«Vincè, allora non mi sono spiegato. Certo che anche il mio lavoro può essere fatto bene. Se mi provochi su questo piano ti dico anzi che in un mondo dove ogni singolo dato può essere confutato e incrociato, dove l’errore è all’ordine del giorno e dove tutto è affidato al commercialista – dallo studio di norme che sbucano dalla sera alla mattina, all’applicazione delle stesse, ai tantissimi adempimenti di archiviazione, di invio, di pagamento con scadenze sempre più fitte e ravvicinate, durante tutti i mesi dell’anno – al lavoro del commercialista tu dovresti dedicare un libro altro che articolo. Il punto è il metro oggettivo di valutazione: è qui che c’è una difficoltà che secondo me può essere superata solo con una crescita culturale dell’intero sistema: il commercialista, il cliente, l’agenzia delle entrate, le banche, il legislatore e chi più ne ha più ne metta. Posso fare – come dici tu – un tuffo nel passato?»
«Vai.»
«Nel 2003 il legislatore emana il primo click-day e i giornali titolano “il bravo commercialista è un fulmine al computer”. Secondo me è stata una terribile invenzione a svantaggio di tutti che è stata fatta passare per una innovazione a vantaggio di tutti.»
«Fermo! Che cos’è il click-day?»
«Click-day era stato chiamato – in Italia c’è spesso il vezzo di essere “smart” con le parole invece che con i fatti – il sistema per accedere a importanti agevolazioni finanziarie su investimenti: il commercialista doveva avere tutto pronto per il suo cliente e, ad una certa ora di un certo giorno, doveva inviare per via telematica l’istanza di agevolazioni con tutta una serie di dati. I fondi venivano assegnati secondo l’ordine di arrivo cronologico delle istanze, fino al loro esaurimento, cosa che avvenne nel giro di poche ore. Ti puoi immaginare il panico di quei giorni: tra collegamenti internet che nel 2003 erano abbastanza incerti, linee intasate, tutta l’Italia alle prese con gli invii telematici, chi erano i commercialisti che avrebbero fatto bene il loro lavoro? Ovviamente quelli chi arrivavano tra i primi, e comunque entro il limite per poter rientrare tra i fondi disponibili. Ora Immagina la disperazione di chi, nel giorno del click day, avrà avuto qualche problema ai computer, alle linee, con la modulistica.»
«Con l’aneddoto del click-day mi stai dicendo dunque che dato che le scadenze sempre più serrate sono all’ordine del giorno il commercialista migliore, quello che fa meglio il suo lavoro, rischia di essere sempre più quello che è un fulmine al computer?»
«Esatto. E aggiungo una domanda: a che servono tanti anni di studio, di abilitazione, di specializzazioni, di esperienza se per fare un lavoro ben fatto serve altro?»
«Capisco che la domanda è retorica, però non faccio finta di niente e ti racconto di un mio ex studente lavoratore che a fronte della richiesta del capufficio di smaltire presto le pratiche che avevano accumulato scrisse una nota di una paginetta nella quale dimostrò che «fare presto» e «fare bene» in quella specifica occasione erano incompatibili, perché dietro ognuna di quelle pratiche c’erano delle persone con le loro richieste che avevano bisogno del tempo necessario per essere valutate. Uno di questi giorni te la mando questa paginetta.»
«Sono contento se lo fai. Comunque penso che adesso ci siamo capiti, e allora te lo posso dire: personalmente sono convinto che un dottore commercialista può sempre provarci a fare un lavoro ben fatto, l’importante è essere chiari e trasparenti con la clientela e dotarsi dell’organizzazione più idonea al proprio studio. Come sai in questo senso ho provato a dare qualche consiglio ai colleghi prospettando quali possono essere i migliori driver organizzativi e di gestione strategica dello studio professionale nel mio libro edito da IPSOA e di questo parlo con le migliaia e migliaia di colleghi che seguono i miei corsi di marketing sia in aula che online.»
«Gianni, adesso stai sostenendo che il dottore commercialista non lo può dire ma lo può fare il lavoro ben fatto?»
«Sto sostenendo che in via assoluta non è possibile affermarlo, però ci si può provare. Io lo faccio, tutti i giorni, da oltre 30 anni. E ti dico che provandoci con fermezza tutti i giorni, ognuno nel suo piccolo o grande studio, le cose, per la nostra professione di dottori commercialisti, possono cambiare in meglio.»
«Ecco, così direi che sono soddisfatto, ti ringrazio. Aggiungo anzi che con questa tua ultima considerazione mi hai riportato alla mente le parole con le quali comincia il Tao Te Ching: Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome.»
«Viciè, mo’ non esagerare altrimenti io e i tuoi lettori pensiamo che mi vuoi sfottere. E naturalmente grazie a te. E a chi di noi ha e avrà la voglia di continuare a provarci! Quello del dottore commercialista è un bel lavoro, e merita rispetto.»