Potrebbe essere un nuovo gioco, ammesso e non concesso che non lo sia già. Uno dice tre nomi e cognomi e gli altri indovinano cosa li tiene assieme. Dato che l’idea è venuta a me per questa volta i tre nomi li faccio io: Sophie Wolfe, Wolfgang Pauli e Renato Dulbecco.
Avete indovinato? Sono contento assai, perché i tre nostri eroi sono state tre persone per molti versi veramente speciali. A quelli che invece no ricordo invece che Sophie Wolfe ha insegnato scienze per una vita alla Abraham Lincoln High School di Brooklin, New York e ha avuto tra i suoi allievi ben tre Nobel Prize: Arthur Kornberg, Nobel per la medicina 1959; Paul Berg, Nobel per la chimica 1980; Jerome Karle, Nobel per la chimica 1985. Che dei 27 ragazzi che facevano parte della classe di Wolfgang Pauli, Nobel per la Fisica 1945, 2 avrebbero vinto a loro volta il Nobel, altri si sono fatti un nome come attori, direttori d’orchestra, professori universitari e magnati dell’industria. E che infine dal laboratorio diretto da Renato Dulbecco i Premi Nobel che sono venuti fuori sono stati quattro: lo stesso Dulbecco e Howard M. Temin, Nobel per la medicina 1975; Susumu Tonegawa, Nobel per la medicina 1987; Leland H. Hartwell, Nobel per la medicina 2001.
Soltanto bravi maestri? Oppure una coincidenza fortunata? Niente affatto. Cotanto senno non avrebbe potuto manifestarsi senza una speciale alchimia fatta di genio, di pazienza, di lavoro, di impegno, di coinvolgimento, di partecipazione. Come hanno ricordato più volte gli straordinari allievi della signora Wolfe. E come dimostra l’esperienza di fabbriche della scoperta scientifica come il Cavendish Laboratory di Cambridge, 29 Nobel Prize nel momento in cui scriviamo, e il Caltech di Pasadena, California, 32 Nobel Prize, compresi i 4 del laboratorio Dulbecco.
Più probabilmente questione di microambienti che favoriscono le interazioni socio cognitive impreviste di menti preparate, quelli che Robert K. Merton ha definito per l’appunto come ambienti socio cognitivi serendipitosi.
Ho da portare anche una piccola testimonianza personale a questo proposito. Durante la mia esperienza a Tokyo, al Riken, è stato lo scienziato Piero Carninci a parlarmi dell’importanza di lavorare in ambienti sociocognitivi dove interagiscono menti non solo molto preparate ma anche un po’ avventurose, capaci di cimentarsi con ciò che è inedito, che vogliono pensare e fare qualcosa di completamente diverso da quello che si fa da altre parti o che loro stesse erano abituate a pensare e a fare nel corso di esperienze precedenti.
Ciò che c’è già fa da punto di partenza. Ciò che occorre cercare sono le connessioni inedite, di tipo nuovo. Per questo penso che non contino solo le conoscenze esplicite, codificate, e quelle implicite, basate sull’esperienza, ma anche la capacità di guardare ai dati con occhi diversi, la propensione ad esplorare nuovi approcci e metodologie, la voglia di sbilanciarsi e di percorrere sentieri prima inesplorati con la determinazione di chi sa che alla fine del viaggio l’unica cosa che conterà davvero saranno i risultati.
Confesso che continuo a sognare di poter lavorare prima o poi in un Serendipity Lab, un posto dove si ragiona ad esempio di città intelligenti tenendo assieme il punto di vista del sociologo, dell’ingegnere, dell’urbanista, dell’economista, dello psicologo sociale e di tanti altri. Come vedete alla fine torno sempre lì, alla necessità di connettere la tanta bellezza, intelligenza, creatività, capacità di innovazione, il talento e lo spirito di iniziativa che c’è nel nostro Paese con una diversa cultura e capacità di organizzare e di gestire l’università e la ricerca scientifica. Per attivare processi virtuosi «per genio e per caso». E invertire la rotta. Quella delle opportunità. E quella dei cervelli.
post scriptum
Il grande Jorge Luis Borges, poeta di tigri, labirinti e sogni, racconta di Farid al-Din ‘Attar, poeta persiano che annovera tra le sue opere un singolare poema mistico, Mantiq-al-Tayr, che racconta le epiche fatiche di trenta uccelli alla ricerca del Simurg, il loro re. Allorquando finalmente arrivano al suo cospetto si rendono conto che il Simurg contiene tutti loro e che ciascuno di loro è il Simurg.
Il Simurg come l’Aleph? Un elogio in versione poetica della strategia win-win? Un precursore del Serendipity Lab? E ancora: senza il Simurg, i 30 uccelli esistono (si possono pensare) in quanto tali? E se manca anche uno solo di loro, il Simurg può esistere (si può pensare) in quanto tale?