Caro Diario, il tema questa volta è come connettere il talento con l’organizzazione. Come creare i frame e attivare le risorse culturali, sociali, organizzative, finanziarie necessarie a sostenere l’innovazione e il talento. Come fare in modo che il talento si faccia sistema, che poi è la maniera migliore per non sprecarlo, per evitare che tanti giovani di talento rimangano alla fine della giostra con il cerino acceso in mano.
L’esempio mi viene da un post di Gianluca Manca, co-founder e ceo di Intertwine, di cui ho avuto già modo di raccontare qui. La parola chiave continua a essere la stessa, startup, a cambiare sono piuttosto le domande e le modalità con le quali intendiamo cercare la risposta.
Nell’ordine:
Se la startup made in Italy considera un grande successo trovare 200 mila euro mentre per quella made in Usa 6-7 milioni di dollari sono una cosa normale vuol dire che c’è un problema o no?
E non sarebbe ora che di questo problema cominciassero a parlare con maggiore apertura e profondità in primo luogo gli startupper, quelli che ad oggi sono i veri e pressoché solitari protagonisti di questa ondata di idee, di progetti, di imprese che ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio movimento?
Lo scrivo con profondo rispetto per quello che molti startupper stanno facendo, e aggiungo anche che ogni volta che li incrocio rimango contagiato dalla loro capacità di pensare e dalla loro voglia di fare. Ma proprio per questo aggiungo che senza un lavoro di profondità e senza una capacità di affrontare i nodi strutturali che ad oggi impediscono il passaggio dal talento all’organizzazione, dall’eccellenza al sistema si rischia di fare molto rumore per poco, o comunque per molto meno di quello che è possibile fare, per le singole imprese che intendono nascere e crescere e per i sistemi culturali, sociali e produttivi che potrebbero e dovrebbero ospitarle e sostenerle.
Per ora io mi fermo qui, quello che penso io c’è tempo per dirlo meglio, mi interessa piuttosto quello che pensi tu e le altre persone che ci leggono. Sì amico Diario, spero siate davvero in tante/i a utilizzare questo spazio per condividere le vostre idee e le vostre riflessioni.
L’indirizzo mail al quale inviare idee, pensieri, considerazioni è: partecipa@lavorobenfatto.org
Resto in ascolto.
Vito Verrastro
Vincenzo, riflessione come sempre profonda, la tua, e contributi eccellenti. Ti dico la mia, sempre con lo sguardo “dal basso”: analizzando i fattori sociali, politici, ambientali e culturali, non credo che ci possa essere un salto immediato verso il “sistemico”: politici senza visione, lamentazione sterile come sport nazionale, media che continuano a trasmettere prevalentemente l’immagine del “lavoro che non c’è”, famiglie in serissima difficoltà ecc. Quindi, al momento, è una lotta di sopravvivenza che dobbiamo affrontare sapendo di dovere affrontare l’Everest, molte volte in solitaria. Nel medio periodo, per avere qualche speranza sistemica, occorrerà trasferire la cultura dell’imprenditività (che non sfocerà per forza nell’imprenditorialità, ma almeno ti imposta il mindset nella direzione proattiva) e l’approccio alle soft skills il prima possibile: fin dall’asilo, possibilmente, con una didattica improntata a trasmettere strumenti del presente e fiducia nel futuro. Quanto al tema startup, cui si fa cenno nell’articolo, due cose flash: questo modello ha portato troppe aspettative rispetto alla possibilità di diventare nuovi Jobs, dentro un ecosistema che (come rilevi giustamente tu) non è quello della Silicon Valley, ma sta spingendo i giovani ad aggregarsi e a ragionare sui problemi per tirarne fuori delle opportunità, e questo è un gran bel modo per generare futuro.
Antonio Russolillo
A mio avviso ogni finanziamento deve essere considerato un successo, il finanziamento consente alla startup di far partire/avanzare il progetto, fargli assumere un nuovo partner, piuttosto che permettergli di realizzare una campagna pubblicitaria. Il paragone con gli USA non sta in piedi.
Dire che in Silicon Valley prendono semplicemente più soldi è semplicistico, perché tutti gli startupper del mondo non stanno li?
Diciamo invece che in Italia esiste un problema ed è un problema a mio avviso culturale. Mi spiego meglio proponendo il parallelo tra Impresa e Startup.
L’impresa si costituisce quando è già certa di iniziare a vendere, questa si finanzia con il circolante (incassi da vendite), con il versamento dei soci e con il debito verso istituti bancari.
La Startup parte dall’idea, molto spesso chiede il finanziamento quando ha solo in mano i fogli del pitch. Quindi rispetto all’Impresa parte da molto più lontano.
Viceversa quando chiede il finanziamento non cerca il debito, cerca un determinato tipo di investitore che interpreti, condivida e rischi il capitale senza garanzie.
Il modello StartUp è totalmente diverso, la parola chiave è condivisione. Condivisione dell’idea con il team (fondamentale in una startup), condivisione dell’idea con il mercato, condivisione del rischio con il finanziatore.
Qualora la startup fallisse, gli startupper non si ritroverebbero quale primo creditore una banca, ma avrebbero fatto solamente una grande esperienza e magari l’avrà fatta anche il finanziatore.
Questo modello è opposto al modello economico produttivo attualmente in uso.
[rif. BCE acquista titoli di stato per dare liquidità alle banche per poi concedere Credito,credito consesso a fronte di garanzie. La banca non è un investitore.]
Il lavoro che occorre fare è quindi come ti dicevo di tipo culturale, di informazione e persuasione che il modello di sviluppo economico proposto dalle startup è diverso e che questo modello può essere esportato a qualsiasi livello, anche a quello delle imprese tradizionali.
La realtà è che in Italia ci sono tanti incubatori, acceleratori, community ma pochi Venture Capitalist, per non parlare del Crowdfunding per il quale siamo ancora all’età della pietra.
La propensione al rischio da noi è minore, il fenomeno non è ancora considerato nella sua interezza anzi molti ne stanno abusando passandolo per moda o per guagliunera.
Per questo motivo ritengo che il paragone con gli USA non sia possibile.
E’ invece un nuovo modo di fare impresa, Condiviso con tutti i soggetti. Una rivoluzione.
Roberto Paura
Parto dal presupposto che non condivido il modo in cui in Italia si sta evolvendo in fenomeno delle startup. Utilizzo non a caso il termine “fenomeno” perché, diversamente da buona parte del mondo occidentale, USA in primis, in cui la startup è solo la prima fase di un’azienda come le altre, in Italia – complice il giornalismo in cerca di “casi” da raccontare e la politica che spera così di risolvere il problema della disoccupazione – è diventato sinonimo di piccola realtà di innovazione (perlopiù digitale) con un bassissimo livello di impatto sulla crescita economica del paese. Un fenomeno che si sta avvitando su se stesso, che vive di riti propri, che costruisce una specie di nuova categoria sociale autistica rispetto al resto della società, e che – con le dovute eccezioni – non innova veramente. Proprio perché vittima di meccanismi autoreferenziali, tanti startupper cercano di sfruttare i fondi senza avere davvero un’idea, riproducono idee già collaudate sperando di apportarvi dei correttivi che nessuno ha richiesto, partono da presupposti sbagliati. Prendiamo il caso di quella startup che è stata acquistata da una multinazionale tedesca e che ha sviluppato un’applicazione per ordinare pizze a domicilio. Qual è il miglioramento? Cosa mi costa telefonare alla pizzeria dietro l’angolo per ordinare una margherita? Risparmio tempo? E per farci cosa?
Naturalmente generalizzo, conosco alcune startup che lavorano in settori enormemente più utili per la società. Ecco, allora direi che il criterio su cui basare il successo di qualcosa sia proprio l’utilità. La startup di cui sopra ha guadagnato un milione di euro o qualcosa di più, ma davvero non potevamo farne a meno? Magari ci sono tante realtà che prendono 100mila, 200mila euro, magari anche meno, e fanno cose che hanno davvero un impatto sociale migliorativo, cercano davvero di offrirci strumenti e servizi che migliorino la nostra vita. E poi: quanto lavoro ha prodotto una startup come quella di cui sopra? Se con un milione di euro campo solo io, quanto ho migliorato la condizione occupazionale dei giovani italiani? Magari con 200mila euro posso dare lavoro a cinque persone, che possono mettere su famiglia e uscire dalla condizione di NEET.
Cerchiamo altri criteri per valutare il successo del talento.
Gianluca Manca
Secondo me Il vero problema è capire che usa ed europa, soprattutto Italia, sono mondi diversi, tarati in modo diverso.
Come già detto nel post non si può pensare di copiare e incollare ciò che succede oltre oceano, bensì dobbiamo ispirarci a loro e adattare alcune dinamiche al nostro sistema.
Altra cosa importante è che oggi si deve lavorare su scala globale; quindi le aziende potrebbero crescere in Italia fino a diventare media azienda, poi nel caso in cui i progetti fossero pronti a scalare ancora, potrebbero ricevere fondi più importanti da paesi esteri per internazionalizzare l’azienda.
Quello che manca qui sono la filiera e la cultura imprenditoriale oltre che la disponibilità di fondi da 50k al milione (fasi pre-seed e seed).
Per quanto ci riguarda noi – e per noi intendo tutti gli attori del nostro territorio, Napoli -, stiamo cercando di sviluppare e far crescere il sistema, senza concorrenza e solo con la voglia di fare, fare bene e fare insieme.
Luigi Strino
Il tema lo sento a me e alla mia vita molto vicino.
Sono Napoletano e questo fa di me un esperto Jedi, un monaco Shaolin e tante altre cose non proprio comuni, solo ed esclusivamente perché mi è stato concesso il dono di nascere in questa città.
Sono giovane e da sempre curioso del mondo, della vita ed ovviamente del lavoro, ahimè parte preponderante di vita e mondo.
Ho vissuto sempre Napoli in maniera quasi timorosa, perché Napoli incute timore, una sorta di rispetto per l’anziano saggio a cui non riusciresti a rivolgere le domande per le quali avresti voluto davvero risposta. Devi accontentarti delle perle di saggezza, e sperare di avere un bagaglio di esperienza tale che ti permetta di far da oracolo e da solo.
Da sempre appassionato di innovazione e tecnologia, ho formato la mia vita inseguendo queste passioni, ma con estrema fatica e scarsi risultati.
Scuola, non vorrei stare qui a soffermarmi troppo, in realtà quello che più mi ha sempre rattristato è il livello di sensibilità che gli scolari hanno nei confronti del mondo, che è sinonimo di innovazione. Quindi estrema difficoltà nel trovare una comunità che permetta una corretta fermentazione dell’ossigeno nelle nostre menti.
Poi divenuto adulto, ho avuto la possibilità di spostarmi fuori dalla mia amata città, scoprendo, con le dovute proporzioni, comunità capaci invece di fornire stimoli per la nascita e consigli per la crescita.
Ma essendo Napoletano, io voglio poter visitare il mondo e tornare a casa con un bagaglio da condividere, poter fare affidamento su una comunità virtuosa, fatta di persone capaci di condividere.
Napoli oggi grazie a molti vive un impulso lodevole, che è evidente vuole creare questi mezzi. Ma ahimè il nostro essere Napoletani sta creando un corto circuito. Noi viviamo da provinciali con il sogno di essere internazionali. Oggi si spende molto e troppo tempo per creare comunità auto referenziali e auto celebrative, dove l’essere arrivati per primi crea condizione monopolista e incoerente con quello che è lo spirito sano di comunità innovatrici.
Comunità che sembra abbiano come unico obbiettivo, valutarsi. Valutarsi secondo principi distorti che mai potranno creare un movimento sano. Non si possono valutare le persone in base a quale programma di accelerazione hanno passato la selezione, o le idee in base a quale misero seed sia riuscito a prendere negli ultimi 3 anni.
Questo da l’idea di come le basi di questa comunità siano fragili o, che è peggio, del tutto sbagliate. Non potrà mai nascere una comunità se si ha intenzione di giudicare; la mia comunità, la comunità che io vorrei, dovrebbe creare valore aggiunto per il nuovo arrivato, prima che per altri, l’ultimo, il nuovo è il più fertile, è il più ricco in una comunità, diamogli spazio, aspettiamo che riversi ciò che ha.
Questo a mio parere è un’idea distorta che oggi si ha delle comunità di start-up in Italia.
C’è interesse, ci sono soldi, quindi stiamo diventando solo un’altro posto dove combattere per comandare.
Napoli può diventare promotrice di un qualcosa di sano, per una volta proviamo a fare i Napoletani a Napoli.
ps
Caro Vincenzo,
mi sono dilungato perdendomi forse il filo del discorso ma non è mia intenzione essere critico asettico, vorrei potermi confrontare con chiunque, sempre più spesso, collaborare senza sentirmi fuori luogo. Qui si parla di idee, e a mio modesto modo di vedere le idee non hanno bisogno di alcun curriculum, ma solo di un luogo dove nascere.
Maria Gisa Masia
Ho letto con piacere l’articolo “Talento in cerca di organizzazione” e vorrei partecipare alla discussione.
Credo che nel rapporto tra talento e organizzazione ci sia tanto altro oltre alle modalità di finanziamento. Se infatti guardiamo alle startup che spariscono dopo poco tempo non accedendo ai programmi di finanziamento – per cui è richiesto un alto grado di competenza organizzativa- ci accorgiamo che nonostante le idee ed i progetti siano anche innovativi e accattivanti non è presente una competenza organizzativa. Pur mantenendo un’alta competenza tecnica ciò che fa crollare queste nuove idee sembra propria la scarsa consapevolezza nell’affrontare la gestione del team, la parte finanziaria o di comunicazione. Credo sia dunque importante iniziare a pensare ad una formazione che tratti gli aspetti “imprenditoriali” come centrali.
Grazie.
Luigi Congedo
Alla domanda “se la startup made in Italy considera un grande successo trovare 200 mila euro mentre per quella made in Usa 6-7 milioni di dollari sono una cosa normale vuol dire che c’è un problema o no” rispondo dicendo che ci sono fattori economici strutturali che creano questa enorme differenza, ma sopratutto una pochissima professionalità e velocità esecutiva della maggior parte dei founder italiani. E’ lItalia in generale che non è più capace di attrarre talenti e capitale e per questo a mio avviso non si possono mettere solo le startup italiane al centro dei riflettori. Questa è una partita che si gioca su scala mondiale per cui senza una maggiore internazionalizzazione dello stesso sistema educativo difficilmente riusciremo a far emergere le nostre startup.
Sul fatto che sia una moda poi ho approfondito il discorso qui.
Davide D’Alessandro
Personalmente ritengo che siccome in Italia questa tipologia di approccio, questo modo di fare impresa, non è diffusa come lo è negli Stati Uniti, in Germania o in Israele, c’è un sentito e diffuso clima di diffidenza che bisogna superare. Secondo me questo è evidente quando si ha a che fare qui da noi con investitori, esperti o presunti tali.
In Italia devi fare a sportellate solo per farti conoscere, altrove la competizione è uno stimolo aggiuntivo.