Che cosa stiamo cercando di fare con WEST4 lo ha raccontato Alessio Strazzullo qui; se proprio siete iscritti al club degli incontentabili potete leggere anche quello che ho scritto io qui, qui e qui. Alla fine si finisce sempre là: o questa voglia di raccontare storie di periferia diventa contagiosa, raggiunge tantissime persone, diventa parte di una cultura, di un cambiamento profondo dei modi di pensare, di essere e di fare, innanzitutto delle periferie che raccontiamo, finisce nelle scuole, nelle associazioni, nei mercati, e allora ha un senso, oppure un senso non ce l’ha.
Per quanto mi riguarda Alessio l’ha scritto che meglio non si può: «Tutto questo ha senso se queste storie piacciono e vengono condivise. Se a qualcuno il progetto piace così tanto da aiutarci a renderlo sostenibile. Se altri luoghi decidono di ospitare questa idea e la propagano.» Invece non sono convinto che «se non succede lo facciamo succedere». Secondo me se non succede la cosa è molto semplice: la prima puntata di WEST4 sarà anche l’ultima.
Dice ma non ti dispiace? Non mi dispiace? Ci sto perdendo il sonno per il dispiacere. Se fossi Maradona organizzerei una partita del cuore per sostenere WEST4, se fossi Madonna canterei, farei un video, provocherei, se fosse necessario mostrerei anche il culo, ma come sapete sono Moretti, ci posso mettere soltanto la faccia, le idee, l’impegno, il lavoro, tutto l’entusiasmo e la fatica che posso per fare in modo che l’idea non resti un’astrazione. La mia verità è che se dopo due settimane nemmeno 1000 persone hanno avuto voglia di vedere, ascoltare, condividere queste nostre storie di periferia vuol dire che non funziona. E naturalmente se non funziona è colpa nostra.
Dice ma guarda che stai in Italia, mica negli Stati Uniti; che qui se non sei Renzo Piano e non vai in TV da Fazio a parlare di periferie non sei nessuno, se non sei The Jackal e non fai la parodia di Gomorra non sei nessuno, se non parli della periferia che si droga, che spara, che violenta e che ammazza non sei nessuno.
Rispondo che lo so e non mi rassegno. Che continuo a combattere con le armi di cui dispongo: idee, contenuti, rapporti umani, connessioni sociali, tecnologie. Però so anche che a volte vinco. Altre pareggio. Altre ancora perdo, anche se non mi piace.
Dice ma guarda che a volte vai sotto nel primo tempo ma poi nella ripresa c’è la rimonta.
Rispondo che lo so, che in fondo in fondo ci spero, e però mi sembra un’impresa disperata. A meno che non decidiate di interagire, di dire la vostra, di aiutarci a ritrovare il filo di un discorso che altrimenti …
Roberta Gallo
Il discorso sulle periferie in fondo non è semplice da affrontare, ognuna con le sue specificità, i suoi problemi, dal cattivo collegamento con il centro, ai i mezzi che non funzionano, agli edifici pubblici abbandonati, al mancato sostegno delle istituzioni, alle camorre che agiscono indisturbate, alle basi di spaccio dove viene venduta la droga anche ai ragazzini.
Per riuscire a portare l’attenzione sulle periferie io credo che non basti una storia, ci vuole un modo di pensare ed agire diverso, non convenzionale, che porti attenzione sui problemi in una maniera tutta nuova e che coinvolga i concittadini. Io ed altri compagni creammo un collettivo, eravamo un gruppo di ragazzi armati di pazienza e voglia di cambiare la situazione del nostro piccolo paese. Q. M. ci siamo chiamati, per portare l’attenzione sul fatto che il nostro comune, appunto Q., fosse così dimenticato da diventare paragonabile al cosiddetto Terzo Mondo.
Abbiamo occupato una Polisportiva abbandonata da 12 anni, che cadeva in pezzi e macerie e dove spesso i tossicodipendenti andavano a consumare le loro vite. Abbiamo raccolto quelle macerie, ci son voluti giorni, soldi e fatiche, volevamo ricostruire quel luogo e renderlo fruibile per tutti.
L’obbiettivo era quello di dimostrare al paese che non servono le istituzioni per dar vita e identità ad un luogo, ma bastano persone con voglia di fare e idee innovative, che abbiano a cuore e diano importanza a ciò che le circonda. Inutile dire che siamo stati ostacolati e minacciati, che hanno tentato di cacciarci e di avere i nostri nomi per denunce e compagnia bella. Al punto che alla fine è stato inevitabile dover abbandonare l’idea dopo un anno e mezzo di #lavoro. Ad oggi sappiamo che quel luogo andrà nelle mani dei privati o verrà demolito dal comune stesso.
Io sono profondamente indignata per questo, abbiamo lavorato davvero con testa, mani e cuore in quel progetto. Lo abbiamo caricato di valori e significati che vanno oltre la politica, abbiamo cercato di creare un luogo per i bambini, i ragazzi, gli adulti e anche gli animali, mettendo a disposizione il grande spazio verde antistante.
È triste vedere che chi dovrebbe aiutarci, ci porta invece a distruggerci e ad abbandonare spazi di confronto, di crescita e divertimento per un paese addormentato che noi stessi abbiamo cercato di svegliare.
Le periferie sono complesse, e forse per questo a volte si ha paura anche a provare ad aprirci un discorso, ma io sono convinta che con metodi diversi, alternativi, si possa provare a coinvolgere tutti, perché quelle problematiche che le affliggono non sono di pochi, sono di molti ed è importante fare luce e chiarezza ma soprattutto è importante risolvere queste situazioni.
Nicola Cotugno
No Maria, esistono eccome le storie di periferia ed hanno una forte specificità che va conosciuta e segnalata, senza sbandieramenti autoreferenziali naturalmente: sofferenza, disagi familiari, ambientali, creano condizioni sociali e culturali di partenza totalmente diverse da chi questi problemi non li ha. Sono precondizioni a volte laceranti, segrete e secretate, che camminano in modalità carsica dentro le vite di molti dei ragazzi di periferia, dignità/riservatezza e umiltà spesso non consentono che emergano, che siano identificate, riconosciute e recepite da un sistema formativo ancora molto deficitario; ma al tempo stesso e sovente dentro questo fenomeno carsico ci sono talenti, entusiasmi e vitalità di chi disperatamente ce la vuole fare a scalare orizzonti di rassegnazione e di vero apartheid: dobbiamo sostenerli e metterli in condizione di parità con gli altri e per fare questo serve anche raccontarne le storie, narrare i sacrifici e gli sforzi che li hanno portati a crescere e formarsi per arrivare dove sono arrivati e indicarne, con discrezione, le condizioni al contesto, perchè forse le loro storie hanno un valore aggiunto specifico che merita attenzioni, non autocelebrative, ma dovute e che, ti assicuro, gli serviranno molto nella loro vita.
Maurizio Imparato
Nessuno si salva da solo: non se la trama del film parla di questo ma la mia esperienza con le buone pratiche di periferia mi suggerisce questo titolo. Se e quando chi vive di periferia decide di diventare lui ‘main stream’ allora la potenza mediatica serve. Quando decidiamo di ‘raccontare’ noi al posto ‘loro’ non funziona. Lo storytelling di massa si nutre di archetipi consolidati. Scampia=droga, Castelvolturno= prostituzione, Quartieri Spagnoli=clan, etc. etc. Sono i miei 2 cents di mezzanotte, spero possano essere utili.
Maria D’Ambrosio
West4 ha attivato un piccolo-grande processo di cui col tempo quel territorio deve sentirsi parte . C’è bisogno di tempo per fare di un racconto una storia che superi i pregiudizi e la retorica della periferia. La questione è che non ci sono storie di periferia, ci sono solo storie bellle o storie brutte da ascoltare. Parliamo del valore delle persone e proviamo a far nascere un’attenzione per i contesti in cui vivono. Mi sembra che West4 vada in questa direzione. Una traiettoria di lavoro che chiama in causa il #lavorobenfatto e mette in moto logiche reticolari che non contengono più il concetto di periferia e quindi le logiche di esclusione.