Caro Diario, oggi voglio parlarti dell’importanza di condividere e trasmettere conoscenza, non solo in quanto individui ma anche in quanto organizzazioni e per farlo mi faccio aiutare da una leggenda, quella che narra che fu Yin Xi, comandante della guarnigione in cima al passo che delimitava la provincia di Zhou, a chiedere a Laozi di lasciare una traccia scritta della sua saggezza prima di oltrepassare il confine e che fu così che il vecchio (lao) maestro (zi) decise di scrivere i 5 mila caratteri che compongono il Tao Te Ching. In pratica, a seguire la leggenda, senza la sagacia, la lungimiranza, il potere e il piacere di esercitarlo, di Yin Xi, la saggezza di Laozi sarebbe scomparsa per sempre insieme al suo autore.
Se poi fai un salto con me, non soltanto geografico, dalla Cina alla Grecia, puoi aiutarmi a immaginare come sarebbe stato stato il nostro mondo se Platone non ci avesse tramandato il pensiero di Socrate o se Senofonte non ci avesse raccontato la sua vita da soldato o se Aristofane non avesse ironizzato sul suo filosofare.
Come dici caro Diario? Perché scomodare Laozi e Platone? Perché ci aiutano a riflettere su due fatti non banali: il primo ci segnala che il popolo degli uomini ha a che fare con il tema trasmissione e condivisione della conoscenza praticamente da sempre in ogni parte del mondo; il secondo ci ricorda che associate alla conoscenza, al suo possesso, alla sua trasmissione e alla sua condivisione ci sono questioni grandi di potere e di controllo, oltre che di organizzazione e di cambiamento sociale.
Vale per la disputa intorno al Secondo Libro della Poetica di Aristotele, vale per il potere di leggere e di scrivere dopo la stampa a caratteri mobili di Gutemberg, vale per il rapporto tra maestro e garzone nella bottega artigiana, vale per don Lorenzo Milani e Michel Foucault, per Wittgenstein ed Eduardo De Filippo, vale più che mai al tempo della società connessa, nonostante l’indiscutibile ampliamento delle possibilità di produrre contenuti, e non solo consumarli, connesso all’attuale fase.
Perché ti racconto tutto questo, amico Diario? Perché penso che l’organizzazione che apprende sia una componente importante del vocabolario del #lavorobenfatto al tempo di Internet, di questa straordinaria rivoluzione scientifica che ha ridefinito i caratteri della modernità e ha moltiplicato le opportunità ma non riesce a mantenere la promessa di abilitazione e inclusione, di riduzione della sofferenza socialmente evitabile, di riduzione delle ingiustizie dovute alla lotteria sociale, di rottura delle gerarchie che fino ad oggi hanno caratterizzato i rapporti tra forti e deboli, nord e sud, centro e periferia. E perché sono convinto che il lavoro ha più futuro se ha regione Sennett e ha torto la sua Maestra Arendt, se cioè fare diventa sempre più pensare, se l’Homo Faber prevale definitivamente sull’Animal Laborans, se insomma prevale l’intimo nesso tra la mano, la testa e il cuore e se tutto questo non avviene soltanto a livello delle persone ma anche a livello delle strutture, delle organizzazioni, delle comunità, dei contesti territoriali.
Ciò detto, hai di fronte a te due strade. La prima prevede che ti fermi qui, se ne hai voglia ci pensi su e se vuoi contribuire alla discussione invii una mail a partecipa@lavorobenfatto.org e naturalmente vale per te come per qualunque altro lettore o lettrice. La seconda prevede che tu vai avanti dopo l’immagine e ti leggi l’approfondimento sul concetto di Apprendimento Organizzativo tratto dal mio Dizionario del Pensiero Organizzativo, edito da Ediesse, che secondo me merita, e in ogni caso ti può aiutare a costruire un tuo punto antonomo punto di vista sulla questione. Nel caso, ti auguro buona lettura.
Argirys e Schön definiscono con il concetto di Apprendimento Organizzativo l’insieme dei processi che consentono di leggere i contesti organizzativi, le relazioni tra persone, organizzazioni e società, e i loro significati, dal punto di vista della conoscenza. Nel loro sistema concettuale il sapere è collocato entro un network di potere e relazioni sociali mediate da artefatti e da intermediari umani e non umani che ne facilitano o ne ostacolano la circolazione.
A loro avviso, essendo la conoscenza diretta verso un fine, non si riferisce solo alle credenze e al coinvolgimento, ma anche all’azione, e consente per questo di:
valutare criticamente successi e insuccessi di una data organizzazione;
ridefinire costantemente le sue azioni ordinarie e i suoi indirizzi strategici;
accogliere e valorizzare punti di vista ulteriori rispetto a quelli prevalenti;
sperimentare innovazioni tecniche e organizzative;
collocare gli eventi all’interno di un contesto mentale e dare dunque loro un senso;
sostenere le persone nei loro potenzialmente mai finiti tentativi di crescita culturale e professionale.
Nella organizzazione che apprende il processo decisionale viene modellato su quello individuale, l’azione è orientata verso l’obiettivo e tende all’adattamento che, a breve termine, corrisponde alla risoluzione di problemi, a lungo termine, all’apprendimento. È in questo contesto che l’organizzazione può essere intesa come costrutto cognitivo che attraverso l’individuazione e la correzione di errori e anomalie modifica la propria memoria e la propria mappa concettuale.
Per Argirys e Schön condividere conoscenza vuol dire insomma comprendere e interagire meglio con il contesto e rispondere con maggiore dinamicità e più efficacia ai processi di cambiamento che sempre più caratterizzano la vita delle organizzazioni in una fase, così tumultuosa e controversa dello sviluppo delle forze produttive, come quella attuale.
Nell’elenco per forza di cose soggettivo, dunque parziale, delle principali idee guida intorno alle quali i due autori sviluppano le proprie tesi e argomentazioni, non possono a nostro avviso mancare quelle tese a sostenere che:
le organizzazioni sono in grado di apprendere in quanto strutture e per questa via modificano i propri modi di essere e di operare;
in un’organizzazione che apprende, tutti i componenti contribuiscono a ridefinire, arricchire, tradurre in linguaggio comune le diverse abilità;
l’attività di apprendimento organizzativo può essere definita come un’attività di rilevazione e di correzione dell’errore: a differenza di quanto avviene in contesti di apprendimento individuale, nei quali tale attività rimane esperienza del singolo, in contesti di apprendimento organizzativo essa incide e determina conseguenze, più o meno positive a seconda delle scelte operate, sull’intera struttura;
l’individuazione e la correzione di errori che non modificano la natura fondamentale dell’organizzazione, che non mettono in discussione la core knowledge, gli aspetti chiave della mappa cognitiva usata (i suoi componenti accettano il cambiamento senza mettere in discussione i presupposti di fondo), attivano un processo di apprendimento a giro singolo (single-loop learning nella definizione di Argirys e Schön; Lower-Level Learning in quella di C. Marlene Fiol e Marjorie A. Lyles, 1985; Adaptive Learning o Coping in quella di Peter Senge, 1990; Non Strategic Learning in quella di Virginia Mason, 1993);
la scoperta e la correzione di errori che producono un mutamento di tale mappa, che modificano norme, procedure, politiche, che determinano un cambiamento della conoscenza di base, che risponde a domande relative al perché e al come cambia l’organizzazione, attiva invece un processo di apprendimento a giro doppio (double-loop learning nella definizione di Argirys e Schön; Higher-Level Learning in quella di Fiol e Lyles, 1985; Generative Learning o Learning to Expand an Organization’s Capabilities in quella di Senge; Strategic Learning in quella di Mason;
esiste una correlazione diretta tra la capacità di rilevare il divario esistente tra risultati attesi e risultati conseguiti nella misurazione di una perfomance da una parte, e la possibilità che l’organizzazione crei ambienti e attivi processi che favoriscono l’apprendimento organizzativo (di converso, quando il feedback è positivo per lunghi periodi si può determinare una sottovalutazione del bisogno di apprendimento).
Ritornando soltanto per un attimo alla Cina e alla Grecia, a Laozi e a Platone, si può evidenziare come, purtroppo e per fortuna, non bastino né il genio solitario e nemmeno il genio con discepoli per attivare processi di apprendimento organizzativo. In almeno un senso ci vuole molto di più, un molto di più rappresentato dalla possibilità-capacità di non impoverire il proprio capitale conoscenza quando uno o più suoi componenti lasciano l’organizzazione.
Si tratta a nostro avviso di un molto di più reso possibile dalla capacità di accumulare dati, informazioni, storie, conoscenza, esperienza, norme, sapere accessibile non solo ai componenti attuali ma anche a quelli futuri e questo suggerisce probabilmente qualcosa di significativo circa le ragioni per le quali la ricerca intorno alle dinamiche con le quali si sviluppano i processi di apprendimento delle organizzazioni è andata diventando sempre più ricca.
A George P. Huber (1991), si deve ad esempio l’idea che l’organizzazione apprende quando riesce ad ampliare il numero e la qualità dei comportamenti potenzialmente disponibili sulla base delle informazioni (dati il cui significato è definito ed esiste poca ambiguità ed equivocità) e della conoscenza (un più complesso prodotto di apprendimento, come l’interpretazione dell’informazione) che riesce ad elaborare.
A suo avviso la stretta connessione esistente tra creazione e acquisizione di conoscenza da un lato e apprendimento organizzativo dall’altro è insita nei costrutti stessi del processo di apprendimento: acquisizione di conoscenza, distribuzione delle informazioni, loro interpretazione, memoria organizzativa.
L’organizzazione povera di memoria, oltre a non essere in grado di anticipare i bisogni futuri, ha una minore consapevolezza della propria conoscenza e dunque una più bassa capacità di selezione (in termini di probabilità sia di trascurare e non immagazzinare le informazioni potenzialmente utili che di sprecare risorse per archiviare informazioni non strategiche) e di socializzazione (in termini di probabilità che i membri che la compongono sappiano dell’esistenza di una informazione o del luogo in cui è stata immagazzinata) delle informazioni.
Per Nonaka e Takeuchi (1997) le organizzazioni sono strutturate in comunità di interazione che incarnano altrettanti nodi di elaborazione del sapere. A loro avviso, l’innovazione organizzativa «non coincide semplicemente con un processo di elaborazione delle informazioni esterne, diretto a risolvere i problemi correnti e a favorire un adattamento a un contesto in via di modificazione [… dato che …] l’organizzazione che cambia crea realmente, traendole dal proprio interno, nuove conoscenze e informazioni allo scopo di ridefinire i problemi e le soluzioni e di ricreare, così facendo, il contesto».
Detto in altro modo, a mettere gli individui in condizione di avvicinarsi a ciò che, per un certo periodo di tempo, sarà considerato “vero”, sono i processi di apprendimento che, ancora una volta anche grazie agli errori, vengono sviluppati.
Nonaka e Takeuchi spiegano che la conoscenza può essere esplicita (razionale – mentale, sequenziale, digitale – teorica, presenta struttura e contenuti logici e linguistici, si acquisisce e diffonde attraverso sistemi formali di comunicazione per mezzo di libri, manuali, corsi) o tacita (corporea, legata all’esperienza, simultanea, analogica – pratica, è il prodotto di intuizioni, nozioni personali, esperienza, cultura e valori morali, viene trasmessa attraverso metafore, analogie, esempi pratici), dunque cognitiva (quando si riferisce all’elaborazione, a modelli, schemi, paradigmi mentali, alle prospettive che ciascuno crea) o tecnica (quando si riferisce alla manualità, alle abilità pratiche, alle arti). E che l’organizzazione che apprende è in grado di operare continue conversioni di conoscenza (da esplicita a tacita e viceversa) e per questa via di definire campi di interazione nell’ambito dei quali condivide conoscenza e modelli mentali, favorisce i processi di socializzazione, crea nuova conoscenza. Il loro modello organizzativo, che definiscono middle-bottom-up, è imperniato intorno a cinque parole chiave (Intenzionalità – Autonomia – Ridondanza – Caos – Varietà) e affida al middle management una funzione fondamentale di cerniera tra la conoscenza esplicita, strategica, del top management e la conoscenza tacita propria degli operai di linea.
In definitiva per i due autori è al middle management che spetta il compito di gestire il processo di trasformazione della conoscenza, di tenere assieme strategia e innovazione.
A Chun Wei Choo (2006) si deve infine (naturalmente un infine assolutamente provvisorio) il concetto di Knowing Organization con il quale egli definisce l’organizzazione nella quale le persone, singolarmente e in gruppo, usano le informazioni per raggiungere tre risultati principali:
creare identità e contesti condivisi per l’azione e la riflessione;
acquisire nuova conoscenza e nuove capacitazioni (che Amartya Sen definisce come gli insiemi di combinazioni alternative di funzionamenti – stati di essere o di fare cui gli individui attribuiscono valore come ad esempio essere adeguatamente nutriti o non soffrire malattie evitabili – che una persona è in grado di realizzare);
prendere decisioni che impegnino risorse e capacitazioni allo scopo di intraprendere azioni efficaci.