Noi e gli altri

Caro Diario, te lo ricordi Eduardo De Filippo nella commedia Uomo e Galantuomo mentre è alle prese con la macchia di strutto sulla tasca della giacca? Mi riferisco alla scena in cui la moglie gli grida «ma quando ti spari?» e lui risponde «ma sia fatta la volontà del Signore, mò uno si spara pe’ ‘na macchia e ‘nzogna, e non c’è proporzione.»
Ecco, se non te la ricordi ti consiglio di rivederla. Innanzitutto perché ti fai una bella risata, che fa sempre bene alla salute. E poi perché questa idea che «non c’è proporzione», può essere d’aiuto in molteplici contesti.
Per esempio, quante volte ci capita di perdere di vista la proporzione tra il piccolo e il grande, tra l’individuale e il sociale, tra quello che capita a noi e quello che capita all’altro? Un «altro» che non deve stare per forza all’altro capo della città, dell’Italia, dell’Europa o del Mondo, un «altro» che può stare dappertutto, anche sul nostro pianerottolo, nel nostro ufficio, nella nostra fabbrica, nella nostra scuola?

Quello che intendo dire è che l’ingiustizia dai mille volti va combattuta a prescindere, in ogni contesto, e che il rispetto della dignità e delle potenzialità di ciascuno va tutelato in tutte le forme, in tutti i modi e in tutti i mondi possibili, e anche se è umano che quando una cosa negativa accade a noi ci fa più male, quando valutiamo o affrontiamo un problema, individuale o sociale, non possiamo perdere di vista la proporzione, perché per certi versi funziona come per «‘O MIRACOLO» e «o’ miracolo» di Massimo Troisi, nel senso che ci sta «INGIUSTIZIA» e «ingiustizia», «PROBLEMA» e «problema».

Provo a spiegarmi meglio con un esempio limite.
Tanti e tanti anni fa, ricordo che avevo ancora tutti i capelli neri, a un ragazzo che invece di andare a scuola faceva il pusher ho chiesto «perché» lo facesse e lui mi ha risposto «perché così posso comprare le Hogan e il Rolex». Allora gli ho chiesto «ma perché ti devi comprare le Hogan e il Rolex» e lui ha risposto «perché senza le Hogan e il Rolex io non sono niente».
Bada bene amico Diario, il ragazzo non ha detto «perché sono belle» o «perché mi piacciono», ha detto «perché senza non sono niente».

L’esempio suggerisce qualcosa di molto significativo circa i guasti culturali e sociali che si determinano quando si determina una sovrapposizione tra ciò che siamo e ciò che abbiamo, della serie posseggo le Hogan e il Rolex, dunque sono. Lo ripeto, questo del ragazzo è un po’ un caso limite, però il caso limite non ci deve far perdere di vista il fatto che in diversi modi e in molteplici contesti è proprio questa sovrapposizione di tipo identitario tra l’essere e l’avere – denaro, tecnologie, armi, ecc. – che regola i rapporti tra le persone, le organizzazioni e i sistemi Paese a livello globale.

Come dici caro Diario? Che c’entra la sovrapposizione con la proporzione?
C’entra. Perché potremmo vivere vite più serene, più consapevoli, più proattive, più soddisfatte, più attento verso «l’altro», più degne di essere vissute se la nostra cultura, i nostri progetti di vita, i nostri modi di essere e di fare non fossero così pesantemente condizionati da questa sovrapposizione. Perché se siamo così concentrati a guardare la punta del nostro dito invece della luna non abbiamo nessuna possibilità di acccorgerci della faccia dell’altro. Perché ha ragione Lévinas quando scrive che «l’altro diventa il mio prossimo precisamente attraverso il modo il cui la sua faccia mi chiama.» E perché ha ragione anche Hillman che cita a propria volta Lévinas ricordando che «l’origine dell’esistenza etica è la faccia dell’altro, con la sua richiesta di risposta. Di fronte alla faccia siamo istintivamente, archetipicamente, responsivi e responsabili. La faccia pretende riconoscimento; bisogna guardarla, incontrarla.»

Insomma quello che sto cercando di dirti è che per ristabilire la proporzione sia utile partire proprio dalla scelta di guardare, incontrare, riconoscere, la faccia dell’Altro. Secondo me metterci la faccia significa anche questo, stabilire una diversa proporzione tra la visione individuale e quella generale, tra «io» e «noi», tra la capacità di risposta all’ingiustizia personale e a quella sociale, tra «quando il problema capita a me» e «quando capita all’altro», tra «quello che manca a me» e «quello che manca all’altro».
Come dici caro Diario? Quello che penso io non è molto di moda nella parte ricca del mondo?
Lo so. Ma non mi pare una ragione sufficiente per rinunciare a pensare con la mia testa e a cercare di cambiare le cose quando non mi piacciono.
A proposito, ma detto quello che penso io, che cosa pensi tu?
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