Caro Diario, questa di Jepis è la storia vera, anzi, questa di Jepis è una parte di storia tutta vera. Avevo pensato di raccontartela io, ma poi ho pensato che è meglio se te la faccio raccontare da lui medesimo, Giuseppe Jepis Rivello, perché anche se rappresenta solo una parte della sua storia, una parte piccola se vogliamo, dice comunque un mondo.
Un mondo che lui riesce a dipingere, e a popolare di tanti colori, e finisce che neanche te ne accorgi e te ne sei innamorato. Buona lettura.
«Il lavoro mi è sempre appartenuto e forse anche io appartengo un po’ al lavoro. Da piccolo passavo i fine settimana e le estati con mio padre nel suo laboratorio di calzature e quando potevo andavo volentieri in campagna con i miei due nonni. Con mio padre invece nella terra ci andavo poco, lui appartiene a quella generazione che con la terra ha perso i contatti, ha tagliato i ponti. Mi piace pensare che sono molto più vicino a mio nonno che a mio padre da questo punto di vista.
Da quando avevo 14 anni ho iniziato a fare il cameriere perché non avevo voglia di chiedere soldi a casa, a mio modo volevo essere autonomo. In parte lo sono diventato ma comunque questa cosa di fare il cameriere mi è stata utile da molti punti di vista Innanzitutto perché ero molto timido e avevo poca “faccia di cuorno”, cosa che dopo oltre 10 anni di “onorata carriera” posso dire di aver acquisito, poi perché facendo questo lavoro ho iniziato a capire molte cose l’importanza delle relazioni e della comunicazione, poi ancora perché lavorando parallelamente agli studi ho potuto comprare le videocamere, il mac e tante cose che mi hanno permesso di iniziare a fare il lavoro che faccio oggi e infine perché anche quando ho iniziato ad avere a che fare con il video making, il web e il digitale in generale, l’unica fonte di guadagno è continuata ad essere per parecchio tempo questa mia attività parallela.
Forse è per questo che ogni tanto mi piace ancora fare il cameriere, mi ci sono affezionato, perché devo molto a questo mestiere di “servizio”, servizio si, perché ogni volta che vedo un ragazzino approcciarsi a questi tipi di lavori gli dico: pensa a benigni quando fa il cameriere nel film “la vita è bella”, divertiti pensando che stai indossando una maschera, gioca, sperimenta.
Tornando al punto, la terra mi è sempre appartenuta, l’ho frequentata con i miei nonni da piccolo, anche se è diventata una missione da dieci anni, cioè da quando è iniziata l’avventura del Palio del Grano, quando con il mio amico Antonio Pellegrino abbiamo iniziato a pensare alle pazzie che oggi sono diventate realtà.
Perché si, vivere in un paese di duemila abitanti e non provare a incidere, a sperimentare nuovi modelli culturali e sociali secondo me è un gran peccato.
Che soddisfazione quando nel 2007 ho iniziato il corso in scienze della comunicazione a Salerno e ho portato a lezione i primi video del palio del grano che avevo montato io. E quando ho cominciato a dire che il mondo del futuro sarebbe stato tutto zappa, libro e iPad? Impagabile. Si, zappa come lavoro, come riappropriazione della fatica in relazione al vero valore di scambio che dovremmo mettere in campo tutti i giorni. Libro come conoscenza, come cultura e come consapevolezza delle proprie capacità. iPad come possibilità di vivere in un mondo in grado di mescolare le carte, di sovvertire l’ordine delle questioni.
Inizialmente il discorso del Palio era come un gioco, molto legato a una sorta di “attivismo” che un diciottenne sente di mettere in campo per cambiare le cose, ma con il passare del tempo è diventato una cosa molto seria.
Quattro anni fa ho aperto la mia partita IVA come comunicatore digitale, tutti mi dicevano che non era il caso, che avrei dovuto chiuderla prima della fine dell’anno, e invece sono ancora qua.
Credo realmente, senza retorica, che ci sia un nesso tra il comunicatore e il contadino. Per me l’orto è un trainer quotidiano, mi da gli strumenti necessari per affrontare le problematiche che spesso in un ufficio di fronte al monitor possono sembrare insormontabili.
Come il contadino, il comunicatore deve avere delle visioni precise di quello che vuole vedere come frutto. Deve avere dei semi e delle condizioni per farli diventare frutti. Deve avere la forza di piantarli, di curarli, di portarli per mano e raccoglierli quando è il tempo e deve saper accettare il contesto e con esso anche la possibilità di non farcela.
La cosa più bella che mi capita quando faccio l’orto è quando non so fare una cosa, perché allora vado da mia nonna e le chiedo: “Nonna, ma le fave quando si mettono? Ma secondo te a quanta distanza l’una dall’altra?” Lei a quel punto mi dice la sua e così quando è il momento che torno da lei con le fave che ho raccolto sono veramente felice. A proposito, spesso l’orto non lo faccio per mangiarmele le cose, lo faccio anche solo per donarle, per vedere che sono state fatte, lo trovo lì il senso, la soddisfazione più profonda.»