Agnese che racconta la scienza

Questa storia qui avrei potuta “prenderla” anche dal lato Italia,  scrivendo ad esempio che se il nostro Paese vuole essere davvero più capace di collaborare e di competere a livello mondiale non può fare a meno di una strategia che sostenga e valorizzi il livello e le capacità della ricerca italiana. Avrei potuto aggiungere che per fare ricerca al massimo livello bisogna essere competitivi al massimo livello ma che per essere competitivi al massimo livello bisogna essere capaci di collaborare al massimo livello, dato che, al tempo di internet più che in ogni altra fase, la capacità di networking è una componente essenziale dei processi di competizione, tanto a livello delle strutture quanto a livello delle persone, e dunque per vincere non basta competere ma occorre collaborare, interagire, perché è vero che «vince chi conquista la priorità, chi raggiunge per primo un determinato risultato, chi dimostra originalità di vedute e capacità di tradurre le intuizioni in scoperte, le idee in prodotti, ma è vero anche che il campo è così vasto che non si vince senza condividere dati, informazioni, punti di vista, conoscenza». E avrei potuto concludere ricordando che per avviare un circolo virtuoso e sostenere percorsi e processi innovativi di ricerca sono dunque necessari investimenti pubblici e privati, organizzazione, sistemi di valutazione efficienti, per l’appunto networking, capacità di valorizzare le risorse umane e di conseguire risultati migliori di quelli degli altri. E che per fare tutto questo è essenziale impostare e pianificare con cura il reclutamento di giovani ricercatori, adottare politiche di inserimento che premiano i più bravi, metterli in condizione di fare esperienze all’estero – perché questo è indispensabile per chi vuole fare ricerca ad un certo livello – evitando però che diventi una scelta senza ritorno, anche perché ogni dottorando italiano che lascia definitivamente il Paese determina una perdita calcolata in mezzo milione di euro.
Certo che avrei potuto fare anche così, per certi versi lo sto già facendo, però adesso vi racconto la storia di Agnese, che a volte una storia dice un mondo, anche se questo poi lo decidete voi, una volta che l’avete letta naturalmente.
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Agnese ha 29 anni e un PhD in Medicina Molecolare appena concluso, presso l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano, dove continua a lavorare come post doc. A mettermi sulle sue tracce è stato Piero Carninci, il virgolettato precedente è suo, che lui lo sa che sono sempre in cerca di storie di passione e di talento, e così mi ha scritto queste tre righe: “Caro Vincenzo, una persona che si batte sempre per tantissime cose è Agnese Collino, che ha appena preso il suo PhD. Sta spendendo molto per divulgare l’importanza della ricerca nelle cure. E’ tra i miei amici in Facebook”.

Adesso però non siate impazienti, perché prima di raccontarvi di Agnese la ricercatrice vi voglio dire che Agnese e basta adora leggere, romanzi soprattutto, al punto che se avesse la bacchetta magica allungherebbe le giornate di 24 ore solo per dedicarsi ai libri e che fino a qualche mese fa ha fatto parte di un gruppo di lettura che per adesso ha dovuto lasciare perché se il tempo proprio non ce l’hai non è che puoi inventarlo.

La voglia di studiare biologia (biotecnologie alla triennale, a Perugia, corso di laurea  interamente in inglese, con docenti e studenti di ogni parte d’Europa e tre tirocini in laboratori stranieri; biologia alla specialistica, a Bologna) l’ha scoperta alla fine del liceo classico. Proprio così. Dopo 5 anni trascorsi a studiare cose importantissime, le fondamenta della nostra cultura, ha deciso che era venuto il momento di fare qualcosa che cambiasse la vita degli altri in meglio. Perché in fondo la vita ha più senso quando oltre a prendere dai, che non a caso già durante il liceo Agnese era stata la coordinatrice di un gruppo di volontariato che ogni settimana andava in un istituto per ragazzi cerebrolesi e faceva piccole attività di sostegno, una sorta di doposcuola.

Ecco, adesso che vi ho detto questo posso aggiungere che Agnese, la ricercatrice, allo IEO lavora nell’ambito di un grosso progetto europeo finalizzato allo studio dell’epatocarcinoma.

Io non lo sapevo e così me lo ha spiegato lei, i tumori del fegato si sviluppano normalmente in una condizione di infiammazione cronica, e nel laboratorio dove lavora si cerca, tra tante altre cose, di comprendere come tale infiammazione (indipendentemente da altri fattori esterni, come l’infezione da virus dell’epatite o la dipendenza da alcol) possa favorire l’insorgenza di questa patologia, andando ad osservare il suo impatto sul DNA (sia sulla sua sequenza che sulle proteine che lo avvolgono e lo regolano).

Per fare questo, è stata presa in considerazione una malattia pediatrica per fortuna assai rara (1 nato ogni 50-100 mila), la Colestasi Progressiva Familiare Intraepatica (PFIC), e si è scoperto che il genoma dei tumori di questi piccoli pazienti ha caratteristiche assolutamente peculiari che lo differenziano da quelli di pazienti oncologici esposti ad infezione da epatite o agenti chimici (il tutto è stato recentemente pubblicato sulla rivista Nature Communications (Iannelli, Collino, Sinha et al., Nature Communications 2014, 5:3850).
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Nel laboratorio diretto dal dott. Gioacchino Natoli, sì, proprio quello dove lavora Agnese, si fa ricerca di base, in particolare si studiano i meccanismi mediante i quali la cellula regola l’accensione e lo spegnimento dei geni, e che determinano l’identità della cellula stessa. Il progetto sul quale è impegnata Agnese è un po’ un’eccezione, nel senso che, pur essendo di base, è così vicino a una applicazione da prevedere non solo la sperimentazione su topo ma anche la validazione  delle eventuali scoperte su biopsie di paziente, il tutto naturalmente per trovare qualcosa che sia utile dal punto di vista diagnostico o terapeutico.

Detto in altri termini, l’attività di ricerca punta a comprendere i meccanismi profondi che governano una cellula, un tessuto, in questo caso una neoplasia, è diretta insomma ad estendere la conoscenza e non immediatamente a curare. Nel caso specifico,  si trattava di capire quali meccanismi molecolari portano una determinata situazione di infiammazione cronica a provocare il cancro e per fare questo è stato sequenziato il DNA dei pazienti di PFIC e sono state aggiunte nuove conoscenze riguardo a questa terribile patologia, conoscenze che potranno poi essere riprese da altri gruppi che si occupano di ricerca applicata/traslazionale/clinica/farmacologica che le sfrutteranno per identificare il bersaglio più efficace contro cui dirigere la cura.

A proposito, non vi ho ancora detto che nel caso particolare della PFIC il tumore si sviluppa a volte entro i primissimi anni di età, e che nella maggior parte dei casi l’unica possibilità di porre rimedio è il trapianto di fegato. Riuscire a comprendere se e in che modo l’infiammazione modifica il DNA per portare al tumore del fegato potrebbe voler dire, ad esempio, trovare delle terapie per fermare il processo di degenerazione che provoca questo cancro, delle cure in grado di colpire specificamente le cellule cancerose.

E non vi ho detto neanche cosa fa concretamente Agnese quando sta in laboratorio. Diciamo che dipende dagli esperimenti che deve fare. A volte  passa mezza giornata in stabulario per monitorare i topini o prelevare i tumori che deve andare ad analizzare. Altre volte è invece al bancone per processare i campioni di fegato (dei topi o dei pazienti) per poterne analizzare il DNA, l’RNA e le altre loro caratteristiche. E dato che si tratta di analisi che richiedono spesso una forte sinergia con esperti in bioinformatica, una parte del tempo la dedica a parlare con loro e a interpretare insieme i dati. Assai di rado lavora invece con alcune linee cellulari di fegato sotto  cappa, dato che le cellule che si coltivano su piastra si contaminano molto facilmente con batteri e spore (nella piastra sono immerse in un liquido nutriente in cui anche i batteri proliferano che è un piacere) e dunque le si maneggia sempre sotto ad una cappa che aspira e filtra l’aria rendendola sterile al proprio interno.

Connessa alla parte di lavoro “in vivo, in buona sostanza la sperimentazione su un modello murino (topo), che, nel tempo, sviluppa spontaneamente infiammazione cronica ed epatocarcinoma con un meccanismo molto simile a quello dei pazienti, c’è un’altra faccia dell’impegno dell’intrepida Agnese.
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Se glielo chiedete, come ho fatto io, vi spiega che si è dovuta rendere presto conto dell’ostilità diffusa riguardo alla sperimentazione animale, che ha dovuto fare i conti con pesanti pregiudizi e una diffusa ignoranza sulla questione, frutto di anni di mancato dialogo fra scienza e società, e che però ha conosciuto anche tanti giovani che condividevano le sue stesse preoccupazioni. E’ stato così che a novembre 2012 è nata l’associazione no profit Pro-Test Italia (Agnese ha fatto parte del comitato scientifico da novembre 2013 fino a luglio 2016) che ha lo scopo di promuovere la divulgazione dei modi e delle finalità della sperimentazione animale, e più in generale di sostenere la diffusione di una corretta informazione in ambito biomedico.

Attualmente Pro-Test Italia ha all’attivo la realizzazione di diversi eventi (manifestazioni, seminari, presentazioni nelle scuole), la partecipazione a dibattiti, incontri istituzionali e conferenze scientifiche, la produzione di materiale divulgativo (articoli, interviste, video, poster, presentazioni e altro) sulla sperimentazione animale e altri argomenti di carattere medico-scientifico che viene veicolato attraverso il blog, la pagina Facebook  e il canale Youtube.

Dite che possiamo fermarci qui? E invece no, perché la nostra giovane e combattiva ricercatrice gestisce da febbraio 2014 un blog sulla pagina ufficiale della Fondazione Umberto Veronesi che cura, parole sue,  nel poco tempo libero.

Volete sapere come si chiama? Detti contraddetti, perché, tanto per non cambiare, si propone di sfatare, in maniera semplice e con un pizzico di ironia, leggende metropolitane, bufale, luoghi comuni in ambito medico-sanitario, cose tipo “sfruttiamo solo il 10% del cervello” o “l’aspartame fa male”.

Ecco, adesso sì che ci possiamo fermare. Però prima fatemi dire un’ultima cosa. Di ragazze e ragazzi come Agnese l’Italia ha uno straordinario bisogno e perciò bisogna fare il possibile per non lasciarceli scappare per sempre. Perché i cervelli che vanno in giro ci piacciono, quelli in fuga proprio no.

9 Ottobre 2016
Questo pezzetto qui della storia di Agnese comincia con me che leggo questo su un social network:
«Salve, siamo l’Istituto X Y. Possiamo farle qualche domanda per un sondaggio?»
«Prego.»
«Dopo il suo master ha cambiato lavoro? Se sì, cosa fa?»
«Sì, sto per iniziare a lavorare come divulgatore scientifico.»
«Cioè un informatore del farmaco?»
«No, uno che fa comunicazione della scienza …»
«Ah. Boh qui non c’è, lo scrivo a lato.»
«Eh …»
«E al momento del master lavorava?»
«Sì!»
«Che tipo di contratto avrà ora?»
«Borsa di studio.»
«Aaaah ma allora lei non lavora, lei è ancora in formazione!»
«Veramente …»
«E prima lavorava?»
«Ero ricercatrice, sempre con borsa.»
«Quindi no. E ora sta cercando lavoro?»
«Ma se le ho detto che l’ho appena trovato!»
«Quindi mi sta dicendo che lei non ha mai lavorato?»
« Ma io …»
«L’intervista è conclusa, la ringrazio e le auguro buona serata!»
Tu-tu-tu-tu-tu-tu-tu

Faccio quello che penso avreste fatto voi, un po’ sorrido e un po’ mi rattristo; sorrido perché il dialogo è carino assai, mi rattristo perché l’Istituto XY è importante assai e mi chiedo se le rilevazioni statistiche le fanno così che speranze abbiamo di capirci qualcosa. Faccio anche una terza cosa, scrivo in chat ad Agnese e le ricordo che sto cercando di aggiornare le mie storie, che mi piacerebbe che il lettore ogni tanto potesse sapere cosa sta accadendo nelle vite delle donne e degli uomi che racconto, e che insomma se lei mi dice qualcosa di più sulle novità in corso la pubblico, che così magari anche altre/i lo fanno.
Un paio d’ore dopo Agnese mi riscrive, con il suo solito approccio a volo radente, understatement lo chiamano gli inglesi, che adesso che ci penso quando qualche tempo fa avevo condiviso sulla sua bacheca la sua storia e le avevo scritto del progetto degli aggiornamenti, lei aveva risposto «Vincenzo, è una bellissima idea, ma non so se la mia vita è così avvincente!» e allora il suo amico Marco aveva scritto «La tua vita è decisamente avvincente! Non sottostimarti così!» mentre invece Rosella «Certo che lo è, Agnese!! Altrimenti perchė perderemmo tempo con te?». Ecco, lo sapevo, mi sono perso, insomma ecco le ultime novità di Agnese alla voce lavoro:
«Ciao Vincenzo, eccomi! Da quando hai scritto il pezzo su di me ci sono solo due notizie salienti: ho intrapreso (da dicembre 2014 a novembre 2015) e concluso un master in “Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza” presso l’Università di Ferrara, master che ho portato avanti mentre ancora lavoravo in laboratorio. E dal prossimo mese faccio il salto decisivo: appendo la pipetta al chiodo e subentro in Fondazione Umberto Veronesi (per la quale in realtà ho già iniziato a lavorare, part time, da qualche mese, dedicando il resto del tempo a finire il mio lavoro in lab)  nella supervisione scientifica per una sostituzione maternità. Nel concreto insomma mi dedicherò a fare divulgazione scientifica, e non potrei essere più contenta!»
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