Gioiosa Marea. Martedì 2 Agosto 2016. Casa Lamonica. Non so cosa pensate voi se una persona di 64 anni che ha fatto tante cose nella vita vi porta per la prima volta nella casa dove è nato e cresciuto, la casa dei genitori e dei nonni materni, la casa dove adesso abitano i suoi figli Rosanna e Salvatore, la casa che da sempre è la «sua» casa, indipendentemente da dove lo hanno portato le cose della vita, e quando ci arrivate la trovate con un bellissimo patio ancora senza pavimenti, con le mura antiche perfettamente conservate ma non ancora rifinite e tinteggiate. Io penso «ecco la casa di una persona perbene, un uomo che nella sua vita ha sempre lavorato, un uomo che non ha mai utilizzato il suo ruolo, le sue conoscenze, ma sì, diciamola pure la parola, il suo potere, per fini personali».
Classe 1952, geometra, una laurea mancata in medicina, Teodoro Lamonica la fatica l’ha conosciuta molto presto. Sono anni in cui a Gioiosa Marea tutti o quasi hanno un pezzo di terra e qualche animale – maiale, mucche, pecore -, il turismo non è ancora arrivato e l’economia del luogo si basa quasi esclusivamente su agricoltura e pesca.
Papà Salvatore è spesso in giro con il mulo, prima a mietere il grano, poi come rimondatore di mandorli a Grotte, in provincia di Agrigento, di limoni e aranci a Biancavilla, nella provincia catanese, di ulivi in varie parti della Sicilia, Gioiosa compresa, e Teodoro e la mamma, Antonia, si occupano del lavoro con gli animali e nei campi.
«C’era tanto da fare, bisognava pensare alle mucche, alle capre, all’uva, al vino, all’olio, avevamo tante piante di ulivo e mio padre da Settembre fino a Dicembre, talvolta anche Gennaio, stava di più a casa proprio per la storia dell’olio. Poi naturalmente c’era la scuola, sia dal versante dello studio che – più grandicello – da quello delle lotte. Mi sono diplomato nel 1971 e come tanti che in quegli anni avevo il sangue caldo. Se siamo riusciti a lasciare la vecchia sede del tutto inadeguata e fatiscente e a trasferirci nel nuovo istituto tecnico – il Ferdinando Borghesi di Patti – è stato anche grazie alle nostre lotte.»
Un anno dopo il diploma Teodoro si sposa con Maria Catena anche se ancora non ha un lavoro degno di questo nome. Come tanti della sua terra parte, si trasferisce in Inghilterra, a Nord di Londra, dove ha come punto di appoggio una zia, la sorella del padre.
«In Inghilterra nasce mia figlia Rosanna. Ci resto un anno lavorando come operaio prima in una fabbrica di carta catramata, quella che viene posata sui tetti, poi in una fabbrica che fa cappotti e infine in una fabbrica di Stato che fa bombe per aerei. Io e mio cugino avevamo lasciato il lavoro precedente perché il livello di sfruttamento era davvero insopportabile, ci presentiamo al collocamento e ci offrono questo posto. Siamo stati i primi italiani a lavorare lì, eravamo gli unici, tutti gli altri erano inglesi.
Devo dire che la fabbrica era molto bella, pulitissima, da noi si costruiva l’involucro della bomba che poi veniva portata in Scozia per essere caricata, noi non la vedevamo proprio questa parte del ciclo produttivo. Io avevo il ruolo di ispettore, ero una specie di addetto alla verifica qualità, ma ho dovuto lasciare per tornare in Italia perché non avevo fatto il militare e il rinvio per motivi di studio non aveva più ragione di essere dato che avevo lasciato l’università. Se non rientravo mi avrebbero considerato un disertore, con tutte le conseguenze del caso.»
Come dite? Con la testa che aveva come se l’è cavata Teodoro con la vita militare? Impossibile saperlo, perché a ritornare ritorna ma il militare non lo fa, essendo sposato e con una figlia a carico fa la domanda e viene esentato.
I colori del futuro in Sicilia continuano a essere non proprio luminosi e così Teodoro parte ancora, questa volta destinazione Torino, assunto da una ditta che si occupa di disinfestazione. Come zona di competenza gli viene assegnata Milano anche se non mancano gli spostamenti in altre città del Nord.
«Topi, blatte, insetti, in quegli anni ho fatto il mio lavoro di disinfestatore in aziende come Motta, Alemagna, la Rai di Venezia e di Milano, la Ferrero di Alba, e poi mulini e aziende di ogni tipo e grandezza. Vincenzo avevo 22 anni, mi hanno dato una macchina e mi hanno detto vai a fare il tuo lavoro. E io sono andato e l’ho fatto.
Passano un paio di anni e mia moglie, figlia di impiegato postale e lei stessa lavoratrice stagionale nelle poste, viene a sapere che c’è un concorso per sostituto portalettere e fa la domanda per me senza neanche avvisarmi. Siamo nel 1976, l’anno del PCI di Berlinguer a un passo dal governo. Mi chiamano e mi dicono che devo prendere servizio il 16 agosto. Ricordo che ero in ferie qui a Gioiosa e che io questa cosa proprio non la volevo fare, non ci volevo andare a lavorare alle Poste, io con la mia ditta guadagnavo bene, pensa che il capo mi voleva aprire un ufficio qui a Gioiosa Marea e darmi la concessone per la Sicilia e la Calabria. Vincenzo, gli facevo il triplo del lavoro normale, pensa che mi chiamava per dirmi di riposare perché lavoravo troppo.
Comunque alla fine cedo, mia mamma, mio padre, tutta la famiglia insiste sull’importanza del posto di Stato, in quegli anni c’era questa concezione, il miraggio del posto sicuro vince, tanto con la mia famiglia già stavo a Milano, abitavamo in viale Monza, nel periodo milanese nasce anche mio figlio Salvatore, anche se mia moglie decide di tornare a Patti per partorire. Nel 1976 divento dunque un dipendente delle poste, la sede di lavoro è Lissone, alle porte di Milano.»
Sorrido. Sono di fatto coetaneo di Teodoro – 64 anni lui, 61 io – e questa storia del posto fisso l’ho vissuta in presa diretta. Era il 1962, avevo 7 anni, e con la nazionalizzazione mio padre diventa dipendente dell’Enel. La paga all’inizio è meno buona di quella dell’azienda precedente, la SME (Società Meridionale Elettrica) ma papà adesso ha il posto statale e come diceva mia madre, «il 27 va e viene», nel senso che la paga è sicura, stesso giorno ogni mese. Fu una serata indimenticabile, con papà che continua a lanciare in aria i soldi della liquidazione e balla con mamma, mentre io e mio fratello Antonio – 5 anni – siamo felici e ci abbracciamo anche se non capiamo bene perché. Ma torniamo a Teodoro, che questa è la storia sua, non la mia.
«Appeno metto piede alle poste mi iscrivo alla Cgil, costruisco la Cgil sul posto di lavoro e comincio a frequentare il sindacato in via di corso Vittoria e di Sesto San Giovanni. Sono gli anni in cui conosco futuri dirigenti nazionali come Carlo Ghezzi e Antonio Pizzinato. Resto a Milano ancora dieci anni, nel 1986 il trasferimento alle Poste di Patti. Io già a Milano ero stato eletto prima segretario provinciale e poi regionale del sindacato delle poste e telecomunicazioni della Cgil, e quando torno in Sicilia vengo eletto nella segreteria Cgil del Comprensorio di Patti – al tempo aveva più iscritti della città capoluogo, Messina – dove divento responsabile di organizzazione. Da lì in poi la mia vita lavorativa è tutta nel sindacato, per ultimo nella segreteria provinciale della Cgil di Messina e poi segretario generale della Cgil Funzione Pubblica della Sicilia.»
Ora se voi ne avete conosciute persone come Teodoro – mi auguro di si – lo sapete già che quelli come lui non si fermano mai, perché ha ragione Eraclito, «il carattere è il destino», e il destino di Teodoro è pensare, organizzare, fare, sognare.
Come Presidente dell’Anpi di Messina nel corso di questo ultimo anno – complice il protocollo d’intesa stipulato nel 2014 dall’Anpi Nazionale con il MIUR – ha organizzato iniziative nelle scuole per raccontare la Resistenza, la Liberazione, la Costituzione ai ragazzi. Non so voi, ma io a vedere bambini e ragazzi dell’Istituto Cannizzaro Galatti di Messina diretto da Egle Cacciola leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza e cantare Bella Ciao mi è venuta la pelle d’oca, ed è solo un esempio, che lo stesso potrei dire delle esperienze fatte con i ragazzi delle scuole di Gioiosa Marea e di Sant’Agata di Militello.
E poi c’è l’Associazione Gioiosa Gustosa di cui Teodoro è fondatore e presidente.
«Vincenzo, l’idea nasce nel periodo in cui sono stato Vice Sindaco di Gioiosa, nel 2012. Alla base c’è sempre la voglia di fare qualcosa per sostenere la crescita e la qualità del lavoro a livello locale. Tenere assieme agricoltura e turismo, qualità e genuinità, cibo, comunità e sviluppo; costruire a partire da qui un percorso culturale che coinvolga le persone, i cittadini, li faccia sentire protagonisti del processo di valorizzazione e di cambiamento della propria città. Per questo ho fondato l’associazione e ho messo su la manifestazione che è giunta quest’anno alla quinta edizione. Per questo mi sono battuto affinché Gioiosa entrasse a far parte del Parco dei Nebrodi. Per questo ritengo necessario avere una visione inclusiva dello sviluppo, capace di tenere assieme tante località, identità, opportunità, specificità, comprese le cittadine sul lato Messina fino a Patti, Oliveri, Tindari, i laghetti di Marinello.»
Non so a voi, ma io a Teodoro neanche l’ho fatto finire che gli ho chiesto qual è il prossimo passo.
«Il prossimo passo è Gioiosa Città Intelligente, come ti ricorderai ne abbiamo accennato durante Gioiosa Gustosa. La mia è un’idea di città capace di fare un ulteriore salto culturale e di porsi in maniera consapevole come parte di una rete – il sistema Nebrodi di cui ti dicevo prima – che parte dalla valorizzazione delle risorse che ha – non solo quelle economiche, anche quelle sociali, organizzative, culturali – e le mette a valore, le moltiplica, le colloca in un sistema più ampio di relazioni e di sviluppo basato sulla qualità dell’offerta paesaggistica, culturale, sociale, turistica, alberghiera, artigiana. Come è evidente è un processo che non può stare nelle mani di uno solo, che ha bisogno di tante idee, energie, competenze. Ti faccio un esempio per tutti: la possibilità di cogliere le opportunità connesse all’Internet dell’energia e all’Internet delle cose, e dunque alla organizzazione smart delle nostre città, tema che ho presente come bisogno ma che non sarei in grado di sviluppare senza il concorso di cervelli, competenze, saperi e saper fare che io non possiedo. Ecco, diciamo che questo è un po’ il mio sogno, la mia visione, la cosa che vorrei riuscire ancora a fare per la mia città. Non è facile, ma nelle nostre vite mai niente è stato facile, eppure un po’ di cose le abbiamo fatto, e qualche risultato a casa lo abbiamo portato, tu che dici?».
Dico certo che si, anche se sul rapporto tra i risultati che riesci a portarti a casa e la fatica che fai si potrebbe scrive un’enciclopedia. Prima di lasciarci Teodoro mi dice delle cipolle che ha piantato quest’anno e delle piante che ha da innaffiare, nel frattempo scende Rosanna e porta biscotti e caffè, che quelli già sono buoni di loro, ma con il panorama che c’è qui diventano una delizia.
Da casa Lamonica per ora è tutto. I sogni, lo sappiamo, son desideri, però certe volte se incontrano le persone giuste diventano realtà, perciò restate sintonizzati.