Cara Irene, come sai sono un uomo fortunato, mamma Fiorentina ripeteva spesso che sono nato con la camicia. A me è piaciuto fin da piccolo pensarmi così, mi ci sono trovato bene, i sociologi la chiamano “autoprofezia che si avvera”. La verità l’ho scoperta che avevo passato i 60 anni grazie a mia sorella Nunzia: sono nato prematuro, settimino, in pratica la famosa camicia di cui parlava mammà era la placenta. Ebbene sì, a me non l’aveva mai detto, alla figlia femmina sì, cosa ci vuoi fare, era una meravigliosa donna con i pudori dei tempi suoi.
Tornando alla fortuna, qualche giorno fa mi sono venuti a trovare a Cip Antonio Tubelli e Bruno De Conciliis. Con Antonio siamo amici da una vita e anche di più; erano un po’ di anni che non ci vedevamo, ma con lui il tempo non conta, ogni volta è come se ci fossimo lasciati il giorno prima. Bruno invece lo conosco da circa un anno grazie a un suo libro, Nelle terre di Bacco. Anche con lui ci siamo acchiappati subito, e non ti dico come sono stato contento quando ha detto che i miei modi gli ricordavano un suo carissimo amico, Antonio Tubelli. Diciamo che da lì la scintilla si è trasformata in un fuoco che non si è spento più.
Vengo al punto: erano arrivati da poco, avevamo appena preso il caffè, quando ho proposto di fare due chiacchiere intorno al lavoro e di registrarle. “Che dite?”, ho aggiunto, “magari ci tiro fuori una storia”.
Lo so, ci vuole la faccia tosta per approfittare in questo modo della visita di due amici, ma alla fine sono un vecchio scugnizzo di Secondigliano e non mi sono lasciato scappare l’occasione, del resto potevano anche dirmi di no.
Come dici? No, non mi hanno detto di no, per la verità non mi hanno detto niente, mi hanno assecondato e basta come fanno, in queste occasioni, gli amici veri. Era una cosa che mi faceva piacere e si sono prestati, te l’ho detto che sono fortunato, non è che lo devo ripetere ogni volta.
Questo che segue è il resoconto pressocché integrale delle nostre chiacchiere, che a modo suo è anche un piccolo esperimento di narrazione. A proposito di esperimenti e di narrazione, prima di pranzo è arrivato anche Giuseppe, che a tavola si è inventato un’altra storia piena di senso e possibilità, però questa quando sarà te la racconta lui, io già sto impicciato con le parole mie.
Vincenzo: Allora, comincerei dal vino e dal piatto che amate o avete amato di più. Niente ricette o valutazioni tecniche, quello che cerco è il perché, la storia, il senso, del vino e del piatto che scegliete di raccontare. Bruno comincia tu.
Bruno: Per il vino è una cosa complicata, perché non esiste un solo modo di approcciarsi al vino, ma più modi. Dato che ne devo sceglier euno dico il Montepulciano d’Abruzzo di Valentini, un gran produttore che adesso non c’è più, il vino c’è ancora ma forse è diverso. Sto parlando del 1980, e anche allora questo vino era abbastanza raro e costoso. Ricordo che mi fu regalato da un amico e mi colpì perché si capiva che non c’era nessuna volontà di ottenere il risultato perfetto, aveva come un valore di apertura, un valore di moltiplicazione, un valore mentale, insomma era un vino in cui quello che contava di più era l’espressione. Ecco, da quella volta, quando penso a fare un vino, o quando penso a un vino che mi piace, quando assaggio o condivido una bottiglia di vino, privilegio l’aspetto espressivo. Cosa vuol dire? Vuol dire fare una esperienza, condividere una mia esperienza, una mia visione, mentre invece nella fase precedente il mio approccio era quello di chi vuole fare il vino più buono del mondo.
Per certi versi questa ricerca della perfezione ci accompagna, o almeno ha accompagnato me, fin dall’adolescenza; forse in questo bisogno di essere puliti, perfetti, ineccepibili, in questa ricerca dell’assoluto, della Madonna, c’entra anche la cultura cattolica. Il dramma, se posso dire così, è che nel vino tutto questo tende a coincidere con la perfezione formale; nel vino la forma e la sostanza coincidono, purtroppo, nel senso che il modo di esprimersi di un vino è la sua forma, non soltanto nel colore, ma anche nella definizione dei profumi piuttosto che nell’equilibrio e nell’armonia tra le diverse componenti.
In pratica la mia ricerca iniziale sul vino era quella di trovare questo perfetto equilibrio, o armonia, degli elementi. Ecco, l’esperienza con il Montepulciano d’Abruzzo di Valentini mi ha fatto capire che tutto questo non aveva nessun significato se non riuscivo a coinvolgere prima di tutto me stesso e poi le persone che avevo intorno, in una dimensione espressiva dell’uva e mia, che era ciòche veramente contava. Da quel momento in poi il vino è diventato una storia da raccontare, non più il fine ma lo strumento per raccontare la storia, quello che ci stava dietro, anche l’annata, anche il vitigno, anche il mio stato d’animo, in pratica un racconto che tenesse insieme tutte queste cose e le rappresentasse in maniera compiuta.
Sì, direi che la compiutezza è necessaria, la coerenza del vino è indispensabile affinché questa cosa accada, perché altrimenti si crea una disarmonia che poi non riesci a colmare. Mi riferisco a una disarmonia sostanziale, non formale.
In qualche modo quella esperienza molto personale, molto mia, con quel vino, che forse non ho mai più bevuto così, sicuramente non quell’annata, mi ha dato la scintilla, l’imput, l’impulso per riuscire a trasformare, a superare quella che per me è una dualità legata alla necessità di una perfezione formale che produce una staticità dello strumento vino. Detto in altri termini, la forma che coincide con la sostanza diventa in qualche modo invalidante in termini proprio di narrazione e di significato. Tutto questo naturalmente senza mai perdere di vista l’aspetto più semplice e umano del vino, cioè il fatto che lo bevi, lo apprezzi, lo metabolizzi, lo espelli e finisce là.
Per quanto riguarda invece il piatto che ti devo dire, in qualche modo è collegato all’amore, a qualcosa che com – muove, che crea legame. Magari sembrerà stupido ma il mio piatto del cuore, quello che faccio ogni volta che ho bisogno di consolazione, è il brodino vegetale, il semplice brodino vegetale che mi faceva mia madre quando stavo un po’ male. Era un brodino vegetale facile facile, leggero leggero, con sedano, cipolle, carote, a volte la pastina e a volte no. Ecco, è questo il piatto che veramente mi scalda il cuore ogni volta che lo mangio. Se amore significa questo, se è qualcosa che dura nel tempo, se è un legame forte prima di tutto relazionale, il piatto che amo di più è il brodino vegetale.
Vincenzo: Antonio tocca a te.
Antonio: Allora, vediamo. Il rapporto con il vino ha due momenti importanti nella mia vita. Il primo è quello in cui riafforano i ricordi infantili, o per meglio dire di ragazzo, quando mio padre portava a casa il Terzigno. Era un vino molto in uso nella mia famiglia, mi ricordo ancora il suo carattere fresco, perché all’epoca il frigorifero non l’avevamo, tenevamo ‘a muschèra, la copertura che proteggeva dalle mosche, fuori dalla finestra, e perciò questo vino viveva delle temperature di allora e aveva questo tono fresco, frizzantino. Per certi versi questa particolare attenzione verso i vini di questo tipo, non solo il Terzigno, anche il Gragnano e il Lettere, questo mio primo approccio diciamo così benevolo, romantico, familiare con il vino, caratterizza ancora oggi il mio rapporto con il vino. Non a caso, le poche volte che vado a mangiare la pizza cerco sempre di accompagnarla o con il Gragnano o con il Lettere. Più avanti, quando per i casi della vita e per le scelte che ho fatto ho intrapreso la strada che mi ha avvicinato al mondo della gastronomia in modo meno emotivo e più analitico, è stato proprio il mio modo di leggere il cibo che mi ha portato anche a una nuova lettura del vino.
Devo dire a questo proposito che la persona che mi ha aperto la mente e mi ha fatto abbandonare le suggestioni infantili è stato Tonino Troise, Antonio Troise, il grande Antonio della vigna Vadiaperti situata a Montefredane. Mi fa piacere riconoscerlo, perché è la verità. A ricordarlo me vene ‘o friddo ‘ncuollo, mi vengono i brividi, perché Antonio è stato un grandissimo vignaiolo, lo chiamavano il professore del Fiano. Ecco, lui intuì che una vendemmia tardiva sui bianchi determinava un’altissima qualità del vino. È grazie a lui che il mio amore per il vino ha assunto nuovi connotati e mi sono avviato sulla strada che mi ha portato in seguito a conoscere la struttura del vino di Bruno, che incontro tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Sono gli anni in cui io e mio fratello Lucio scopriamo, proprio grazie a lui, la possibilità di avere un vino con le caratteristiche che ha appena indicato. Sì, direi che l’approccio verso una certa tipologia di vino lo dobbiamo a Brunio, perché alla fine è lui che in un periodo in cui predominavano i vini di un’altra parte del territorio campano, vini consolidati come l’aglianico, il fiano, il greco, ci fa conoscere i vini cilentani che sono allo stesso livello, e qualche volta anche migliori, di quelli irpini. Da questo punto di vista direi che per noi è stata una sorta di scuola, tra virgolette, che è nata spontanea, che è legata a questa mia passione per il cibo e che ha portato sia me che mio fratello ad avere queste conoscenze, ad assorbire tutta la cultura che stava dietro alla produzione del vino.
Per me questo è un fatto molto, molto importante. Conoscere il processo non solo in vigna ma anche nella produzione del vino è stato un elemento fondamentale. Da questo punto di vista mi sento di dire che non c’è un vino che per me è il migliore in assoluto, il mio vino diciamo così; c’è quello che in un determinato momento su un determinato piatto è il migliore. Può essere un bianco o un rosso, può essere un vino di Bruno o di un altro vitocultore, dipende. Rimane il ricordo da ragazzo del Terzigno, ma come ho detto è una cosa sentimentale, e poi Terzigno è una zona, non uno specifico vino.
Anche per quanto riguarda il piatto non penso di averne uno che in assoluto mi piace più di tutti e mi rappresenta. Adesso che ci sto pensando direi che affiorano tante cose, se mi metto la mano sul cuore dico qualche piatto che mi ha portato ad amare l’uovo. Mia madre faceva l’uovo nella salsa, e a me piaceva molto inzupparci il pane. Solo dopo ho capito che questo uovo nella salsa lo facevamo nei momenti difficili, nei periodi indigenti, della nostra vita familiare, e questo me l’ha fatto apprezzare ancora di più.
Vincenzo: Ieri con Cinzia siamo passati a salutare Nonna Teresa, la nonna materna di Giuseppe e l’abbiamo trovata che asciugava i peperoncini con i quali, insieme all’aglio, all’aceto e al sale, di lì a poco avrebbe marinato la zucca. Siamo rimasti affascinati, mio padre avrebbe detto incantati, dalla dedizione con cui questa donna di 77 anni preparava il tutto e così glielo ho detto: “Nonna Teresa siete troppo bella, il modo in cui fate le cose è fantastico, anche per questo poi la vostra zucca è così saporita”. A quel punto lei ha alzato la testa, ci ha guardato con i suoi occhi belli, ci ha sorriso e ci ha detto “si ‘n’a cosa s’adda fa, s’adda fa bbona, sinò ca faje a fa”, se una cosa si deve fare si deve fare bene, altrimenti che la fai a fare.
In pratica, Nonna Teresa ha riassunto con una sola frase l’essenza del lavoro ben fatto che, con un omaggio alla vostra maestria e alla mia contentezza per il fatto che siete venuti a trovarmi, direi che un po’ il mio vino e il mio piatto. Ora, anche qui, da voi due non mi aspetto l’episodio che racconta che quello che fate lo fate bene perché sarebbe abbastanza scontato, direi anche banale. Non siamo perfetti, facciamo errori come tutti, ma insomma tra noi non è che ci dobbiamo dire le cose buone e belle che abbiamo fatto; quello che vi chiedo è piuttosto di raccontare ancora una volta perché vi alzate la mattina è fate bene quello che dovete fare, qual è la ragione, come è cominciata questa storia, perché avete scelto la via della bontà e della bellezza invece della via del denaro. Proprio così, perché?
Antonio: questa non è una domanda, è una domandona.
Vincenzo: Antò nun pazzià, la domanda è bella, e voglio risposte ispirate, motivate. Forza, cominciamo un’altra volta da te, Bruno.
Bruno: Innanzitutto direi perché non c’è nessun altro modo di fare le cose. Anche volendo, anche per soldi, che alla fine bisogna lavorare anche per vivere e i soldi servono, non ce la faccio a fare male una cosa, non mi viene. Insomma non lo conosco un altro modo di lavorare, comunque non saprei farlo, per me non esiste un altro modo, punto. Detto questo, aggiungo che comunque dietro al lavoro fatto bene c’è una volontà, un’intenzione, anche solo per alzarti la mattina, perché comunque costa fatica. Non lo so voi, ma io la mattina me ne starei tanto bello nel letto, starei benissimo con un bel libro, un po’ di musica come sottofondo e da un certo punto di vista la mia giornata potrebbe pure finire là. Da dove nasce dunque l’intenzione, la scintilla? Quello che mi spinge, alla fine, è il fatto che mi diverto. Per quanto mi riguarda la dimensione del gioco è fondamentale. Il motivo per il quale sto bene, sono ancora vivo e continuo a fare le cose è perché comunque mi diverto. Io, quando ho scoperto di essere un bambino, quando ho cominciato a coltivare questa mia “bambinitudine”, che lo so che ha un nome diverso, ma questo mi piace di più, ho cominciato a stare bene.
Vincenzo: Per me bambinitudine è meraviglioso.
Bruno: Ecco, voglio precisare che non mi crogiolo, a volte avrei anche, come retaggio della mia educazione catto-comunista, dei sensi di colpa, ma mi diverto, mi devo e mi voglio divertire, ho bisogno del gioco, ho bisogno di montare e smontare il giocattolo, questo grande giocattolo che è la vita con tutte le sue relazioni e implicazioni, con le persone, con le macchine, con gli oggetti. Sì, li devo smontare, devo capire come funzionano, perché godo, perché ci sto bene, perché sorrido.
Nel caso delle cose che faccio, tutte, devo dire, non riuscirei a fare una cosa ben fatta se non mi desse gioia. Sappiamo che la felicità assoluta non esiste, esiste però quell’impulso che per un attimo ti fa sentire leggero, in pace con te stesso. Funziona per un decimo di secondo, però quel decimo di secondo è così tanto importante che veramente dà significato e senso alle cose che pensi e che fai. È un gioco bellissimo, nient’altro che un gioco bellissimo.
Vincenzo: Bruno, provo a sfrucoliarti un altro poco. C’è un momento iniziale a cui puoi collegare questo tuo approccio? Che ne so, un genitore, un nonno. O ritieni che questa caratteristica appartenga al tuo daimon, al tuo codice dell’anima, alla tua streppegna, come avrebbe detto mio padre. A proposito di mio padre, come ho raccontato tante volte, anche nel libro, è lui che ha attivato la miccia del lavoro ben fatto con la sua distinzione tra il lavoro preso di faccia, quello fatto con impegno e passione, rigore e dedizionem e il lavoro fatto a meglio a meglio, quello che invece no. E ancora lui mi ripeteva un giorno sì e un altro pure che quando una cosa la fai bene la sera, quando metti la testa sopra al cuscino, sei contento. Ecco, nella tua esperienza, nella tua formazione se preferisci, c’è qualcosa del genere?
Bruno: La mia ispirazione viene dal fare, sulle altre cose c’è più una narrazione che riguarda l’etica, il lavoro, l’onestà e altre cose di questo tipo, sul fare no, o comunque di meno. Per quanto riguarda l’onestà, per esempio, direi che sono cresciuto con questo obbligo dell’onestà, che diventa qualcosa che ti si attacca addosso, che tu non riesci neanche a pensare di pter fare diversamente. Uno dei motivi per cui la parte commerciale non l’ho mai fatta bene è perché non so dire le bugie, non solo perché mi dimentico le cose e se dicessi bugie mi farei male da solo, ma anche, soprattutto, perché non ci riesco, non ce la faccio, perché questa cosa dell’onesta veramente mi ha trapanato, tum, tum, tum, la testa. Per quanto riguarda il fare invece, ho avuto una grandissima fortuna, quella di essere una specie di ponte tra due realtà, e mi spiego.
Mio nonno paterno era contadino, per meglio dire mugnaio, e frantoiano, a Prignano, e quindi una realtà legata alla terra, alle piante, come mio padre del resto; invece il mio nonno materno era a San Giovanni a Teduccio e lavorava nella fabbrica di bulloni che poi è diventata il silurificio. Si chiamava Mario Tarallo ma tutti quanto lo hanno sempre chiamato Tattà, perche Tarallo due volte, già da bambino, Tattà. Mio nonno Tattà, lui rimane Tattà, era una figura di operaio privilegiato. Era nato alla fine del diciannovesimo secolo ed era stato uno dei ragazzi che era stato mandato a fare la guerra a 16 – 17 anni, subito prima di Caporetto, anche lui come tanto anche se non arrivava a un metro e mezzo di altezza. Nonno Tattà aveva un’energia incredibile e dopo la guerra era diventato un operaio che faceva le cose con le mani, che inventava i pezzi. Questo suo ingegno, questa sua capacità di usare bene le mani lo aveva fatto diventare responsabile del reparto manutanzione, in sostanza lui riparava le macchine che facevano le cose. Insieme alla straordinaria manualità aveva una visione fattiva delle cose, che a me invece manca spesso, diciamo pure che questa cosa qui io non ce l’ho.
Quando era già in pensione e aveva superato una serie di vicissitudini che qui è inutile raccontare perché ci porterebbero troppo lontano, Nonno Tattà aveva trasformato uno scantinato del palazzo dove viveva a San Giovanni a Teduccio in una piccola officina; in quel posto le sue mani creavano degli oggetti stupendi, e tutte le volte che andavo in vacanza da lui e da nonna (facevo al contrario, da Prignano andavo in vacanza a San Giovanni a Teduccio, lì ho avuto molte belle frequentazioni, è così che sono diventato comunista un po’ di anni dopo) mio nonno mi portava giù con lui. Me ne stavo lì, con la lima e con gli altri attrezzi, e costruivamo oggetti in ferro e in legno, e quelle erano cose fatte veramente bene. Poiché quelle cose le facevamo per noi, per qualcuno della famiglia, per un amico, il lavoro era fatto solo se era fatto bene, se durava nel tempo e così via, altrimenti non era, perché non era un oggetto che dovevi fare per venderlo, per interesse, era una cosa che restava lì, che facevi per te. In seguito anche quando nonno veniva a trovarci con la nonna giù a Prignano, in campagna, succedeva la stessa cosa, perché il mio papà aveva fatto l’officina per nonno Tattà, e lì lui faceva le cose e io ero il guaglione suo, il suo garzone. L’ho detto come funziona, se fai le cose per te le fai come devono essere fatte, ma poi a un certo punto questo approccio diventa parte di te non te ne liberi più, ed eccoci qua.
Vincenzo: Sì, funziona proprio così, al lavoro ben fatto ci si abitua. Una volta mastro Antonio Zambrano, maestro ebanista ultranovantenne, ci raccontò, è documentato in un documentario che si può vedere su Youtube, La tela e il ciliegio, ci disse che anche gli attrezzi di lavoro se li costruiva da sé, “perché così vengono più precisi”. Che meraviglia. Forza Antonio, tocca di nuovo a te.
Antonio: La prima cosa che mi viene da dire è che ascoltando il racconto di Bruno mi sono reso conto che ci sono delle similitudini esagerate nelle nostre storie.
Bruno: Sarà per questo che siamo amici da più di 30 anni.
Antonio: Certo, non è un caso. Vedete, mio padre negli anni precedenti la seconda guerra mondiale faceva il meccanico, e lo stesso subito dopo. Lo chiamavano don Espedito ‘o lancista, perché lui, provenendo da una formazione meccanica alla Lancia, si era specializzato nella riparazione di queste autovetture e questo fatto lo aveva portato di fatto nell’èlite, diciamo così, della meccanica. Erano automobili in qualche modo sofisticate appannaggio della borgesia ricca di quell’epoca. E anche mio padre, dato che nel periodo immediatamente successivo alla guerra non si trovavano pezzi di ricambio, li costruiva con le sue mani. Ancora a proposito delle connessioni tra la storia di Bruno e la mia: il lavoro di mio padre doveva essere per forza ben fatto, perché altrimenti l’automobile non camminava. Quello che voglio dire è che questa etica del lavoro che deve essere fatto bene perché così è che deve essere fatto a un certo punto me la sono ritrovata nella mia vita gastronomica e confesso che a volte mi sono detto pure “ma perché mio padre mi ha fatto così complicato, ma non mi poteva educare in un altro modo?”.
Sembra una battuta, ma la verità è che quando ho cominciato a preparare i miei piatti mi sono posto il problema di rendere migliore, naturalmente dal mio punto di vista, il cibo, cercando di togliere tutti i fronzoli inutili che si portava appresso, dalla preparazione al consumo. In pratica questa voglia di rappresentare al meglio un piatto, un prodotto gastronomico, ha avuto come riferimento l’attività di mio padre. Mio padre mi ha creato un sacco di problemi, se posso dire così. Perché io che non conosco altro modo di fare le cose se non fatte come si deve a volte mi domando, quando vado in giro, anche nella mia città, e trovo dei menù con primo, secondo, frutta, acqua e vino che vengono offerti a 10 – 12 euro: ma dove la fanno la spesa? Dove li comprano i loro prodotti? Quanto le pagano le persone che lavorano per loro? Per quanto mi riguarda confesso che non saprei dove andare, a volte mi ci arrabbio pure, perché non ci riesco, perché il mio modo di essere, la mia struttura mentale, non me lo permette, neanche quando mi verrebbe da dire “ma perché?”. Sono fatto di ferro, ammetto che a volte non ce la faccio, mi mando persino a quel paese da solo, ma questo è.
Vincenzo: Mio padre mi ricordava sempre che chi nasce tondo non può morire quadrato, lui il daimon non lo conosceva ma la streppegna sì.
Antonio: Esatto, chi nasce tondo non può morire quadrato, e infatti questa cosa del lavoro fatto bene è talmente strutturata in me che non riesco a fare diversamente. Però me lo continuo a chiedere dove la vanno a comprare la roba questi che offrono un pranzo a 12 euro. Io credo che l’uomo per sua natura protenda verso il buono, e il bello, dunque queste persone, per fare questi menù, si devono impegnare, ci devono pensare su. In pratica quando vanno a fare la spesa quando vedono una cosa buona si devono dire “no, questa cosa è buona, non la prendo, prendo quest’altra che fa schifo”. Ripeto, uno naturalmente non può essere portato a comprare lo schifo, siamo portati a scegliere il buono, lo siamo istintivamente, come esseri viventi. Ho finito, basta.
Vincenzo: Aspetta, non andare di fretta. Io vorrei che tu raccontassi la storia dello stinco cotto a vapore che hai raccontato a me qualche anno fa, ci aiuta a vedere un altro aspetto della tua concezione del lavoro ben fatto. Secondo me è un bell’esempio, io racconto spesso la storia della pasta e fagioli e all’inizio parlo ogni volta di te e del tuo ammonimento a mangiare bene, 50 grammi se 100 non te li puoi permettere, purché sia buono. Mi hai fatto il buco in testa su questo aspetto.
Antonio: Allora, comincio dicendo che la questione dello stinco appartiene a un aspetto fondamentale del lavoro, di ogni lavoro, la consapevolezza, a partire dalla consapevolezza nell’uso delle tecnologie che utilizzi per fare un piatto. È indispensabile capire che processo possiamo mettere in atto con una determinata tecnologia per raggiungere un determinato risultato. Possedere la conoscenza di un determinato processo è uno straordinario elemento di forza nel lavoro che dobbiamo fare. Questo concetto come lo proposi ai miei allievi? Proprio attraverso la cottura dello stinco.
Lo stinco ovviamente, da crudo, una volta che lo hai intaccato nella parte superiore del polpaccio, i tendini, perché altrimenti non viene fuori, lo devi cuocere a vapore. O lo fai con le vaporiere oppure, con uno dei sistemi più moderni, con i forni multifunzionali che hanno pure il vapore.
Pur sapendo, ovviamente, che c’era questa strumentazione, che l’avevamo a disposizione, dissi ai ragazzi che non gliela avrei fatta usare e che avrebbero dovuto cucinare lo stinco nella pentola. Loro, abbastanza perplessi, mi chiesero perché, e io risposi perché se un certo giorno che abbiamo il nostro stinco in menù si rompe il forno, o si rompe la vaporiera che facciamo? Lo stinco lo togliamo dal nostro menù? No, non lo possiamo fare, dunque dobbiamo imparare a cucinare lo stinco nella pentola. Così loro capirono che dovevano acquisire questa conoscenza e vedere quello che succede nella pentola.
La verità è che quando tu chiudi il forno con lo stinco dentro non riesci a seguire il processo di cottura; teniamo presente che è solo una prima fase preparatoria dello stinco, perché ha bisogno di una lunga cottura essendo un muscolo, si devono sciogliere i legamenti, il collagene deve venire fuori, e solo dopo lo possiamo trasformare con altre cotture. Quello che voglio dire è che non puoi non sapere cosa sta succedendo in ogni fase del processo, non a caso la pentola non viene coperta con il coperchio ma con una pellicola che viene chiusa per bene intorno e che piano piano viene gonfiata dal vapore come una palla. Dunque la consapevolezza di un processo che la tecnica ha in sé ma che tu puoi non vedere. Direi che il punto è questo: il processo che sei in grado di conoscere, di seguire e dunque di guidare. E tutto questo ti porta, anche quando utilizzi il forno, a farlo in maniera consapevole, più appropriata. Non bisogna abbandonarsi, diciamo così, al risultato di uno strumento, di una tecnologia, devi sapere anche quale risultato quella tecnologia ti deve dare. Non basta la tempistica, serve anche il controllo.
Vincenzo: Direi che con la storia dello stinco Antonio ha risposto anche alla mia terza e ultima domanda, quella relativa alla consapevolezza, insomma questa volta abbiamo cominciato da lui: perché quando prepari un piatto devi essere consapevole, nel senso di perché, come ha detto lui, devi padroneggiare il processo, devi sapere quello che accade nelle varie fasi. È una cosa che vale sempre, come ho scritto un po’ di anni fa “se non sai come chiudere un buco non lo fare”, potresti causare danni seri. Qui soltanto come segnaposto ricordo il bellissimo inizio di “L’uomo artigiano” in cui Richard Sennett ricorda la discussione con Hanna Arendt sulla differenza tra l’uomo laborians e l’uomo faber, tra la dimensione tecnologica e quella politica, tra il fare e il pensare. Oggi parole come algoritmi e Ai ci dicono in maniera inequivocabile quanto sia decisivo questo aspetto della consapevolezza nell’uso delle tecnologie.
Tornando a noi, caro Bruno, direi che adesso tocca a te raccontare in che senso e perché la consapevolezza ha a che fare con il vino e la viticultura, come può fare la differenza. Se mi permetti un ultimo riferimento a mio padre, lui era convinto che faceva il vino perché comprava l’uva, non usava additivi strani, era genuino e dunque era un vino di alto livello, non lo cambiava con nessun altro vino di nessun altra cantina per quanto rinomata potesse essere. Ricordo che una volta che un mio amico gli disse che quello non era vino ma uva spremuta a momenti, lui che era un principe dell’ospitalità, lo buttava fuori casa, e a me tenne il broncio per diverse settimane.
Bruno: Vedi Vincenzo, me la potrei cavare confermando quello che hai detto. Cosa mancava al tuo papà? Mancava la consapevolezza, mancava il controllo e dunque mancava la possibilità e la capacità di modificare alcune cose che nel vino sono fondamentali come l’uva, per esempio. Prendiamo l’uva che comprava: non aveva certezza di dove era stata coltivata, con quale sistema, perché, se era stata irrigata, se era stata trattata con concimi, eccetera. E naturalmente tuo padre non era il solo, succede a tutti quelli che fanno e che facevano il vino in casa. Non dico che il cuoco perfetto alleva il suo pollo, ma deve avere la certezza di come è stato cresciuto, perché a seconda di come è stata allevato avrà una consistenza e un sapore diverso. Vale lo stesso per il vino. Detto in maniera semplice, ribadisco che la mia risposta stava già nella tua domanda, un tecnica applicata va semplicemente da A a B senza definire che cosa è A e che cosa è B. Soltanto la consapevolezza del processo può consentire all’attore, a chi agisce, di definire l’oggetto iniziale e l’oggetto finale. Ancora una volta, il punto è da dove si parte e dove si arriva. In caso contrario, vale per il vino e per tante altre cose, finanche per il pensare, puoi pensare in tanti modi ma per decidere qual è in quel contesto qual è il modo giusto di pensare devi sapere quali sono gli strumenti che devi utilizzare, i ferri del mestiere che devi usare.
Faccio un esempio così mi spiego meglio: Tu hai un’uva rossa; con questa uva rossa puoi fare un vino bianco, un vino rosato, un vino rosso da invecchiamento, un vino rosso giovane, un vino dolce, un vino secco, un vino frizzante, sempre con la stessa uva e con gli stessi chicchi. Se non sai, se non hai gli strumenti analitici e pratici per sapere come arrivare da A a B, e se non definisci B, il risultato finale sarà sempre un punto interrogativo.
In questo lavoro di rialfabetizzazione alla vinificazione che ho provato a fare, con risultati che non mi hanno soddisfatto del tutto perché non sono bravo né come docente e nè come comuncatore, non posseggo tutti gli strumenti, una delle domande più frequenti che mi sono state fatte è: quanto tempo deve fermentare un vino con le bucce; è una domanda che non esiste, nel senso che non esiste un numero, proprio come nel caso dello stinco di prima.
Non è come avere un manuale di cottura dello stinco a vapore che dice prendi un forno di questa marca, con questa temperatura, con questa percentuale di umidità, per tanto tempo e ottieni il risultato. Questa non è una risposta, queste sono delle istruzioni meccaniche che vengono dalla macchina.
La pentola che fa usare Antonio a chi cucina lo stinco serve a capire proprio qual è il risultato finale, e a intervenire sul processo, e sulle macchine, per avere il risultato che desideri. Ma se non hai coscienza, se non hai conoscenza, anche di te stesso, se non hai questa capacità analitica, se non ti interroghi sul risultato che vuoi ottenere, non vai da nessuno parte, né con lo stinco e né con il vino. La tecnica è una sequenza di formule da applicare in cui però l’uomo non deve diventare esecutore ma deve essere creatore. È a questo che serve la consapevolezza. Acquisire la consapevolezza e gli strumenti è l’unico modo per essere creativi, creatori; dovrebbe essere evidente: se non sai dove vuoi andare come fai ad andarci.
Io faccio anche consulenze sul vino, non sempre per lavoro, anche solo per il piacere di farlo, e ripeto ogni volta “io ti dò 3 anni della mia vita, in questi 3 anni provo a trasmetterti tutto quello che so e che so fare, dopo di che sono fatti tuoi, non contare più su di me. Per questi 3 anni mi puoi spremere come un limone ma trascorsi questi 3 anni te la devi cavare da solo, e se tu mi chiami per chiedermi “devo aggiungerci la solforosa oppure no” io ti rispondo che non lo so, che il vino lo stai facendo tu non io, che se non sono stato in grado in 3 anni di insegnarti a fare questo lavoro vuol dire che non sono stato bravo, perché non posso dire che sei un ciuccio tu, non ho neanche voglia di dirtelo, ma questo è.
Vincenzo: Detto che per quanto mi riguarda ritengo che su questo aspetto della consapevolezza si gioca una parte importante della relazione tra l’uomo e la macchina oggi e domani, ma domani domani, non domani tra 1 anno o tanto meno 10, ho ancora una domanda, però più veloce: a te Bruno il tuo prossimo vino e ad Antonio il suo prossimo piatto.
Bruno: Il mio prossimo vino? Non lo so, è appena passato l’ultimo.
Vincenzo: Va bene, allora il tuo ultimo vino.
Bruno: Il mio ultimo vino è una cosa un po’ scivolosa e paradossale, ho fatto un cabernet franc, è la prima volta che dentro la mia cantina lavoro con un’uva non nostra, non cilentana, che naturalmente ho piantato io. Quando ho cominciato a fare questa cosa parlavo a me di me stesso, perché a volte bisogna parlarsi, usando gli strumenti de Il pensiero selvaggio di Levi Strauss. In pratica mi dicevo: io sono un bricoleur che apre il garage la mattina deve costruire un ponte e costrusco un ponte con quello che ho: vecchie biciclette, pezzi di tavole di legno, eccetera. Molti enologi moderni lavorano come l’industria, sono degli ingegneri, non dei bricoleur. Di fatto quello che voglio fare io e quello che vogliono fare loro è lo stesso, passare il ponte. Però gli ingegneri disegnano ogni singolo bullone, ogni singolo pezzo, affinché il ponte sia lucido, perfetto e tutto il resto. Questo, come sappiamo, Levi Strauss lo diceva a proposito del linguaggio e pure io fino ad adesso ho fatto così, nel senso che aprivo la saracinesca, avevo uve di aglianico e fiano e le trasformavo in modo tale da esprimersi al meglio, il principio è sempre quello dell’espressività. Questa volta invece ho scelto due uve non tipiche nostre, che sono il cabernet franc e il grenache, (ghernaccia, guarnaccia, aleatico, cannonau), ed è un’uva rossa pre ellenica. Essendo tutta questa zona di maggiore influenza dei fenici è probabilmente un’uva fenicia, che seconda me è un’uva straordinaria, e quindi ho tentato questa via. Sono arrivate ieri le barbatelle e quindi fra 4 anni farò il mio primo aleatico, guernaccia, grenache.
Vincenzo: Antonio, il tuo prossimo piatto?
Antonio: In questo ultimo periodo ho incrementato il riutilizzo di ciò che rimane dei pranzi e delle cene dei giorni precedenti. Come vedi, anche qui il punto è la capacità di reinventare con quello che hai, potremmo dire che si può fare il bricochef, così stiamo sintonizzati con Bruno. In pratica le cose che hai preparato precedentemente le puoi riutilizzare con la tua inventiva e così crei, forse crei è esagerato, diciamo meglio inventi, la cena. La settimana scorsa ne ho fatta una.
Questo stimolo mi è stato dato a onor del vero da una mia amica giornalista della Rai, Anna Scafuri, con la quale ho lavorato per tantissimi anni. Fu lei a chiedermi per la prima volta se ero disponibile a pensare a delle preparazioni a partire dagli avanzi, per meglio dire di ciò che restava perché avanzi ha una connotazione un po’ negativa, dei pranzi sia della Vigilia di Natale e sia del Natale. A me l’idea piacque molto e preparai questi piatti: pane indorato e fritto con broccoletti e fili di pollo ripassati; paccheri farciti con scarola affogata su salsa di noci; baccalà fritto alla salsa di scalogno al piennolo e olive di Gaeta; crema di panettone con castagne del prete macerate allo Strega.
Vincenzo: Vi amo. ‘Nu sacco. A tutti e due.