Un mondo migliore ci vuole

Caro Diario, qualche giorno fa Luca De Biase, dopo aver letto la postfazione che ho scritto per la nuova edizione de Il lavoro ben fatto, mi ha scritto “Bravo Vincenzo! Belle pagine! Meraviglia: sei sempre coraggioso.” Niente, Luca è una bella capa e una bella persona, così come sono belle teste e belle persone, e organizzazioni, quelle che hanno scelto di partecipare a questa piccola idea, questa improbabile possibilità, che abbiamo chiamato Knots 4 Change. Dato che l’obiettivo è far girare il più possibile questa postfazione, ho pensato di condividerla anche qui. Buona lettura.

Un mondo migliore ci vuole, è necessario, dire che è possibile non basta più. Se la guardiamo dritto negli occhi, la realtà ce lo racconta in mille espliciti modi: guerre, surriscaldamento globale, fame, diritti umani violati e tanto altro ancora.
L’idea che stiamo procedendo a grandi passi verso un punto di non ritorno travalica sempre più i confini della comunità scientifica e diventa senso comune. Un senso comune che però non si fa consapevolezza, agire quotidiano, cambiamento.
Accade così che chi viene bombardato si tiene le bombe, chi non ha da mangiare si tiene la fame, chi è senza diritti si tiene i soprusi e chi è vittima di siccità e inondazioni si tiene le calamità umane, che definirle naturali non si può più.
E chi invece no? In massima parte fa da spettatore, talvolta ha paura, talaltra si indigna, partecipa a qualche iniziativa solidale o a qualche manifestazione, fino a che non si abitua. In fondo, anche se condividiamo tutti lo stesso mondo, nessuno può farci niente, la vita va avanti, lo spettacolo deve continuare.

È brutto dirlo in modo così diretto, ma c’è della lucidità in questa follia. Soprattutto quando la risposta è individuale, ciascuno nella propria casa, davanti al proprio smartphone, al proprio televisore, al proprio computer. Si può definire capacità di adattamento o in altro modo, ma di questo si tratta. E in un mondo che misura il successo con i soldi, l’influenza e il potere di alcune persone, organizzazioni e nazioni sulle altre, finisce per sembrare quasi normale.

Un mondo migliore ci vuole, è necessario, però è difficile da realizzare. E se il tempo che abbiamo davanti si misura davvero in decenni come sostegnono tanti autorevoli scienzati, è difficile ancora di più.
È difficile per le persone, perché richiede contezza, perseveranza, curiosità, adattamento.
È ancora più difficile per le organizzazioni, fatte di persone diverse che in modi e con responsabilità diverse sono impegnate a costruire senso e contesti condivisi nell’ambito dei quali interagire per raggiungere gli obiettivi che si sono date.
È difficile ai confini dell’impossibile per il mondo che abbiamo ereditato e di cui siamo responsabili nei confronti di noi stessi e delle generazioni che verranno. Per fortuna difficile non vuol dire impossibile, come sanno i poeti, i sognatori e tutti quelli che non rinunciano a cercare risposte e a immaginare possibilità, che non sono pochi.

Una sera di più di 30 anni fa, a Casperia, in provincia di Rieti, domandai a una decina di bambine e bambini dai 3 ai 9 anni “quand’è che una cosa è vera”. Una di loro, Valeria, che al tempo aveva 4 anni, rispose: “quando la puoi pensare”. Non “quando la puoi sognare” o “quando la puoi immaginare”, proprio così: “quando la puoi pensare”. Dopo quella sera, questo pensiero l’ho collegato a molti altri, non soltanto miei; l’ho cercato e trovato, in diverse formulazioni, in molte pagine; l’ho usato ogni volta che ne ho avuto l’occasione. Però la prima persona da cui l’ho sentito resta la piccola Valeria, che oggi vive a Marsiglia e, se i miei calcoli sono esatti, ha 37 anni.

Con questo sto dicendo che se possiamo pensare di cambiare il mondo, lo possiamo per ciò stesso fare? No, per quanto mi piacerebbe, non sto dicendo questo. Sto dicendo però che, pensando, teniamo aperta una condizione di possibilità altrimenti chiusa. E che, senza il pensare, il fare non riesce a dare la concretezza e la compiutezza che serve alle nostre vite.
È per questo che non dobbiamo mai smettere di pensare, in maniera consapevole e critica. Di cercare le ragioni e le motivazioni che ci aiutino a far valere anche il nostro punto di vista nell’ambito dello spazio pubblico. Di prendere decisioni e non limitarci a ratificare quelle degli altri.

In Welcome to the Beautiful Girls!, il terzo episodio della serie televisiva anime Welcome to the NHK, Satō a un certo punto dice a Yamazaki che “Se non guardano in faccia la realtà, gli esseri umani non sono in grado di cambiare (1)”. Per ora teniamocele strette le parole di Satō, perché tra poco ci torniamo su. Prima bisogna che ci soffermiamo sulla scarsità che dà valore alle cose, ho pensato di farlo con due esempi e una domanda conseguente.

Il primo esempio si intitola “acqua” e si può riassumere così: quelli che vivono nella parte di mondo dove si fanno tre docce al giorno la sprecano, quelli che vivono nei paesi in cui bisogna fare chilometri per trovare un pozzo invece no, e da adulti, se sopravvivono, vincono la maratona alle Olimpiadi.

Il secondo si intitola “pane” e ci dice che quelli che possono ne comprano di tanti tipi diversi, ne mangiano un poco, il resto lo dimenticano nella dispensa e due giorni dopo finisce nell’umido; quelli che invece no se ne cade un pezzetto per terra lo raccolgono, lo strofinano con un mano come per pulirlo e lo mangiano.

La morale dei due esempi mi pare inequivocabile: chi ha tanta acqua e tanto pane, gli dà poco valore, chi ha poca acqua e poco pane, gliene dà tanto. Ergo, è la scarsità che dà valore alle cose.

La domanda è talmente conseguente che viene da sé: perché non diamo valore al futuro nonostante la sua evidente scarsità? E ancora: perché non riusciamo a cambiare i nostri modi di essere, di pensare e di fare con l’urgenza che è necessaria?
Una risposta semplice ma non banale è la seguente: perché non guardiamo in faccia la realtà, non siamo convinti che il nostro futuro si misuri in decenni. Nei casi migliori perché speriamo che in qualche modo la questione del surriscaldamento globale si risolva, che le guerre prima o poi finiscano, che la fame nel mondo possa essere sconfitta. In quelli peggiori perché tanto non possiamo farci niente, perché se non accade oggi, e non accade a noi, possiamo pensarci domani.

È qui che ritorna Satō: quando non riusciamo a guardare la realtà per quella che è, noi umani è così che ci comportiamo, non siamo capaci di cambiare. E non accade mica solo con il futuro, le guerre e la fame nel mondo, le dinamiche sono più o meno le stesse con la sicurezza sul lavoro, la manutenzione predittiva di strade e fiumi e persino con il lavandino di casa che scorre.

C’è un salto quantico da fare alla voce consapevolezza. Perché il momento giusto per costringerci a guardare in faccia la realtà e cambiare approccio è adesso. Perché la scarsità che dà valore alle cose può essere un’opportunità. Perché se continuiamo a comportarci come virus invece che come mammiferi non ce la facciamo a venire fuori dal tunnel in cui siamo stati e ci siamo cacciati. Perché non è vero che andrà tutto bene, soprattutto se ce ne restiamo a guardare.

C’è un lavoro grande da fare e bisogna che lo facciamo noi umani, perché la tecnologia aiuta ma non saranno l’intelligenza artificiale, la singolarità o i viaggi nello spazio a salvarci.
A mio avviso, nella discussione prevalente intorno a questi temi manca troppo spesso la parte relativa al controllo dei mezzi di produzione. Penso sia una parte importante, in particolar modo quando ci riferiamo all’intelligenza artificiale.

Devo dire che ogni qualvolta leggo o ascolto racconti di nuove e grandi opportunità a prescindere sento una vocina che mi dice che qualcosa non torna.
Naturalmente non intendo negare che ci sono tante cose utili, complesse, inedite, interessanti che prima richiedevano molto più tempo o non si potevano fare e invece adesso sì, grazie all’intelligenza artificiale. Non rinuncio però a farmi qualche domanda: in che senso e in che modo posso io, con un abbonamento, “usare” i prodotti di aziende che sono capitalizzate per decine o anche centinaia di miliardi di dollari?; che cosa uso realmente io dell’intelligenza artificiale e che cosa usa realmente lei, nel senso dei signori degli algoritmi che la governano, di me?
A volte ho l’impressione che mentre noi usiamo i “giochini” che lei ci mette a disposizione, lei usi noi, ma mi rendo conto che detta così è solo una battuta. Invece trovo molto preoccupante il fatto che questo tema sia praticamente assente dalla discussione nell’ambito dello spazio pubblico.

Il processo di cambiamento profondo, inedito e difficile che abbiamo da portare avanti e da realizzare non può fare a meno della nostra umanità, della consapevolezza e della determinazione che sono necessarie per connettere il pensare e il fare, le parole e le azioni, le decisioni e il senso. Tutto questo come abbiamo visto ha a che fare con la cultura, i modi di essere e di fare, l’autonomia, la partecipazione, le decisioni, la cittadinanza, le libertà. E ci chiede di essere più coerenti e proattivi nella costruzione di futuri possibili.

È un cambiamento che dobbiamo avviare adesso. Sapendo che la colpa non è sempre degli altri e anche quando lo fosse, persino per il 90 per cento, tocca a ciascuno di noi occuparsi del proprio 10 per cento e agire di conseguenza. Perché ghiacciai, foreste e fiumi raccontano sempre più storie a cui manca il lieto fine. Perché i nostri futuri possono cambiare ancora, dipende anche da noi, ognuno per la propria parte, nessuno si senta escluso.

Ovviamente non partiamo da zero, ci sono tante cose che ci portiamo appresso ogni giorno e che ci possono aiutare. Nel mio piccolo me ne accorgo quando parlo di “giornalismo costruttivo” e di “giornalismo delle soluzioni” con il giornalista Vito Verrastro, quando parlo di “gru per la pace” con la maestra Irene Costantini, quando parlo di “identità” e di “futuro” con le ragazze e i ragazzi all’università, per citare solo alcuni esempi tra i tanti che, per fortuna, popolano la mia vita. Alla fine, anche la piccola grande esperienza con il lavoro ben fatto suggerisce questo, con i suoi semi che germogliano qui e là nelle scuole, nelle botteghe, nelle imprese, nelle istituzioni, nei territori.

Tante cose fatte dunque, e però sono ancora poche.
È per questo che quando penso alle centinaia di persone con cui abbiamo interagito in questi anni, alle migliaia con cui ci siamo incontrati, alle lettrici e ai lettori di questo libro, da una parte sono così contento che sparerei i fuochi d’artificio come all’ultimo dell’anno e dall’altra cerco di non perdere di vista le difficoltà e il senso del cammino che resta da fare.

Provo a dirlo anche in un altro modo. Da una parte so che sono un uomo fortunato, le cose che sono riuscito a fare nella mia vita competono testa a testa con i fallimenti, e ogni volta che ci penso mi sembra un miracolo; dall’altra so che è acqua ca nun leve sete, acqua che non disseta. Anche se penso, per esempio, alla promessa che Luca e io abbiamo fatto con questo volume, il lavoro ben fatto che cambia il mondo, i conti non tornano.
Ricordo che nelle prime pagine del mio libro di scienze ai tempi della scuola media c’era scritto che la Terra è un minuscolo granello di sabbia che gira intorno al Sole nell’immensità dell’universo; ecco, così mi sento io, qualcosa di molto piccolo che però fa parte di qualcosa di molto grande, il che a volte mi scoraggia, altre mi entusiasma.

Un mondo migliore ci vuole, ma le domande che ci pone sono tante e non hanno risposte semplici.
Come si prendono le decisioni e si mettono in campo azioni coerenti con le idee e i convincimenti che ci guidano? Come si parla alle ragazze e ai ragazzi che sono il vero motore del cambiamento? Come si convincono le persone, le organizzazioni, le comunità, le istituzioni? Come si coinvolgono nelle decisioni? Come si fa a fare in modo che gli impegni presi vengano rispettati?
Come, sempre come, fortissimamente come. In questo tempo sbandato forse bisognerà dare più valore al “come” per trovare qualche risposta alla domanda impossibile: come si cambia il mondo?

La risposta alla domanda impossibile, come è ovvio, non ce l’ho. Ho però una piccola idea e una improbabile possibilità. La piccola idea è semplice da dire anche se non da fare, è ritornata in vario modo più volte nelle pagine di questo libro: unire le forze. La possibilità è invece improbabile perché è connessa alla decisione di realizzare l’idea. Dopo di che mi chiedo: ma la mia è una decisione intelligente? La risposta è: “dipende”.

Dai maestri del processo decisionale ho imparato che le decisioni intelligenti a priori non esistono. E anche che non dipendono necessariamente dal risultato, che può essere persino casuale, come accade quando in una partita di basket il palleggiatore, invece di passare la palla al compagno smarcato, tira da tre e il pallone, dopo che è rimbalzato più volte tra ferro e tabellone, finisce nel canestro.
In realtà l’intelligenza di una decisione è connessa più alla qualità del processo che si mette in atto per prenderla, che al risultato. In fondo James March ci vuole dire anche questo quando scrive, nel libro Prendere Decisioni, che “il processo decisionale aumenta l’eleganza e la bellezza della vita (2)”, altrimenti avrebbe scritto che l’esito della decisione aumenta l’eleganza e la bellezza della vita, o mi sbaglio?
Con questo, ritorno alla mia piccola idea, all’improbabile possibilità di attivare un percorso che abbia senso, sia necessario, conveniente e in grado di sostenere il processo di cambiamento di cui abbiamo bisogno.

Penso alla costituzione di una Organizzazione Rete che abbia lo scopo di radicare, diffondere e moltiplicare le idee, le azioni e le iniziative dei nodi che la compongono. Nodi che possono essere persone, organizzazioni, movimenti, territori che operano in contesti che contribuiscono a definire e, sulla base di ciò che sanno e sanno fare, stabiliscono orizzonti, creano senso e significato, perseguono opportunità.

Penso anche a un nome per questa improbabile possibilità, Knots 4 Change, Nodi per il Cambiamento. Ci penso perché i nomi sono importanti, hanno a che fare con l’identità, ci permettono di chiamare ed evocare. Senza nome l’uomo non vive in terra, dice Alcinoo nell’Odissea, senza nomi sarebbe tutto più complicato aggiungo io, persino cose come distinguere i colori, definire i sapori, indicare la luna o dedicarle una poesia.

Perché un nome inglese per la nostra Organizzazione Rete? Perché spero che a un certo punto possa e sappia trovare una dimensione e uno spazio internazionale. Per chi come me continua con ostinazione a preferire riscontro a feedback, obiettivo a target e così via discorrendo, era l’unica motivazione possibile, fermo restando che anche il nome è solo una proposta e, in quanto tale, si può cambiare.

E perché “nodi” invece che “organizzazione” o “rete” per rappresentare la sua identità? Perché Knots 4 Change non è una sovrastruttura, è un modo diverso di guardare alle cose che pensiamo e facciamo. Perché i nodi non sostengono la rete, la compongono, nel senso che sono i cuori che la animano e i motori che la muovono. Perché a nessuno di loro viene chiesto di pensare e di lavorare di più ma soltanto di pensare e di lavorare in maniera più connessa, più capace di guardare a quello che pensano e fanno gli altri nodi, più orientato a “usare” le loro conoscenze e competenze in una logica conveniente per tutti, win win, come si usa dire. E perché penso a Knots 4 Change come a un’organizzazione rete molto leggera: niente notai, niente timbri o carta da bollo, niente iscrizioni e forse persino niente statuto. A mio avviso bastano tre o quattro cose.

La prima è una Carta dei Valori condivisa, anche un Alfabeto dei Valori potrebbe bastare, nel senso delle parole che ci ispirano e che cerchiamo di mettere in pratica ogni giorno, a partire da bellezza, consapevolezza, diversità, futuro, genere, gentilezza, giustizia, impegno, lavoro, libertà, pace, pluralismo, rispetto, verità e tutte le altre che decideremo insieme di aggiungere, senza ulteriori declinazioni o definizioni, tanto sappiamo di che cosa parliamo.

La seconda è un Manifesto che riassuma le idee, le motivazioni, le ragioni e le azioni di Knots 4 Change.

La terza è un Comitato di Garanti composto da tre o cinque componenti che valuti le domande di ingresso nell’organizzazione e verifichi il rispetto, da parte di ciascun nodo, dei principi, delle motivazioni, delle ragioni e delle azioni definite con la Carta dei Valori e il Manifesto.
Un comitato che potrebbe restare in carica sei mesi o un anno e del quale, a rotazione, farebbero parte tutti i nodi della rete, nessuno escluso, secondo la data di adesione, a partire dai più vecchi. Detto che ovviamente anche di questo, come di tutto il resto, si potrà discutere, aggiungo che l’obiettivo principale è la condivisione delle responsabilità rispetto a “chi siamo”, a “cosa facciamo” e a “dove andiamo”, che non mi sembra poco.

La quarta è un sito web che, insieme alle pagine social, aiuti a raccontare Knots 4 Change, la sua identità, che cosa fa, come lo fa, perché lo fa e così via discorrendo.

Le idee e le azioni vere e proprie toccano ai nodi, cioè alle persone, alle organizzazioni, ai movimenti, alle comunità e alle istituzioni che aderiscono alla Rete, ci mettono il nome e la faccia e assumono l’impegno ad agire in modo coerente con la Carta dei Valori e il Manifesto.
C’è tanto lavoro da fare, niente viene da sé, ma è un lavoro che si può fare. Anche perché più andiamo avanti e più diventerà necessario, urgente, “guardare in faccia la realtà”, e dunque organizzarsi, stare sul punto, darsi da fare, trovare le strade giuste per cambiare la trama dei nostri futuri.

A guidarci sulle vie del cambiamento bisogna che siano le generazioni più giovani. Senza di loro non c’è minestra, come si diceva a Secondigliano quando ero ragazzo.
Loro i futuri, loro le possibilità, loro il centro della scena, loro i mezzi per pensare il messaggio, farlo proprio, tradurlo, comunicarlo, moltiplicarlo. Perché se non lo fanno loro il messaggio si ferma, anche quando ha successo non diventa virale, non è in grado di cambiare veramente le cose.
E le altre generazioni? Sono attrici e attori non protagonisti, hanno un ruolo importante perché danno una mano, però sono di fianco, o anche mezzo passo indietro.

Knots 4 Change può essere anche questo: la voglia di ascoltare prima di parlare, di imparare prima di insegnare; la forza delle storie che abbiamo alle spalle che rifiuta qualsiasi narrazione che inizia con “ai miei tempi”; la necessità che generazioni diverse si incontrino, si parlino, si comprendano e si mettano al lavoro insieme; l’urgenza di uscire dai circoli chiusi e di interagire con tanti.

Questo è quello che penso io, che sono uno; con il processo di costituzione di Knots 4 Change, in cui spero saremo tanti, si potranno migliorare tante cose. Qui io sto solo immaginando una tela, i nodi e i fili che la compongono sono ancora tutti da tessere. Ribadito ancora una volta questo aspetto fondamentale, il passo successivo è quello che ci porta a chiederci come, in che senso e perché Knots 4 Change può contribuire a rendere più concreto, credibile, convincente e, ancora una volta, conveniente, il cammino che abbiamo davanti.

Per raccontarlo ho scelto pochi grammi di storia di tre donne sulla base di fatti che sono avvenuti già, dunque assai poco opinabili e controvertibili. Seguiranno poche righe tratte da quattro libri e poche parole che formano tre pensieri che spero possano ispirarci e aiutarci nelle riflessioni che verranno dopo.

Cominciamo dalle tre donne: Rosa Parks, Malala Yousafzai e Greta Thumberg.

“Tutti hanno sempre detto che non cedetti il mio posto perché ero stanca, ma non è la verità. Non ero stanca fisicamente, o almeno non lo ero più di quanto lo ero di solito alla fine di una giornata di lavoro. […] Ero stanca sì, ma solo stanca di subire.”
Nel libro La mia storia – Una vita coraggiosa, edito da Mondadori, Rosa Parks racconta così a Jim Haskins della sera del 1955 in cui si rifiuta di alzarsi dal posto riservato ai bianchi sull’autobus su cui sta tornando a casa e viene arrestata dai poliziotti accorsi dopo la chiamata dell’autista. All’epoca, la donna ha 42 anni e da più di 10 è attivista del National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), il movimento fondato da Martin Luther King. Ancora nel corso della sua conversazione con Haskins, Rosa Parks afferma di non aver pensato alle possibili conseguenze del suo gesto: “[…] a dire il vero, se avessi riflettuto meglio su quello che sarebbe potuto accadere, forse sarei scesa da quell’autobus. Ma scelsi di restare.”
Anche se non pensa alle conseguenze, Rosa con la sua decisione dà origine al boicottaggio dei bus a Montgomery fino a diventare un’icona e a essere definita la Madre del Movimento dei Diritti Civili. Anche se la sua azione si inserisce in un contesto di azioni di protesta e di battaglie civili, è lei ad attivare la scintilla e a conquistare un posto nella storia. Eppure, appena nove mesi prima, un’altra attivista di Montgomery, Claudette Colvin, di 16 anni, era stata arrestata per l’identico motivo: si era rifiutata di alzarsi dal suo posto su un autobus. Il suo arresto era però passato sottotraccia, non aveva avuto la stessa risonanza di quello di Rosa.

“Non mi importa di dovermi sedere sul pavimento a scuola. Tutto ciò che voglio è l’istruzione. E non ho paura di nessuno.”
Malala Yousafzai ha 12 – 13 anni quando diventa nota per il blog in lingua urdu che scrive per la BBC. Con i suoi post, la ragazza documenta le violenze dei talebani pakistani nella valle di Swat, contrari ai diritti delle donne e all’istruzione delle bambine. In seguito alla sua attività, a 15 anni Malala viene colpita e ferita gravemente alla testa da proiettili talebani mentre sta salendo sullo scuolabus per tornare a casa. Con lei vengono colpite anche Zoland e Ambrin, sue compagne di scuola. Sopravvissuta all’attentato, a 16 anni lancia, nel corso di un intervento all’ONU, un appello per l’istruzione delle bambine e dei bambini di tutto il mondo. A 17 anni le viene assegnato il Nobel per la Pace insieme all’attivista indiano Kailash Satyarthi “per la loro lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione”. Durante e dopo ci sono mille altre cose, ma noi, per adesso, possiamo fermarci qui.

“Sciopero scolastico per il clima. […] La crisi climatica deve essere gestita in quanto tale! Il clima è la questione più importante!”. Greta Thunberg ha invece 15 anni quando si ribella al calore e agli incendi dei boschi dell’anomala estate svedese e decide che, invece di andare a scuola, fino alle elezioni se ne resterà seduta ogni giorno davanti al parlamento per protesta. La sua richiesta è che il governo riduca le emissioni di anidride carbonica.
Passate le elezioni, la ragazza continua a manifestare ogni venerdì e lancia il movimento studentesco internazionale Fridays for Future. Lo sciopero del venerdì finisce sui media di mezzo mondo e gli studenti iniziano a mobilitarsi in molti paesi, a partire da Germania, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi, Italia e Australia.

Le idee e le rivendicazioni di Greta – il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale, viviamo la crisi più grave che l’umanità abbia mai subito, dobbiamo fermare le emissioni e cercare di salvare il salvabile – diventano presto un manifesto mondiale. La ragazza conclude così un suo durissimo intervento di fronte ai leader mondiali alla COP24: “Non siamo venuti qui per supplicare i leader di agire. Ci avete ignorato in passato, e ci ignorerete ancora. […] Voi avete finito le scuse, e noi stiamo finendo il tempo. (3)”

Nel giugno 2019, da un sondaggio condotto in Gran Bretagna viene fuori che la preoccupazione dell’opinione pubblica per le questioni ambientali è salita a livelli record nel Regno Unito da quando è stata perforata la bolla della negazione. Ed è anche grazie al movimento fondato da Greta che nel bilancio 2021 – 2027 dell’Unione Europea viene deciso che ogni quattro euro spesi, uno sarà destinato ad azioni finalizzate a mitigare e combattere il surriscaldamento globale.

I quattro libri da cui ho tratto le poche righe che ho usato per sostenere la mia piccola idea sono, nell’ordine, Sopravvivere al XXI Secolo di Noam Chomsky, Pepe Mujica e Saúl Alvídrez edito da Ponte alle Grazie, Apologia del futuro di Luca De Biase edito da Luiss University Press, Da cosa nasce cosa di Bruno Munari edito da Laterza e l’Odissea di Omero nella versione di Samuel Butler edito da Blackie.

Il fatto che le pagine di Sopravvivere al XXI Secolo sulle quali non ho messo alcun segno con la matita, sulle 207 complessive, non arrivino a 10, mentre sono tante quelle interamente sottolineate, ritengo suggerisca di per sé qualcosa di significativo circa l’impatto che questa storia, che avevo già incontrato nella versione video, ha avuto su di me.
In estrema sintesi, segnalo qui:
Noam Chomsky che cita la moglie Valeria e Paulo Freire per ricordare che “non si insegna alle persone, si impara da loro”.
Pepe Mujica che afferma che il carattere e la forza che la democrazia greca e il suo pensiero hanno ancora oggi deriva dalla partecipazione dei 7000 cittadini che si alternavano nelle funzioni di legislatori, giudici, politici e tutto il resto.
Saúl Alvídrez che sostiene che la missione storica delle generazioni nate tra il 1981 e il 2012 è quella di “costruire una civiltà di adulti capace di superare per tempo l’immaturità che rischia di cancellare il futuro della specie umana”. Precisa che “adulto è colui che si assume la responsabilità della propria vita, un individuo che prende decisioni e ne accetta le conseguenze con autonomia e indipendenza.” Aggiunge che “[…] il paradigma ora deve essere quello di governare noi stessi e non di affidare il nostro destino ad altri”. E specifica che con “altri” si riferisce “[…] a quella piccola élite di governanti e miliardari che entrerebbero in una sola sala cinematografica e però controllano il destino di otto miliardi di essere umani.”

Apologia del futuro è un viaggio colto e appassionato alla scoperta di ciò che cambia e di ciò che permane. Un viaggio militante tra la storia, le storie e i futuri. Perché la ricerca di futuri possibili, plausibili, probabili, preferibili richiede dosi massicce di senso critico, partecipazione attiva, ancora una volta consapevolezza.
Anche in questo caso, per evitare inverosimili riassunti, condivido a mo’ di ispirazione i titoli delle undici certezze sul futuro che Luca De Biase propone all’inizio del suo volume: il futuro è potere; tra i futuri c’è scelta; niente cambia tutto; la ricerca è azione; ricordati di criticare le fonti; le narrazioni guidano le decisioni; ai confini del paradigma; esiste una ecologia dei media; la condizione post-contemporanea; i futuri vanno progettati; evolution rules.

Da cosa nasce cosa mi è piaciuto prima di tutto per il metodo. Un metodo che all’inizio si sostanzia soltanto in due variabili, Problema (P) e Soluzione (S), che però qualche pagina dopo sono già diventate quattro: Problema (P), Definizione del Problema (DP), Idea (I); Soluzione (S).
Continuando nella lettura si scopre che le variabili diventano: Problema (P); Definizione del Problema (DP); Componenti del Problema (CP); Raccolta di Dati (RD); Analisi dei Dati (AD); Creatività, (C, che sostituisce I); Materiali Tecnologia (MT); Sperimentazione (SP); Modelli (M); Verifica (V); Soluzione (S.).
I metodi come sappiamo sono tanti, sempre migliorabili e in vario modo connessi al contesto e al tipo di problema che abbiamo da risolvere, ma averne uno aiuta anche nei processi di cambiamento, perché facilita e abilita a pensare e a fare meglio.

Per quanto riguarda infine l’Odissea, le fonti principali di ispirazione sono tre: il viaggio di Ulisse, che è difficoltoso quasi come quello che oggi tocca fare a noi; il punto di vista della Penelope di Margaret Atwood, la sua lettura “altra”, di genere, più umana degli eventi, una lettura che ridimensiona lo stesso protagonista; l’impatto della resa del poema in versi in forma di romanzo in prosa sulla percezione e sulla comprensione della storia. Con modalità e complessità diverse anche qui l’improbabile diventa possibile grazie all’azione di “traduzione” di Samuel Butler.

Per completare questa parte ecco i tre pensieri, che sono, nell’ordine, del Mahatma Gandhi, di Pepe Mujica e di William Ernest Henley.
“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, dice Ghandi.
“Non bisogna aspettare di avere un mondo migliore ma bisogna lottare per un mondo migliore”, ricorda Mujica.
“Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita. Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.”, scrive Henley negli ultimi versi di “Invictus (4)”, la poesia che aiuta Nelson Mandela a resistere nei momenti più difficili della sua lunga prigionia.

Non lo so se a questo punto la domanda impossibile è un po’ meno impossibile, anche se in cuor mio spero di sì. Però so che non basta. Come direbbe mio padre, che se ne sta sempre lì, nella mia testa e nel mio cuore, “il buongiorno si vede dal mattino”, nel senso che se una cosa non viene fatta come si deve dal principio non può mai venire bene come deve venire alla fine. Dopo di che aggiungerebbe: “ma hai deciso qual è il tuo principio?
“Sì, è la cultura”, gli risponderei. “Il mio buongiorno sta lì, nella cultura, nell’approccio delle persone, delle organizzazioni, dei territori, delle nazioni, delle istituzioni internazionali.”

Se è vero che per conoscere un’organizzazione bisogna conoscere la sua cultura, come suggerisce con la sua attività di ricerca Edgar H. Schein, per cambiarla bisogna che cambi la sua cultura, dunque gli artefatti che la rappresentano, i valori espliciti che la ispirano e gli assunti di base che la tengono insieme.

Artefatti, in pratica architettura, tecnologia, gergo, simboli, rituali e altri aspetti immediatamente rilevabili.
Valori espliciti, cioè idee guida, modelli di comportamento, indicazioni del management che rinsaldano identità, senso di appartenenza, solidarietà tra componenti dell’organizzazione.
Assunti di base, in buona sostanza i muri maestri, le convinzioni così profonde che non sempre hanno bisogno di essere esplicitate.

Diciamo la verità, già solo a scriverlo sembra una battaglia contro i mulini a vento. Ma allora di cosa parlano Chomsky, Mujica, De Biase e tutti gli altri? E soprattutto come hanno fatto Rosa Parks, Malala Yousafzai e Greta Thunberg?
Forse per fare un piccolo passo avanti ci dobbiamo concentrare proprio sull’attività delle tre donne e sulle caratteristiche che le accomunano. Al sociologo che dentro di me fa compagnia al narratore le più importanti sono sembrate quattro.

La prima riconduce alle loro azioni di donne normali, diverse per età, contesti, nazionalità e altro ancora, che decidono in maniera consapevole, responsabile, ancora una volta adulta, di compiere un atto di disobbedienza politica coerente con le proprie idee senza farsi inibire o bloccare dal timore delle conseguenze.
La seconda si riferisce ai sistemi di relazione personale, familiare, sociale, associativo, politico in cui sono inserite.
La terza porta all’azione di un movimento di carattere sociale, economico, politico che fa da contesto e sfondo alle loro azioni.
La quarta evidenzia l’impatto mediatico forte, potente, in vario modo virale, che le loro azioni producono sia nel loro paese che nel resto del mondo.

Naturalmente non sto dicendo che “basta” una persona con un sistema di relazioni ampio, un movimento alle spalle e un impatto mediatico forte per cambiare almeno un poco il mondo, anche se non è poi così facile che queste quattro caratteristiche si incontrino e si incrocino in una sola persona. Rimane il fatto però che Rosa Parks, Malala Yousafzai e Greta Thunberg il mondo, almeno un poco, lo hanno cambiato. E lo hanno fatto, lo stanno facendo, in contesti nei quali ci vuole molto più coraggio di quello richiesto oggi nella nostra parte di mondo, mettendo a rischio la propria libertà, nel caso di Malala la vita stessa.

Con cosa possiamo scambiarlo oggi questo coraggio? Penso con l’impegno, la coerenza, la passione, la perseveranza, l’educazione, l’abitudine, il pensiero, l’azione consapevole. A livello privato e pubblico. Personale e generale.
Sì, insieme a intelligenza collettiva direi che consapevolezza collettiva, generale, ci sta bene. E poi più capacità di essere obiettivi, lucidi, disposti a comprendere ciò che non funziona, gli errori, i limiti, perché se non capiamo questo le possibilità di voltare pagina diventano prossime allo zero.

Penso che nella nostra parte di mondo, al netto di tutte le cose belle che pensiamo, facciamo, ci rendono riconoscibili e ci danno soddisfazioni, per fare il salto e contribuire concretamente al processo di cambiamento, bisogna che assumiamo una nuova prospettiva, un modo diverso di pensare e fare le cose, guardando in faccia la realtà.

Forse così si può fare. In fondo due delle quattro caratteristiche che accomunano Rosa Parks, Malala Yousafzai e Greta Thunberg le abbiamo già: siamo tante persone normali che cercano con passione e impegno di fare la loro parte per cambiare le cose e che hanno contribuito a costruire, nel tempo, i sistemi di relazione forti di cui in vario modo fanno parte.
Le altre due ce le dobbiamo costruire e un poco anche guadagnare, perché potrebbe essere lì, nella loro mancanza, una parte rilevante della differenza tra le idee e le azioni che mettiamo in campo, da una parte, e i risultati che riusciamo a conseguire, dall’altra.

Se guardiamo in faccia la realtà ce lo possiamo dire in maniera più chiara: anche se siamo in tanti, ciascuno di noi, ciascuna persona e ciascun nodo – organizzazione, movimento, comunità che abbiamo fondato o in cui ci riconosciamo – cura soprattutto, quasi esclusivamente, il proprio orto, lavora solo per rendere più forti e visibili i propri progetti e le proprie iniziative. Per tanti aspetti ci sta, fa parte degli scopi individuali e sociali, è stato fondamentale in modi diversi per millenni, ma oggi la realtà ci dice con chiarezza che non basta più. Il nostro approccio è comprensibile, ma non più giustificabile, perché viviamo con la nostra fine alle calcagna e fare finta di niente non basterà a salvarci.

Le idee e le azioni di singole persone, organizzazioni, movimenti, territori, di per sé, non bastano più; se non sono collegate alle idee e alle azioni di altre persone, organizzazioni, movimenti, territori non hanno voce, non cambiano le regole del gioco. Come ci siamo detti le noci che si muovono da sole nel sacco non fanno rumore, non importa se sono 10, 100, 1000 e persino 1 milione.
La risposta alla scarsità di futuro possibile e desiderabile passa anche da questa nuova e forte consapevolezza, altrimenti il mantra che vogliamo cambiare il mondo si trasforma in una litania, in un canto che invece di portarci verso un inizio ci accompagna alla fine.

Oggi più che mai nessuno di noi è un’isola, completo in se stesso, oggi più che mai ognuno è una parte del tutto. Valeva per Rosa Parks, vale per Malala Yousafzai e per Greta Thunberg e vale per noi.

Senza futuro non c’è lieto fine per nessuno, per questo bisogna uscire dalle riserve indiane e agire insieme, costruendo, intorno ai valori che ci ispirano, ai temi che ci stanno a cuore e alle possibilità in cui crediamo, il contesto, le comunità di condivisione, i movimenti in grado di cambiare il corso delle cose. Per avere più futuro per noi e per le generazioni che verranno, che non hanno responsabilità di questo futuro così tanto accartocciato sul presente.

È anche da qui e per questo che nasce questa piccola idea, questa improbabile possibilità che sto raccontando. Magari se siamo in tanti a pensarci su, a migliorarla e ad agire di conseguenza potrebbe anche funzionare, di certo acquisterebbe senso. Se decidiamo di guardare in faccia la realtà appare evidente che non è certo e forse neppure probabile che Knots 4 Change possa funzionare. Il che ci conduce alle due domande successive: a quale condizione e perché invece può funzionare; perché può avere senso farne parte.
Può funzionare prima di tutto perché è una piattaforma di valore basata sulla fiducia, che era una caratteristica importante ieri ed è diventata indispensabile oggi, al tempo della rottura antropologica causata dall’intelligenza artificiale con il passaggio da “è successo” a “sarà poi vero?”. Per fare qualche esempio, sarà poi vero che Biden ha partecipato a una riunione con i leader militari per la guerra di Gaza? O che i trattori sono arrivati al centro di Parigi e lo hanno sommerso con balle di fieno in segno di protesta contro l’Europa? O che Trump ha baciato Kamala Harris?
E poi perché è una piattaforma per definizione aperta che permette rapporti di scambio durevoli al proprio interno e persegue significati, valori e obiettivi indirizzati a uno scopo comune. Perché condivide in maniera collaborativa idee, azioni, norme e processi. Perché i nodi che la compongono sanno leggere le relazioni tra le persone, le organizzazioni e i contesti sociali, e i loro significati, dal punto di vista della conoscenza. Perché quando la conoscenza è diretta verso un fine si riferisce non solo alle credenze e al coinvolgimento ma anche all’azione. Perché ciò che sappiamo e sappiamo fare ci può spingere a valutare criticamente successi e insuccessi, a ridefinire azioni ordinarie e indirizzi strategici utili a risolvere i problemi, a valorizzare punti di vista ulteriori rispetto a quelli prevalenti, a sperimentare innovazioni culturali, sociali, tecnologiche e organizzative, a dare più significato a ciò che ci accade e a ciò che che contribuiamo a far accadere.

Proprio così, può funzionare. E in ogni caso ha senso farne parte. Perché un mondo migliore ci vuole, è necessario. Perché possiamo essere parte di un processo che aggiunge valore, senso e significato alle nostre vite. Perché il risultato viene dopo il processo, non prima, quando viene. Perché è vero che le possibilità sono poche, ma se non facciamo niente sono nulle. Perché questa volta ‘a nuttata, da sola, non passa.
Penso che stia anche qui il senso e la convenienza di non restare a guardare. Dopo di che ritorno dove ho cominciato e ripeto che questa postfazione è solo una piccola idea, una improbabile possibilità, quasi un’astrazione. Per ora.
La prospettiva potrebbe cambiare se diventa la prima riga di una storia che tanti decidiamo di scrivere insieme.
Per cominciare potrebbe bastare un piccolo gruppo plurale di soggetti promotori e poi, strada facendo, si può vedere che succede.
Fine. Sempre per ora.

NOTE
1. Welcome to the NHK, serie televisiva tratta dal romanzo omonimo di Tatsuhiko Takimoto poi diventato un manga pubblicato sulla rivista Shōnen Ace edita da Kadokawa Shoten con i testi dell’Autore e i disegni di Kenji Ōiwa. La regia della serie televisiva invece è di Yūsuke Yamamoto.
2. James March, Prendere Decisioni, Il Mulino.
3. Greta Thunberg, UN Climate Change COP24 Conference, Poland, 2018.
4. William Ernest Henley, Invictus, in Arthur Quiller-Couch, Oxford Book of English Verse

PARTECIPA ANCHE TU
Il sito di Knots4Change
Il link dove scaricare la postfazione in formato pdf