Nicolangelo Marsicani. Pensieri a olio

Cara Irene, oggi ti racconto Nicolangelo Marsicani, 54 anni, diplomato al liceo classico, studi giuridici non conclusi perché si è messo a lavorare nel frantoio di famiglia, per fortuna.
Per fortuna perché forse abbiamo perso un ottimo avvocato, o magistrato, ma di certo abbiamo guadagnato un frantoiano, produttore, tecnico oleario, assaggiatore, anche se lui preferisce definirsi un appassionato dell’olio da olive.
Il racconto a dire il vero è suo, però anche io sono riuscito a fare quello che volevo fare, e non era facile, perché di lui e del Frantoio e dell’Olio Marsicani si parla e si scrive tanto, anche perché continua a ottenere riconoscimenti, come per esempio quello, per il terzo anno, di Frantoio dell’Anno nel corso della presentazione della Guida Oli d’Italia 2024 del Gambero Rosso. 
Cosa volevo fare? Raccontare Nicolangelo a modo mio, perciò adesso leggi e poi mi fai sapere se ci sono riuscito.

GIUSTO UN PO’ DI STORIA

Per cominciare ho chiesto a Nicolangelo di raccontare un po’ di storia, come piace a me.
“Il primo documento che attesta l’esistenza della nostra attività è del 1928, quando il frantoio oleario della famiglia Marsicani viene registrato alla Camera di Commercio di Salerno, però faccio a fatica a credere che i miei avi abbiano piantato gli ulivi nel 1928 o abbiano cominciato la loro attività in quell’anno. Il 1928 è l’anno della formalizzazione dell’attività, del primo atto pubblico, ma penso senza ombra di dubbio che l’olivicultura a casa mia, nelle nostre terre, abbia radici che affondano molto più indietro negli anni.
Per quanto riguarda me, rientro in azienda nei primi anni 90 e ho una fortuna, la mia prima fortuna: poter lavorare a fianco di mio padre che era appassionato di olivicultura e di oleotecnica e aveva impiantato ulivi con sistemi moderni, seguendo le indicazioni del professor Fontanazza.
Ovviamente era un uomo del suo tempo, così per esempio il primo frantoio che montiamo nel 1995 è a presse, dunque ancora legato alle tradizioni, un poco perché al tempo si pensava che quella tecnologia fosse adeguata, un poco perché le risorse economiche quelle erano.
L’esperienza di mio padre all’interno dell’oleotecnica era quella delle presse, non aveva esperienza con frantoi continui, dunque per lui era più semplice avviarmi all’attività con qualcosa che già conosceva, perché in questo modo poteva guidarmi meglio. In buona sostanza aveva strutturato molto bene la parte agricola, mentre invece la parte dell’oleotecnica, lo capii dopo qualche tempo, non era all’altezza dei tempi e delle necessità.
Come l’ho capito? Con un incontro. Il frantoio aveva circa 600 conferitori, perché c’era una carenza di frantoi nel territorio, non c’era un frantoio a Caselle, non c’erano frantoi nei paesi limitrofi. Avevo tanti clienti che venivano da Torraca, Tortorella e quant’altro, e moltissimi di questi erano in età avanzata. Un giorno uno dei giovani conferitori mi invita al suo matrimonio a Tortorella. Arrivo lì, mi avvio verso la chiesa dove si celebrava questo giorno di festa e vedo in lontananza alcune persone che si alzano da una panchina e si dirigono verso di me. Mi chiedo perché, da lontano non li avevo riconosciuti, ma quando si avvicinano riconosco alcuni miei vecchi clienti, ormai ultra ottantenni, che non venivano più al frantoio. Mi salutano e si scusano della loro vecchiaia e del fatto che i loro terreni erano ormai abbandonati e dunque non potevano più conferire olive. Durante il viaggio di ritorno, e poi a casa, questa cosa mi fece molto pensare. Mi dissi che se questi non conferivano più, con il passare del tempo anche altri non avrebbero più conferito, e questa cosa innescò in me la voglia di capire quale fosse la nuova via da seguire per restare nella mia terra e creare lì un valore.”

GAETANO AVALLONE

Dopo la storia, il maestro, che come sai cara Irene i maestri sono importanti, il rapporto tra il maestro e l’allievo è importante, e dunque eccoci qui.

“Il mio maestro è stato Gaetano Avallone, persona di una cultura immensa, polivalente, nella vita aveva fatto tantissime cose e in vecchiaia si era innamorato dell’olio. L’ho conosciuto in una fiera, ricordo che mia moglie cercava di spiegargli cosa fosse e come si assaggiasse un olio.
Io arrivo che mia moglie ha quasi finito di parlare, saluto, lui si presenta e mi dice che vorrebbe parlarmi in privato, e in privato mi spiega com’era veramente il mio olio e perché era differente da quello che gli aveva raccontato mia moglie. Ricordo che mi ha detto una cosa come “guarda che il tuo olio è così, ha queste problematiche, devi migliorarlo, perché così non sei attuale”.
Le sue parole mi fanno riflettere molto, al punto che dopo un po’ di tempo cerco il suo numero e lo chiamo, per capire meglio come deve essere un olio buono.
Lui non era un frantoiano, non era un tecnico di frantoio, non produceva, era semplicemente un assaggiatore, o meglio, un grande esteta dell’olio, uno dei più grandi assaggiatori che abbiamo avuto in Italia.
Gaetano mi diceva cose semplici, tipo “ricorda che l’oliva è un frutto, che raccogli sostanzialmente verde, che quindi ti deve dare delle note, degli aromi, che ti ricordano i vegetali quando sono nella forma verde, siano essi carciofi, erba tagliata, foglia di pomodoro, mandorla verde, quindi tutte note aromatiche positive che riempiono l’assaggio e soprattutto riempiono l’olio di bellezza.
Da allora abbiamo cominciato un rapporto di maestro allievo che lui però lamentava non avere, mi diceva “non riesco a insegnarti niente perché prima che io parli tu rubi le cose che voglio dirti, mi rubi il mestiere”. In pratica, nella sua alta considerazione delle persone, non mi riteneva un allievo ma un suo pari.
Anche per questo era un grande, perché non ti dava mai una lezione, ma cercava di innescare in te un processo catartico e farti arrivare alla meta da solo, attraverso un ragionamento che, per quanto complesso, doveva essere sulla strada della verità.”

CONTA SOLO IL RISULTATO

Ci tengo a dire che Nicolangelo con è stato ed è sempre gentile, educato, direi anche affettuoso per quanto la nostra frequentazione lo permette. Eppure non di rado ne leggo o ne sento parlare come una persona con un carattere complicato, dai modi bruschi.
Ti dico la verità, personalmente credo sia dovuto al fatto che è una persona che non sopporta la banalità, l’incapacità di ascoltare, la poca voglia di imparare, e non lo dico perché nel mio piccolo accade anche a me, lo penso veramente. Alla fine, dato che le persone non amano riconoscere che sono banali, che non ascoltano e non imparano, che ti fanno soltanto perdere tempo, trovano più comodo dire che hai un brutto carattere. 
Prendiamo per esempio la naturalezza con cui Nicolangelo ha accettato il punto di vista di una persona che aveva appena conosciuto anche se era divergente da quello di sua moglie che, tra l’altro, con il suo lavoro si è guadagnata un ruolo importante nell’azienda.
È come se avesse riconosciuto da subito in Gaetano un maestro, o comunque si fosse posto da subito nei suoi confronti con grande disponibilità, e questo dice qualcosa di significativo sulla sua propensione a dare sempre la priorità al merito delle questioni che sta affrontando.
Secondo me conta solo questo, le gerarchie non contano, vince l’idea, il percorso, il processo migliore, quello che permette di arrivare meglio al risultato, punto. Io penso questo, ma naturalmente ho chiesto a Nicolangelo che cosa ne pensasse.

“Vedi Vincenzo, io ho capito fin da ragazzo che ci sono delle persone che ti danno qualcosa, e sono quelle che non hanno pregiudizi. Parlo delle persone che hanno una cultura, che hanno una mente libera, aperta, e un metodo con il quale ragionare. Un metodo che si può applicare a un atto notarile o alla pulizia di una strada, perché se hai un metodo, se lo hai interiorizzato, quel metodo funziona per ogni cosa.
Da queste persone si può imparare, si impara, si impara tanto. Sia quando sono esperti, perché gli anni hanno dato loro una serie di esperienze e quindi hanno avuto il tempo di mettere in fila e di connettere delle cose, sia quando sono giovani, che oggi mi accorgo, ne sono più che mai convinto, che possono dare tanto.
Prendiamo per esempio me, non ho più l’elasticità mentale di un ragazzo, che spesso è più veloce e più sveglio di me non solo con le nuove tecnologie. Il segreto sta proprio nell’essere liberi di pensare e ragionare in un modo inusuale, senza avere paletti da rispettare, parlo insomma di ragazzi che sono molto lontani da chi ragiona seguendo un sentiero molto stretto, senza uscirne mai, trovando mille scuse per non abbandonarlo. Questo secondo tipo di persone a me, alla mia visione, ai miei progetti, non servono. E penso che non solo non servono a me, ma non servono alla comunità, perché non sono funzionali alla creazione di valore.
L’ultima esperienza l’ho avuta durante un corso di due giorni sulla trasformazione con diciotto frantoiani. Sono venute fuori mille scuse per dire che questo non si poteva fare, quello non si poteva fare, e così quell’altro. A un certo punto ho detto va bene, qui non si può fare nulla, di fatto è inutile fare un corso, dopo di che gli ho fatto assaggiare gli ultimi due olii: il primo lo hanno definito difettato; il secondo invece bellissimo, e giù tutti a decantarlo. A quel punto gli dico che il primo è un olio prodotto da una loro cooperativa dove non si può fare niente, dove c’è la tradizione, dove come si fa con tanti conferitori, dove non si può pulire il frantoio e così via discorrendo; il secondo è invece di una cooperativa spagnola 100 volte più grande della loro, solo che non hanno detto che non si può fare ma hanno preso un foglio di carta, hanno chiesto che cosa si doveva fare e lo hanno fatto. Dopo di che me ne sono andato, della serie se lo volete fare lo fate, perché non è che posso stare qui a perdere tempo con voi.
Più in generale sono convinto che è inutile andare a scontrarsi con persone che hanno delle barriere, perché quelle barriere se non le fai sfondare a loro stessi, se non ci cozzano contro e si fanno male, per loro saranno sempre uno schermo per non fare bene.
Ti faccio un altro esempio, di tutt’altro tenore.
Ieri ero con un amico greco, Kostas Liris, uno dei massimi esperti sulla trasformazione e sull’oleotecnica e l’olivicultura del suo paese. È stato con me due giorni perché abbiamo fatto un evento negli scavi di Pompei. Girovagando ieri mattina, siamo andati da Giuseppe Pagano, a Paestum, che a un certo punto gli ha raccontato un aneddoto che spesso ripete. Riguarda la nonna di Angelo Gaja, straordinario produttore di vino, che al nipote diceva: guarda che per fare l’imprenditore basta che tu sappia fare quattro cose: innanzitutto devi fare; poi devi saper fare; poi devi saper far fare; infine devi far sapere.
Naturalmente resta un aneddoto, ma ciò non toglie che con poche parole si può riassumere il cuore vero di un problema, o di un sogno. Tutto il resto sono barriere, sovrastrutture, cose per non fare, non saper fare, e non far fare. Noi di queste barriere ci dobbiamo liberare.”

LA REGOLA È L’OLIO

Cara Irene, a questo punto ho raccontato a Nicolangelo che cosa mi aveva detto il mio amico scienziato Piero Carninci nel corso del mio lavoro di ricerca al Riken in Giappone, sul fatto che quando aveva bisogno di scienziati e di ricercatori che dovevano consolidare o implementare una ricerca, dava la preferenza all’esperienza, mentre invece quando si trattava di lavorare intorno a nuovi linee di ricerca o a nuovi paradigmi preferiva quelli più giovani e meno strutturati, con la testa più libera e più predisposta al nuovo. Dopo di che gli ho chiesto di stare sul punto e di continuare a dirmi cosa ne pensava.

“Vincenzo io questa cosa non l’ho studiata, l’ho osservata, in primo luogo in Gaetano, il mio maestro, che anche in vecchiaia era giovane. Sì, Gaetano in vecchiaia aveva una mente tanto libera e spregiudicata nella produzione e nella profilazione degli oli che non seguiva nessuna regola. La regola era l’olio, è questo che ho imparato davvero da lui. Quello che comanda nella produzione non è se abbiamo raccolto il giorno 15 o il giorno 17, se abbiamo fatto così l’anno scorso o un altro anno, quello che conta è quello che dobbiamo fare ora, e la regola la costruiamo ora con l’aiuto di un metodo, un approccio, razionale.
Questa cosa che ho osservato nella sua giovanissima vecchiezza, io la temo per la mia e per questo, temendola, ho fatto un’azione di prevenzione per mettermi al riparo dalla mia vecchiezza, dal fatto che acquisisco sempre più informazioni sulle quali finisco per basarmi.
Cosa ho fatto? Mi sono attorniato di giovani, che forse a volte mi temono anche, però io cerco di farli parlare sempre, cerco sempre di capire come ragionano, anche sul prodotto, sull’olio, perché sono più liberi di me. Insomma penso che più vado avanti e più posso costruirmi delle barriere, per questo mi attornio di giovani che non le hanno e mi possono aiutare a far cadere anche le mie.
Questa cosa per me è fondamentale, perché ho avuto a che fare con un vecchio che nella sua vecchiezza era giovanissimo, e perché temendo di diventare vecchio che ragiona da vecchio mi sono aggrappato ai giovani che mi danno quella freschezza che io non ho più, o comunque non ho sempre.”

BELLO È BUONO

Te lo ricordi Irene? In un articolo intitolato Elogio della bellezza avevo raccontato la mia contentezza nello scoprire che esiste una connessione anche etimologica tra l’idea di bello e quella di bene, data dal termine latino bellus, “bello”, che è il  diminutivo di una forma antica di bonus, “buono”.
Perché ci ritorno su? Perché ho notato che Nicolangelo quando incontra una cosa ben fatta non dice che è buona, dice che è bella. Sì, il mio amico usa bello come sinonimo di buono. A me sarebbe venuto naturale, parlando di oli di altissimo livello, dire che sono buoni, molto buoni, eccellenti, lui invece li definisce belli. E dato che tutto questo si connette alla grande al lavoro ben fatto, ho cercato tra le carte del manifesto del lavoro ben fatto disegnate con Scrapbook da Laura Ressa quella relatva all’articolo al numero 11, “Fare bene le cose è bello”, gliel’ho donato e gli ho chiesto di raccontare perché, secondo lui, gli oli, fare bene quello che dobbiamo fare, è bello prima ancora che buono.

“In realtà non è una cosa mia, è una cosa che ci viene dal mondo greco, kalòs kai agathòs, che rappresenta ciò che di esteticamente migliore ci possa essere, cioè la cosa buona e bella. È un tutt’uno, anche se noi la rappresentiamo in modo diverso.
Come fa una cosa a essere buona ma non bella? Oppure bella ma non buona? Sono due concetti che si fondono, che noi rappresentiamo come due cose distinte, perché associamo il bello alla vista
e il buono al gusto, ma che in realtà sono la stessa cosa, rispondono entrambi a un bisogno di appagamento, di piacere, e quindi per me ciò che è bello è buono e ciò che buono e bello.
Non può essere diversamente, non si può scindere, di diverso c’è solo il modo di percepirli, uno con la vista e l’altro con il gusto.”

È L’OLIO CHE HA SCRITTO, È L’OLIO CHE SCRIVE

Qui è dove ho cercato le relazioni tra l’olio e l’ulivo da una parte, le parole e la scrittura dall’altra, cara Irene. Non so se esiste una scrittura a olio, scrittura non pittura, ma è a quello che pensavo mentre cercavo, con risultati, devo riconoscere, abbastanza deludenti, nonostante la fortuna di incrociare poeti come Federico Garcia Lorca e Pablo Neruda e cantautori come Roberto Vecchioni. Per farla breve, dopo aver confessato a Nicolangelo il mio fallimento, ho voluto chiedergli se riusciva comunque a dirmi qualcosa intorno all’idea dell’olio come inchiostro, l’olio come media, come mezzo per scrivere.

“A me sostanzialmente non viene nulla, se non il fatto che è l’olio che ha scritto, è l’olio che scrive. Se noi leggiamo questa scrittura, Se facciamo uno sforzo archeologico, se cerchiamo di capire cosa ha scritto l’olio nel tempo, qual è stato l’approccio, e ci chiediamo per esempio qual era l’olio dei greci, ci accorgiamo che conoscendo il loro olio riusciamo a capire anche un po’ di cose su come ragionavano.
E naturalmente vale anche per i romani. Qual è stata l’evoluzione? I greci avevano un olio soprattutto a scopo religioso, e quindi abbiamo un popolo che si aggrappa a qualcosa che era esterno all’uomo, più grande di lui, perché doveva avere un’ancora.
I romani dell’olio hanno scritto molto, ma in modo commerciale, le prime indicazioni di origine, i grandi viaggi dell’olio verso Roma. Da qui capisci che era un popolo di commercianti, con grosse interconnessioni, insomma rispetto ai greci è un mondo completamente diverso.
I greci erano dei filosofi e dispensavano l’olio per pensare a un aldilà, i romani invece, commercianti e quindi erano giuristi, pensavano alle regole, anche nel mondo dell’olio.
In definitiva leggendo l’olio nel tempo, e a come ci si approcciava, si capisce anche come quelle persone o quei popoli ragionavano e vivevano. Allo stesso modo, quello che l’olio sta scrivendo oggi dirà ai posteri come la pensiamo noi non solo su questo prodotto, e come a partire da questo prodotto ragioniamo e pensiamo.
Ho fatto una ricerca archeologica sull’olio, ho cercato di capire come, attraverso l’olio, mi posso rapportare a quei popoli che lo facevano. L’ho fatto per capire meglio, perché naturalmente di scientifico non c’è nulla, però è un approccio a cui non si pensa eppure ti apre la mente.
Noi cerchiamo di capire quali erano le usanze di un popolo attraverso un’anfora, perché c’erano delle pitture, un anello anziché una spada anziché una scena d’amore, perché non possiamo fare anche attraverso l’olio?”

IL DONO DI ZEUS

La colpa questa volta è di Nicolangelo, amica mia, perché parlando di Grecia mi ha fatto venire in mente Atena e Poseidone che si sfidano. In palio ci sono Atene e l’Attica, promesse da Zeus alla dea, o al dio, che avrebbe dato alla Terra il dono più bello, più grande, più utile. Atena sceglie l’ulivo, Poseidone il cavallo, e Zeus decreta la vittoria della dea perché l’ulivo simboleggia la pace mentre il cavallo la guerra. Ma perchè secondo te l’ulivo simboleggia la pace?, ho chiesto al mio amico, ed ecco cosa mi ha risposto.
“Non so dirti, provo a ragionare ad alta voce. 
Comincio dicendo che non credo che Zeus fosse un fesso. Nei momenti di pace c’è la crescita dei popoli, c’è la prosperità, e l’ulivo con l’abbondanza e la copiosità dei suoi frutti si ritrova bene in questa rappresentazione di prosperità e di benessere per le popolazioni, anche in considerazione del fatto che non ha bisogno di tantissimo lavoro. Il cavallo invece rappresenta la battaglia, la guerra, la distruzione, la morte, tutte cose che non hanno a che fare con la prosperità.
Questa dicotomia è continuata nel mondo antico ma è arrivata in certa misura fino a noi.
L’olivo ha bisogno di cure di coltivazione e ricambia queste attenzioni con copiosità di frutti e quindi prosperità e crescita; al contrario, quando gli uomini sono distratti dagli egoismi delle contese trascurano le cure dei beni che non frutteranno adeguatamente e si vivranno tempi di miseria.”

RAMÓN GÓMEZ DE LA SERNA E MOSÈ

Non so tu amica mia, ma a me la manna mi ha portato alla Bibbia e così mi sono ricordato che nei giorni precedenti all’incontro con Nicolangelo, facendo delle ricerche, mi ero imbattuto in una frase del Deuteronomio, il quinto libro di Mosè sia della Torah ebraica che della Bibbia cristiana. Ho ricercato la frase che avevo letto, e prima di trovarla mi sono imbattuto in quest’altra di Ramón Gómez de la Serna, scrittore, saggista e giornalista spagnolo: “L’ulivo è lo specchio dell’alba”. Al quinto – sesto tentativo ho ritrovato pure quella di Mosè: “Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai indietro a ripassare i rami: saranno per il forestiero, per l’orfano e per la vedova”. La frase mi aveva colpito perché sta nel solco della relazione tra ciò che prendi e ciò che lasci, in una molteplicità di contesti. Forse una persona normale non lo avrebbe fatto, ma io come sai non sono tanto normale, e così ho chiesto al mio amico un commento.

“Secondo me l’ulivo è lo specchio dell’alba racchiude probabilmente lo stato d’animo dell’autore che vede in questo una rinascita, un nuovo essere, credo stia molto su questo.
Invece la frase tratta dal Deuteronomio esprime un fortissimo concetto di comunità. Un concetto di comunità che invita a pensare agli ultimi, a non essere egoisti, alla condivisione di un bene, in questo senso al forestiero, all’orfano e alla vedova anche il tordo.
In questa condivisione del bene torvo la bellezza di una comunità, perché se si è soli a percepire il tutto, poi si resta soli in tutto, mentre se si è in compagnia a percepire l’intero si è più forti. In questo senso per me la comunità è la capacità di condividere delle cose, a partire dal mangiare insieme. Il condividere è per noi la cosa più importante in assoluto, è il primo atto di comunità, il primo atto dello stare insieme. E così come siamo capaci di condividere il cibo, cioè qualcosa di cui non possiamo fare a meno, possiamo anche essere capaci di condividere emozioni, sacrifici, bellezza, perché così creiamo valore. Valore affettivo, valore economico, valore di socializzazione. Nel rinchiudersi in se stessi e nei propri egoismi distruggiamo anche qualcosa di nostro, perdiamo qualcosa di importante, perché la comunità ci appartiene.”

Perdonami ma qui ho sentito la necessità di un post scriptum cara Irene, perché Nicolangelo mi aveva fatto tornare in mente questo passo del “Trattato sulla natura umana” di David Hume: “Non possiamo mai formulare un desiderio che non abbia un riferimento alla società. Una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere. Qualsiasi piacere languisce se non è goduto in compagnia, e qualsiasi dolore diventa più crudele e intollerabile. Qualunque sia la passione che ci muove, orgoglio, ambizione, avarizia, brama di sapere, desiderio di vendetta o concupiscenza, di tutte la simpatia è l’anima o il principio animatore. Se anche tutte le forze e gli elementi della natura pattuissero di servire un solo uomo e di obbedirgli; se anche il sole sorgesse e tramontasse al suo comando; se anche il mare e i fiumi scorressero a suo piacimento, e la terra producesse spontaneamente tutto quanto gli fosse utile o gradito, egli sarebbe pur sempre un infelice finché non gli si desse almeno un’altra persona con cui condividere la propria felicità e di cui godere la stima e l’amicizia”.
Dopo di che da Hume sono passato da un lato al castigo della solitudine involontaria così come lo ha raccontato da Salvatore Veca e dall’altro a L’arte di amare di Erich Fromm e all’idea che “Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente.”
Il passo successivo è stato chiedere a Nicolangelo in che senso e perché ama dire che “fare olio è un atto di egoismo”, un egoismo che però fa bene a lui, che fa bene alla bellezza, che fa bene oll’olio che fa, che fa bene a quello che trasmette ai ragazzi con cui lavora. Quale egoismo è questo egoismo di cui parla?

“Io devo raggiungere l’obiettivo. Perché se raggiungo l’obiettivo, se creo valore, posso ridistribuire il valore su tutta quanta la filiera e mi posso nutrire di questo valore. Se nel mio lavoro pensassi alle mille sollecitazioni che mi vengono dall’esterno mi distrarrei e non creerei valore.
L’atto di egoismo, ne abbiamo parlato anche prima, è quello di pensare unicamente all’olio, così come deve essere, bello e quindi buono. Se il mio obiettivo è raggiunto e quindi ho soddisfatto quell’atto egoistico ho la capacità di creare valore e di ridistribuirlo, di rafforzare la comunità e di rafforzare tutte le persone che, a vario titolo, sono intervenute in quel processo di valore. Se invece non faccio quest’atto di egoismo, e dico per esempio ‘va bene, questa cosa la possiamo trascurare, quest’altra lasciamola stare’, non mi vado a nutrire di questo processo, mi viene meno la fame e mi viene meno la voglia di compiere un atto anche estetico. 
Perché viene meno? Perché capisco che quello che sto facendo non è sinonimo di bellezza, e quindi lo faccio, ma non mi nutre appieno, non resto appagato. Invece quando porto avanti un processo a regola d’arte, un’arte che non è statica, che va sempre scoperta, riscoperta, rinnovata, arricchita, mi appago di quello che ho fatto e quindi il mio essere è contento per il semplice fatto che ho arricchito me stesso. 
E questo un atto di egoismo? Penso di sì, perché sto bene.
È chiaro che altri si nutrono di questo mio egoismo, ed è bene che sia così. Ma se non ci fosse questo atto di egoismo estremo, quello in cui mi nutro del Kalos Kai Agathos di cui ti ho parlato, se mi accontentassi, magari per compiacere altri, perché arriva l’amico che vuole la lavorazione in un modo, oppure il collega che pensa di aver bisogno di altro, o anche il cliente che ha l’esigenza di molire prima le sue olive, se non pensassi di trasformare quelle olive in modo appagante per me perderei sicuramente io ma insieme a me perderebbero tutti quanti gli altri. Ecco che questo egoismo che mi fa diventare scontroso, che mi fa diventare irascibile, che mi fa diventare persona difficile da trattare è allo stesso tempo la forza che permette a me e al mio frantoio di creare valore e di redistribuirlo.
Forse in un solo frangente non sono stato egoista, quando ho fatto l’esperienza sulla trasformazione delle olive in Brasile. Perché ho potuto farlo? Perché là mi hanno dato un foglio di carta bianca e una penna con cui scrivere, si sono completamente affidati a me, non mi hanno detto “noi facciamo così, noi vogliamo fare questo, noi vogliamo fare quest’altro, noi vorremmo, non possiamo”. Quando ci sono tutte queste barriere io devo diventare cattivo ed egoista, ma lì non le ho trovate, mi sono trovato spiazzato, mi sono chiesto “e ora come faccio?, non posso più essere cattivo, non posso più essere scontroso”; mi rendevo conto che ogni cosa che chiedevo dal punto di vista tecnico mi veniva data, di più, me la davano prima ancora che la chiedessi. E questa cosa mi ha un po’ fatto pensare. Quando le ho lasciate, dopo 15 giorni, queste persone che io non avevo visto se non in un’unica call, mi hanno detto una cosa che mi ha fatto molto pensare: “fin dal primo giorno che sei venuto qua è stato come se ci conoscessimo da sempre”.
Lo ripeto, in Brasile non mi hanno dato la possibilità di essere egoista, e questo, quando sono tornato, mi ha fatto pensare a quanto siamo costretti a lavorare in più qui da noi per raggiungere l’obiettivo, a quanto invece è più facile in quei mondi dove non ci sono barriere.
Voglio confidarti una cosa: quest’anno abbiamo vinto concorsi dappertutto con gli oli che abbiamo prodotto, ma io non ho fatto mai oli così belli come quelli in Brasile. E pensa che quando ci sono andato, l’ho fatto perché oltre a capire e a fare esperienze nuove, mi sono detto “va bene, loro hanno quattro cultivar, ma una, la coratina, la conosco bene, ne molisco in quantità molto importanti, dunque almeno un’olio su quattro lo farò bello, e quindi non li lascerò del tutto delusi. Quello che è successo alla fine penso che lo immagini già, Vincenzo: la coratina è stato l’olio peggiore, un grandissimo olio ma peggiore degli altri tre.
Gli altri tre con cultivar nuove dove non avevamo barriere, non avevamo già delle ancore a cui aggrapparci, dovevamo solo fare l’olio con quelle olive in quel contesto per me completamente nuovo e sono venuti fuori degli oli molto più belli. Te lo ripeto: il fatto di non avere, diciamo così, delle forze contrarie da combattere, mi ha reso e ci ha reso più liberi e più capaci di interpretare meglio la lavorazione. E tutto questo ha rafforzato in me ancora di più l’egoismo, quando sono tornato qui ho capito che dovevo essere ancora più cattivo.
L’esperienza in Brasile mi ha formato molto; non solo io, ma anche chi è venuto con me per collaborare nelle moliture ha capito che il loro approccio libero è un approccio vincente, personalmente ne sono molto convinto. Penso che dobbiamo liberarci da tante barriere che ci frenano e che per quanto riguarda me mi incattiviscono.”

C’È LA PAROLA GIUSTA, USIAMOLA

Secondo me questa volta Nicolangelo si sbaglia amica mia, per me egoismo non è la parola giusta per definire il suo approccio. Io parlerei piuttosto di consapevolezza, conoscenza profonda del processo, mancanza di pregiudizio, adattamento, creatività, completezza, totalità, interpretazione, metodo. Nell’approccio di Nicolangelo con l’olio ritrovo il rapporto di Proust e di Kafka con la scrittura, di Wittgenstein e di Marx con la filosofia, di Beethoven e di Mozart con la musica, di Wolfgang Pauli e di John Nash con la matematica e la fisica, un rapporto estremo. Un rapporto estremo che naturalmente richiede la padronanza di tutte le caratteristiche, e altre ancora, che ho appena ricordato. Perché altrimenti può essere un disastro, come ho detto a Nicolangelo. Per la verità ho fatto anche di più, perché gli ho chiesto che cosa sarebbe successo se i produttori brasiliani gli avessero dato una delega in bianco e lui non fosse stato in grado di gestirla, non avesse avuto le capacità teoriche e pratiche, il sapere e il saper fare, la testa e la mano, per produrre l’olio che ha prodotto? Cosa succede se le osservazioni o le proposte che ti vengono fatte non sono barriere ma sono possibilità?

“Premesso che naturalmente anche io posso sbagliare, ci mancherebbe, per quanto riguarda la tua domanda secondo me il discorso è diverso.
Se ascolti gli altri, frantoiani, produttori, conferitori, persino i frequentatori dei bar, perché dell’olio si parla anche al bar, rischi di perderti tra banalità e pregiudizi, quelle che io chiamo barriere. Se mi ancorassi a quelle barriere mi ritroverei anche io a percorrere una strada nel nulla, quella che ci fa abbandonare l’ulivo, che ci fa abbandonare i campi, che ci fa produrre l’olio sotto costo, quella che ci fa faticare a vacant, a vuoto, come mi ha detto una volta un ragazzino di un paesino del beneventano dove pensavano di essere grandi produttori di olio e lo vendevano a cinque euro al litro.
Io non voglio lavorare a vuoto, io voglio creare un valore. Naturalmente per creare valore devo essere in grado di realizzare le cose che dico, di arrivare al risultato come ti ho detto prima, perché è il fatto che ci arrivo che mi dà la possibilità di esssere quello che sono, come sono.”

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GLI ULIVI DI VAN GOGH

Hai visto i quattro dipinti? Li ho fatto vedere anche a Nicolangelo e gli ho chiesto di commentarli.

“Premetto che il mio è un punto di vista estremamente personale, non sono un critico d’arte e non conosco la storia di questi dipinti, semplicemente li guardo insieme a te e condivido le mie impressioni.
Per iniziare direi che ci trovo molte cose oltre a quelle di cui abbiamo già parlato. Nelle asperità, nel terreno disegnato con delle onde, così come il cielo e gli stessi ulivi, intravvedo la complessità, i tormenti, per certi versi anche la confusione dell’artista, qualcosa che mi fa pensare al suo stato d’animo, al suo modo di essere.
Allo stesso tempo però mi colpisce l’ordine dell’uliveto, che è ben coltivato, a terra non c’è un’erbaccia, gli alberi sono potati, le donne sulla scala che raccolgono le olive  le pongono in un cestino. C’è un ordine, un lavoro, una dedizione, una cura che mi porta a pensare che le olive sono un frutto prezioso e che questo è un momento importante nella vita di queste persone.
Aggiungo per finire che questa cura che colgo in queste opere purtroppo non la vedo quando guardo dalle nostre finestre. Sta qui il rammarico. Nei dipinti è tutto perfettamente coltivato, nella realtà di oggi no, probabilmente perché sono intervenute quelle barriere che non ci hanno fatto crescere ma ci hanno fatto tornare indietro.

L’ASSOCIAZIONE OLEUM

Eccoci giunti così all’Associazione Oleum e a un po’ delle cose che fa. Per la verità amica mia, quando accenno alla sua carica di vicepresidente Nicolangelo arriccia il naso e sottolinea che è soltanto un assaggiatore di oli. Non mi meraviglio, è fatto davvero così, pensa che è riuscito persino a interrompere il giornalista che, nel corso di un’intervista, ricordava che Viride, il suo olio biologico monocultivar coratina è stato premiato come primo olio biologico al mondo, per precisare che il suo olio sta nei primi 10 e che se gli stessi giudici avessero assaggiato gli oli in gara una settimana dopo magari il risultato sarebbe stato diverso. Un altro si sarebbe smontato, io no, e così gli gli ho chiesto di dirci un po’ di più sugli scopi e il lavoro dell’associazione.

“Oleum questo mese ha compiuto 30 anni, è la prima associazione campana di assaggiatori.
Tieni presente che il mondo dell’assaggio dell’olio per la classificazione merceologica nasce nel 1991, quando viene pubblicato il regolamento comunitario sulla classificazione merceologica dove si stabilisce che questa attività va fatta da un gruppo di assaggiatori professionisti addestrati e guidati da un capo panel che è la persona più esperta e con più competenze nella gestione del gruppo.
Le competenze sono certificate, siamo iscritti a un albo professionale. Facciamo formazione, poi l’esame e poi entriamo nell’albo, dopo di che solo una parte di noi entra a far parte dei panel professionali che vengono riconosciuti dal ministero dopo che ne sono state valutate le competenze.
In buona sostanza decretiamo la categoria commerciale di un prodotto, attraverso l’analisi organolettica diciamo se un determinato tipo di olio è extravergine, vergine o non commestibile, tutti gli oli che vanno in commercio sono soggetti a questa regola.
Per quanto riguarda la nostra associazione, quando siamo entrati noi l’abbiamo per così dire aggiornata. Prima si facevano solo classificazione merceologica e formazione di nuovi assaggiatori, invece per noi gli assaggiatori non servono solo per la classificazione merceologica o per andare a fare le pulci al giovane cameriere che lavora al ristorante, ma servono, devono servire, per migliorare la filiera.
L’idea è che l’assaggiatore deve diventare l’esperto che riesce a capire, attraverso l’olio, quali errori sono stati fatti in produzione e correggerli, deve essere insomma al servizio dei frantoiani, dei produttori, per migliorare la produzione. In pratica più che agli interventi ex post, quando quello che è fatto è fatto, l’olio viene declassato e il produttore subisce una perdita economica, pensiamo a quelli ex ante che permettono di intervenire durante il processo di produzione per migliorare la qualità del prodotto finale . Così facendo ci si mette al servizio di chi lavora, si crea valore e si crea una figura professionale nuova rivolta in maniera particolare ai giovani che vogliono approcciarsi in modo nuovo alla nostra filiera produttiva.”

TRE OLI DIVERSAMENTE BELLI

Cara Irene ci avviamo piano piano verso la conclusione. Non ti ho detto ancora che Nicolangelo mi ha portato in dono tre piccole e preziose bottiglie di olio, che naturalmente gli ho chiesto di raccontare.

“Sono tre oli diversamente belli. Uno è mio, un DOP del Cilento, uno viene dal Brasile e uno è di origine pugliese. Rispondono tutti e tre all’archetipo del bello e del buono.
Sono diversamente belli perché provenienti da cultivar diverse, hanno dei profili aromatici diversi uno dall’altro ma tutti e tre arricchischino i nostri piatti di bellezza e quindi di bontà.
Quello mio è Algoritmo 2023 e te lo racconto tra poco insiem agli altri miei oli.
Quello che viene dal Brasile è un’arbosana, una cultivar di origine spagnola impiantata in Brasile, è il più selvaggio dei 4 oli brasiliani di cui ti ho parlato. L’ho portato proprio per il suo carattere, nettamente diverso da tuti gli altri, con queste note di erbe molto aromatiche ma selvatiche, crude, anche spigolose, insomma un olio molto bello ma anche per me un olio nuovo, che in un certo senso mi ha messo in difficoltà. Ricordo che ho quasi costretto l’agronomo brasiliano con cui ho interagito ad accompagnarmi nei campi alla ricerca delle erbe autoctone, spontanee, che potessero ricordare i sentori così selvaggi, belli, freschi, anche potenti, di quell’olio.
In un campo abbiamo trovato un’erba spontanea, desmodium, che davvero si avvicinava molto; ancora una volta la ricerca, la voglia di capire, il non avere barriere si è rilevato fondamentale.
L’azienda brasiliana si chiama Sabià, che è un nome a mio avviso bellissimo perché è quello di un uccello dal canto saudente, ricco di bellezza, che allieta le giornate. È un uccello simbolico del Brasile, molti scrittori ne hanno scritto.
L’olio della Puglia viene dalle Aziende Agricole Di Martino, Frantoio Schinosa, della dottoressa Maria Francesca Di Martino con suo figlio Paolo.
L’ho scelto perché la Puglia è il cuore produttivo italiano, e in particolare questa azienda rappresenta un mix di tradizione e innovazione in cui mi ritrovo molto.
La tradizione perché ha alle spalle secoli di storia e perché coltiva un olivo autoctono in Puglia, la coratina. Innovazione perché rappresenta un modo fresco, giovane, attuale, di interfacciarsi con il mercato e con il mondo della produzione. È un’azienda dove ci sono tanti giovani che lavorano, e dove c’è un rapporto a mio avviso molto proficuo, positivo, di alta qualità, tra la titolare e il figlio. Per quanto la mamma abbia una mente che, ti assicuro Vincenzo, è davvero giovanissima, il rapporto generazionale tra i due produce una dialettica, un quid, un plusvalore, sempre volto a migliorare la bellezza e la bontà dei loro oli.
Esperienza, competenza, mediazione, radicamento, innovazione, freschezza, immediatezza, interpretazione sono le parole chiave di questo rapporto che conosce anche momenti di conflitto senza però mai smarrire la strada della sintesi. Non ti nascondo che dal confronto con loro, e con la loro dialettica, vengono fuori sollecitazioni, proposte, anche obiettivi, da me non pensati, che non è una cosa che accade tanto spesso. Aggiungo che questa loro dialettica serrata mi ricorda tanto quella che avevo io con mio padre ormai molti lustri fa, e che quando sto con loro mi capita di rivivere quei momenti che allora mi sembravano duri e che oggi mi appaiono bellissimi.

LE CINQUE ETICHETTE PIÙ UNA DEL FRANTOIO MARSICANI

L’ultima domanda spero sia la più prevedibile, però non poteva mancare, si riferisce agli oli prodotti dal frantoio Marsicani.

“L’ etichetta rossa è la nostra DOP Cilento, un’etichetta territoriale che abbiamo chiamato Algotritmo, un insieme ordinato di operazioni che in un dato tempo dà un determinato risultato.
Perché si chiama così? Perché un anno facemmo un olio buonissimo e ci appuntammo tutto il processo di lavorazione. Replicando lo stesso processo, lo stesso algoritmo, l’anno successivo, l’olio non era buono allo stesso modo. Abbiamo imparato così che dato che le annate sono diverse, il clima è diverso (più o meno caldo, più o meno pioggia), i tempi di maturazione sono diversi, ogni anno va interpretato, ogni anno va costruito un nuovo algoritmo. Per questo ogni anno accanto ad algoritmo c’è l’anno della campagna, l’ultimo è stato Algoritmo 2023.

L’etichetta gialla è una monocultivar coratina biologica e si chiama Viride, per la sua forza che deriva dalla cultivar, che è ricca di biofenoli. Una forza tra amaro e piccante importante a cui abbiamo dato questo nome di origine chiaramente latina.

L’etichetta blu è invece un’itrana in purezza (oliva di Gaeta) e si chiama Alter Ego. Si chiama così perché in gioventù con il mio maestro ho prodotto tanto olio da itrana per un produttore di Gaeta. A un certo punto il rapporto con questo produttore si è interrotto e Gaetano mi ha detto che dovevamo produrla noi un’altra itrana e così abbiamo fatto e gli abbiamo dato questo nome.

L’etichetta rosa è un blend molto delicato che trova un mercato importante nell’ambito dei piatti di mare. Si chiama Plusvalore, perché il valore maggiore gli è dato non dall’olio, che naturalmente è ottimo, ma dal fatto che lo facciamo noi.

L’etichetta verde è un olio a tempo, Nuevo, perché è un nuovo extra vergine e quindi, anche se a tempo, anche nel nome deve indicare il fatto di essere fresco e di essere un olio di immediato consumo. In pratica all’inizio della campagna olearia una parte dei clienti vogliono il nuovo olio, e noi finché non abbiamo stabilizzato tutti i lotti di produzione non facciamo uscire etichette classiche perché ancora sono in divenire. Dato che nel frattempo non possiamo non ascoltare le sollecitazioni di questo tipo di clienti, gli diamo questa etichetta che è molto fresca, molto pimpante, finché non usciranno le etichette classiche nel mese di novembre.

L’etichetta più una è anch’essa verde ed è destinata a un ottimo olio extravergine di oliva che potremmo definire base, per clienti che scelgono comunque la qualità pur non avendo un palato troppo esigente.

QUELLO CHE MI RESTA, UNA VANDERA E UNA CITAZIONE

Due ore e mezza come quelle che ho trascorso con Nicolangelo nella mia piccola ma accogliente casa del lavoro ben fatto ti lasciano tante cose amica mia. Questa bella storia è già molto lunga e dunque mi limito ai titoli, anzi no, alle parole: emozione, condivisione, bellezza, entusiasmo, complicità, fatica.

La vandera mi riporta al percorso di realizzazione della Vandera del Frantoio Marsicani a cui, grazie al generoso coinvolgimento di Giuseppe e della sua Jepis Bottega, ho avuto il piacere e il privilegio di partipare. E qui è sufficiente il video girato e montato da della Serata Alpha di presentazione.

 
Infine la citazione è di Ancel Keys: “Esaminando i risultati delle molte indagini condotte sulla popolazione dell’isola di Creta, ho notato che i centenari sono particolarmente frequenti tra i contadini, la cui colazione è spesso costituita soltanto da un bicchiere d’olio d’oliva.” E con questo direi che ho detto tutto.

POST SCRIPTUM
Cara Irene, mi ha scritto Nicolangelo:
“Caro Vincenzo, forse il modo più bello per ringraziarti è parlarti di un nuovo progetto. Accade a Torre Orsaia, 24 ettari di oliveto abbandonato, una struttura di 400 mq con vecchio frantoio, 4 giovanissimi, un segretario comunale in pensione ora giudice tributario, un professore in odontoiatria, una farmacista e un frantoiano costituiscono una società per riattivare la produzione. Pensiamo di dismettere il frantoio e di produrre, oltre all’olio, abiti sartoriali, in maniera tale da coinvolgere anche la comunità.”

Che posso aggiungere amica mia, forse che il racconto di Nicolangelo diventa ogni giorno più bello e più buono. Solo questo.