Il cammino di Colomba Punzo, la maestra preside di Ponticelli

Caro Diario, la Preside Colomba te l’ho già raccontata qui, e se ti ricordi ti ho raccontato anche il suo speech a Repubblica Next, nel caso te ne fossi dimenticato lo trovi qui. Qua e là ho scritto anche che Colomba è co-autrice de Il Coltello e la Rete e che è la protagonista di una delle storie di lavoro, di passione e di rispetto che ho raccontato in Bella Napoli. Ecco, stamattina ho riletto proprio la storia di Colomba in Bella Napoli, dopo di che ho pensato che per capire davvero la Colomba Preside bisogna conoscere la Colomba maestra, perché le tante cose belle che pensa e che fa oggi, cose come, per esempio, il Progetto Metamorfosi, non nascono dal nulla, ma hanno tanta fatica alle spalle, una storia personale e lavorativa che come tutte le storie vere è fatta non solo di vittorie e di soddisfazioni ma anche di sacrifici e di sconfitte, però sempre con la voglia di mettersi in gioco, e un amore profondo per il proprio lavoro e il proprio quartiere. Buona lettura.

cp2

Ho iniziato a lavorare molto giovane, almeno oggi si direbbe così, avevo 20 anni, anche se al tempo a 20 anni eravamo in molti a lavorare. Adesso che ci penso a 20 anni esatti ho iniziato a lavorare in un posto pubblico, ma in realtà avevo iniziato prima, perché sono la prima di quattro figli e sentivo molto il bisogno di conquistare la mia autonomia. E poiché sono prima figlia l’autonomia non la potevo conquistare con le rivoluzioni, per me doveva passare necessariamente attraverso l’indipendenza economica, e dunque il mio approccio è stato sempre molto razionale, mi ricordo che appena diplomata, istituto magistrale, avevo 18 anni, mi dissi: “io adesso debbo lavorare, vado a fare pure la bidella, ma debbo lavorare”.

Non potrò mai dimenticare mia zia che mi disse: “ma come?, tu ti sei diplomata per fare la maestra e mo’ vuoi fare la bidella?” Le risposi “non è che voglio fare la bidella, voglio fare qualsiasi cosa pur di lavorare”. È così che prima di vincere il concorso ho lavorato due anni in una scuola paritaria dove c’erano i ragazzi dei carcerati, i ragazzi dei tossico-dipendenti, una scuola di frontiera, dalla mattina alle otto fino alle quattro del pomeriggio per pochi soldi, quattro istituti diversi, la mattina non sapevo mai in quale parte di Napoli dovevo andare, il tutto a 18 anni.

Spesso tornavo a casa piangendo, perché quei ragazzi di 12-13 anni avevano alle spalle un vissuto molto diverso dal mio e il mio rapporto con loro era difficile, però quei due anni sono stati davvero molto formativi per me. Mia madre mi pregava di non andare a lavorare, mi diceva “ma perché vuoi lavorare per forza?”, tra l’altro aveva anche bisogno di me in casa perché avevo un fratello di pochi anni, ma io niente.

Tenete presente che oggi siamo più abituati a vedere il disagio, oggi si parla molto di ragazzi dell’area del disagio, ci sono progetti dedicati, ma 27 anni fa questa cultura non era così diffusa. Esisteva naturalmente il disagio ma non c’era la cultura dell’attenzione, se ne occupavano quasi solo le suore in queste scuole paritarie, pochi di questi alunni venivano dalle scuole pubbliche, più che scuole erano insomma dei veri e propri ghetti. Insomma io, minuta, con le mie idee e i miei 18 anni, mi sono fatta questo tirocinio e contemporaneamente mi sono preparata per il concorso magistrale, che ho vinto immediatamente.

Ricordo che quando andai a fare la prova orale tutti mi dicevano “mamma mia, speriamo che non vado con quella commissione”, che era questa famosa commissione difficile dove in molti erano caduti, io sono capitata proprio con quella, però è andata bene, ho preso il massimo dei voti. L’altra cosa che mi ricordo mi dicevano tutti è “ma nessuno ti ha raccomandato, nessuno ti ha presentato?”, il fatto è che a me sembrava talmente impossibile che potessi diventare insegnante che non mi ero proprio posta il problema della raccomandazione e infatti un paio di mesi dopo scoprii in ritardo di aver vinto il concorso, era una cosa che avevo tolto completamente dalla mia mente, mi ero preparata al meglio perchè sono fatta così non perchè pensassi davvero di vincere, tant’è vero che quando andai a vedere le graduatorie e mi accorsi di essere arrivata tra i primi 300, di aver avuto quindi un punteggio molto alto, anche grazie al voto del diploma, praticamente i primi vincitori erano già andati tutti a scegliere le sedi. Mi accorsi insomma di dover andare a scegliere la sede parecchi giorni dopo che erano usciti i calendari e quando finalmente mi presentai ero convinta di voler scegliere una scuola del Vomero, di non voler stare più a Ponticelli, di voler andare a insegnare al Vomero, tenevo una mia zia che ambiva molto a questa cosa, me lo aveva ripetuto fino alla noia “scegliti una scuola del Vomero, scegliti una scuola del Vomero”. Tra l’altro avevo avuto anche la fortuna che praticamente mi avevano riservato proprio una scuola del Vomero, perché io abitavo a via Luigi Volpicelli e pare che nella zona del Vomero ci sia una via Volpicelli o Volpicella e avevano pensato che io fossi del Vomero e quindi mi avevano conservato una sede, perché avevo diritto a scegliere qualche giorno prima e loro non vedendomi arrivare mi avevano comunque conservato una sede del Vomero. E invece io cosa mi invento, con una decisione che ha segnato sicuramente la mia vita? Scelgo Ponticelli. Voi dite perché? Perché arrivata sul traguardo pensai che tenevo un fratello di tre anni, che dovevo dare una mano a mia mamma, che non me ne potevo andare tutte le mattine al Vomero, che era meglio se me ne andavo a insegnare vicino casa mia, ci arrivavo a piedi, in una sede che era rimasta libera perché non era ambita, in un quartiere che non era ambito, quello che all’epoca era il 57° circolo didattico e poi è diventato 70°.

Arrivò il mio primo giorno di scuola, mi presentai determinata a prendere una prima. Il preside del tempo mi disse che mi voleva dare una quinta, io gli dissi “no preside, non voglio una quinta, voglio iniziare da una prima classe”. Mi disse: “signora, ma perché?, si prenda la quinta, lei è alla sua prima esperienza, è giovane”. “Signora”, io ero una ragazzina, non avevo ancora compiuto 20 anni, compio gli anni il 19 settembre e avevo preso servizio il primo del mese. Comunque se il preside era determinato io lo ero più di lui, volli e ottenni la prima classe, soltanto dopo ho potuto rendermi conto che lui ci teneva a lasciare quella classe ad alcune colleghe che passavano dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, cosicché a me fu data la I F, l’ultima sezione, quella che per tradizione è la sezione di risulta.

La morale della storia è che iniziai con 15 alunni con grandissime difficoltà, maestra unica, a 24 ore settimanali, dalle 8.30 alla 12.30, 4 ore al giorno per 6 giorni alla settimana. I miei nuovi alunni non si discostavano molto da quelli che avevo già incontrato nella scuola paritaria e quindi non mi spaventai per questo, in più non mi sembrava vero lavorare in classe solo 24 ore a settimana. Mi ricordo che dopo il primo mese di scuola mi dissi compiaciuta “che bello, qui mi pagano pure per fare questo”, voglio dire che, nonostante tutte le difficoltà che avevo, il confronto con quelle a cui ero abituata faceva sì che ciò che facevo “adesso” non mi sembrasse neanche un lavoro.

Io vengo da una famiglia molto semplice, mio padre era fruttivendolo e noi l’aiutavamo, con tutto quello che significava in termini di orari e di fatica fisica, e poi aiutavamo mia mamma, insomma ci siamo sempre aiutati tutti l’uno con l’altro. Perciò per me fare un lavoro intellettuale e non manuale, per così poche ore al giorno, vicino casa, era una cosa che non mi sembrava neanche un lavoro, ma non lo dico in senso negativo, al contrario, perché ho sempre avuto un rispetto enorme per il mio lavoro, perché per me è stata una conquista esagerata, veramente una cosa incredibile, nel senso che pensavo “faccio una cosa che mi piace, non mi affatica per niente e mi pagano pure per farlo”, ma allo stesso tempo non ho mai avuto la presunzione di dire “mi spetta”, mi sono sempre detta “mamma mia, sono stata fortunata”, ho sempre avuto questa grossa carica, una motivazione che mi ha accompagnata negli anni, ancora adesso che ho 27 anni di servizio, e sono certamente un po’ più stanca, ho un po’ meno entusiasmo, però mi è rimasta molto questa cosa fortissima del rispetto per il lavoro, che naturalmente oltre alla scuola era anche quello che facevo a casa perché continuavo a dare un aiuto a mamma, anche perché questo fatto di essere la prima figlia ho continuato a portarmelo dietro, nonostante la sua pesantezza.

A pensarci oggi il fatto di aver iniziato così presto a lavorare da una parte è stata una fortuna, dall’altra parte una sfortuna, perché dovendo lavorare e continuando a dare una mano in casa non avevo più tempo per studiare, che sarebbe stata l’altra cosa che mi avrebbe fatto piacere fare e che invece ho messo da parte, perché nel momento in cui ho scelto di lavorare ho fatto nella sostanza una scelta tra lo studio e il lavoro a favore del lavoro, perché come vi ho detto per me il lavoro era l’indipendenza, esigenza che ho sempre sentito molto, non che i miei me lo facessero pesare più di tanto, però neanche ci davano i soldi in tasca molto facilmente, quindi per me è stato prioritario, no avere i soldi, avere l’indipendenza.
In pratica io dal primo stipendio in poi ho messo da parte i soldi per comprarmi una casa, sono 26 anni che tengo sempre un mutuo per comprarmi una casa, comprato, venduto, comprato, convivo con questa cosa. Con il lavoro è iniziata però un’avventura anche culturale, perché ho cominciato a stingere i rapporti con le famose colleghe alle quali il preside aveva voluto conservare la classe, erano tre, provenivano dalla scuola dell’infanzia ed erano passate alla scuola primaria, avevano non solo tanto entusiasmo ma anche tanta capacità oltre che una formazione completamente diversa dalla mia.

Io venivo da una famiglia che aveva fatto fatica a conquistare una posizione, a far studiare i figli, una famiglia molto perbenina, molto sistemata, ricordo che il primo giorno sono andata a scuola con un talleurino grigio con la collanina di perle perché pensavo che così dovessero essere le maestre, ancora oggi quando ci penso mi dico “mamma mia cosa ho combinato”, arrivo là e incontro queste tre vestite modello figlie dei fiori, le gonne lunghe, le camicette colorate e cose di questo tipo. Mi sono detta “mamma mia, e mò come faccio?”, invece ci siamo intese subito, perché nonostante la timidezza e la mia estrazione sociale non ho mai fatto selezione a prescindere, penso che questa sia una buona caratteristica per un’insegnante, cosicché siamo subito entrate in sintonia, nonostante la formazione diversa, anche sul terreno culturale.
Io tutto quello che mi sono fatta l’ho conquistato a prezzo di una grande fatica, è così quando vieni dalla periferia, questo lo sento molto ancora oggi. Dal punto di vista culturale mio padre ci spingeva molto ad andare avanti, la devo molto a mio padre questa voglia di imparare, di fare bene le cose, di farle sistemate, di essere diligente, di fare il proprio dovere, è una cosa che mi sono portata dietro, dentro, da sempre. Però culturalmente ho sempre sentito e continuo a sentire che mi manca qualcosa, non so come dire, forse è anche un mito, ma penso che in città si impara diversamente, si impara anche da altre cose, si impara dal mondo che ti gira intorno, è proprio che tu guardi altre cose e impari in un’altra maniera. La periferia è più faticosa, è come se tu dovessi sempre costruire da zero, almeno io ho avuto sempre questa sensazione.

Come dicevo queste tre amiche mie venivano da una formazione completamente diversa. Una era figlia già di professori, aveva fatto il liceo classico e poi aveva scelto di fare l’insegnante di scuola dell’infanzia perché erano i tempi in cui, io sono entrata nell’83 a scuola, si pensava che attraverso l’educazione si potesse cambiare la società e loro ce l’avevano molto tutte e tre questa cosa, loro venivano dal centro di Napoli, una è poi diventata dirigente scolastico, insomma abbiamo legato e abbiamo iniziato a lavorare assieme, e quello è stato per me l’inizio di un’avventura anche culturale fatta di curiosità, di innovazione, di tentativi di portare in classe qualcosa che valesse la pena, sempre ognuna attraverso il proprio modo di essere e di fare.

Talvolta penso di non essere stata abbastanza coraggiosa, nel senso che a 50 anni ho scoperto di avere avuto delle intuizioni geniali che però non ho portato mai fino in fondo, perché un pò ho paura, principalmente la paura di chi sente che “deve” fare le cose per bene, mentre l’intuizione può portare anche fuori strada, poi anche un po’ la paura di osare e un po’ la sottovalutazione delle proprie possibilità. In genere ho avuto poca fiducia nelle mie intuizioni, ho sempre avuto bisogno di qualcuno che mi spingesse a seguirle e oggi posso dire che queste mie paure mi hanno frenato perché le intuizioni che ho avuto poi sono state portate avanti, realizzate, insomma erano giuste.

Tornando al mio lavoro a scuola, dovete sapere che nei primi 5 anni, nel frattempo mi ero pure sposata, avrò fatto in tutto 15 giorni di assenza. Ricordo che il direttore, oggi giustamente non si potrebbe fare una cosa del genere, faceva la lista degli insegnanti e metteva a fianco di ciascun nome e cognome il numero delle assenze fatta durante l’anno, lo usava come deterrente; ebbene nei primi due anni di scuola non ho fatto mai un’assenza, del resto che mi dovevo assentare a fare, avevo 20 anni, avevo la salute, era un lavoro che mi piaceva, e quindi andavo sempre a scuola. Il dirigente scolastico, che neanche si ricordava di me, quando dopo due anni vide Colomba P., zero assenze, mi chiamò e mi disse: “signora, ma lei non ha fatto neanche un’assenza?” e io gli risposi “preside, e che mi dovevo assentare a fare?”.

Ho fatto questi primi anni come maestra unica, poi si incominciava a parlare del modulo e con queste mie amiche dalle quali ho imparato moltissimo, abbiamo sperimentato i moduli. Quello che posso dire è che di 5 anni in 5 anni il mio lavoro è cambiato sempre, ogni volta, nel senso che ogni volta che ho raggiunto un equilibrio sono andata alla ricerca di qualcosa di nuovo, quindi insegnante unica, sperimentazione dei moduli, nuove tecnologie, adesso didattica della matematica, insomma ogni volta che ho raggiunto un equilibrio l’ho sempre rotto e ricominciato da capo.

Forse almeno in parte anche questo è un indicatore di incertezza, di paura, non lo so, perché ogni volta che ho raggiunto una piccola competenza e potrei spendermela, che potrei raccogliere i risultati di quello che ho fatto, metto punto e ricomincio da capo con un’altra cosa nella quale sono completamente incompetente, sono a zero, come si dice. Sapete quante volte mi sono detta che forse sono masochista, che la sofferenza me la vado a cercare, che avrei potuto e dovuto rasserenarmi un po’? Invece niente. Sta di fatto che le mie tappe fondamentali sono state queste: la sperimentazione del modulo, e poi l’utilizzo delle nuove tecnologie insieme alla Apple, con la candidatura della scuola che è stata allo stesso tempo un’esperienza molto bella e una trappola, perché sono stata assorbita nei ruoli organizzativi e tirata fuori dalla didattica, ho fatto 10 anni di vicariato, quasi di dirigenza, dato che la dirigente del tempo doveva andare in pensione, per cui dall’attività didattica con i ragazzi sono passata man mano, direi sono stata inghiottita, dal lavoro organizzativo, e questo per un periodo lungo della mia vita, quasi 10 anni della mia carriera prima di tornare alla didattica perché sono sempre presa da questa voglia di fare che nel frattempo mi ha portato a iscrivermi all’università e a laurearmi in Scienze dell’educazione.

Ho fatto la scelta di non laurearmi in formazione primaria, di conseguire una laurea in scienze dell’educazione per aprirmi una prospettiva nella formazione, per guardare alla formazione non solo con i bambini ma anche con gli adulti. E niente, mi sono laureata con molto entusiasmo, tutte le cose che faccio le faccio con molto entusiasmo, a parte il sacrificio di studiare con due figli piccoli, ho fatto tutti gli esami in tempo, mi sono scritta all’università a 38 anni e a 42 mi sono laureata, in 4 anni ho fatto 36 esami che mi sono sembrati tutti interessantissimi, sarà perché mi piaceva quello che stavo facendo, mi sembrava utile, mi sembrava che fosse una buona strada.

In fondo a me stessa ho comunque l’ambizione di fare altro, di non rimanere nella scuola solo come insegnante, anche perchè mi accade sempre di più di sentirmi inadeguata, di sentirmi fuori posto, di non essere più in sintonia.

Dopo la laurea mi sono preparata per fare il corso per dirigente scolastico e là è stata una batosta terribile, perché ho studiato tanto, ho investito soldi, energie, fatica, sarà perché forse non ci credevo, insomma ho fatto il concorso e non l’ho superato. Giuro che non è tanto il fatto di non averlo superato ciò che mi ha avvilito, mi ha avvilito molto di più chi l’ha superato! Non voglio essere presuntuosa, ma non esiste che una debba vedersi scavalcata da persone così, vedere un posto (che poi non so neanche se mi piace del tutto ma che rimane l’unica possibilità di carriera che abbiamo) occupato da persone che è evidente che ci sono state messe e capisci anche come ci sono state messe. Basta, non intendo dire altro, si tratta di storie finite sui giornali, sono stata intervistata, ho scritto molto anche sui blog contro questo concorso che è stato un concorso sostanzialmente truccato, o per lo meno non si capisce come sia stato gestito, e comunque è stato gestito in maniera confusa. Mi dispiace molto dirlo ma è stato il primo concorso gestito a livello regionale, non so se per noi è una conquista, perché anche i prossimi saranno regionali e purtroppo in Campania le cose vengono gestite sempre in maniera diversa che nelle altre parti di Italia, basti pensare che il concorso è stato rimandato tre volte, da settembre a novembre.

Chiusa la questione concorso decido di ritornare in classe perché nel frattempo, essendo stata assorbita dalla didattica all’organizzazione della scuola, mi sono completamente esaurita, sono stata proprio male e quindi sono tre anni che sono ritornata in classe, anche perché dopo essermi laureata mi sono fatta un corso di perfezionamento e dopo questo corso di perfezionamento mi sono cercata delle altre cose che mi potessero interessare, perchè alla fine la vita prende la strada che deve prendere, certe cose a volte te le scegli, a volte no, insomma succede così, almeno a me.

Praticamente ho trovato per caso in internet questo bando per docenti di scuola primaria e di scuola media per didattica della matematica, sono andata a fare questo master e sono rimasta a collaborare con i professori della Federico II, che poi tiene i corsi di fondamenti della matematica al Suor Orsola Benincasa per formare i docenti, quindi per altre strade sono arrivata comunque a occuparmi di formazione. Tutto questo è per me molto gratificante e interessante, però contemporaneamente sono tornata in classe, ho preso per due anni di seguito una V classe e adesso, dopo parecchi anni, ho una prima elementare, sì, mi sono ripresa di nuovo la prima, da insegnante unica, cosicché adesso insegno tutto un’altra volta da capo.

Se mi permettete vorrei però fare un passo indietro e ritornare all’esperienza con le nuove tecnologie, ne ho solo accennato e invece quella è stata una vicenda importante.

Abbiamo cominciato nel ’97, con il piano di sviluppo delle tecnologie didattiche, come vi dicevo ho la capacità di intuire la strada che stanno prendendo le cose, l’anno prima avevo comprato il computer e mi ero sforzata di impararlo. Sia chiaro, non è che io sia una maga, è che riesco a vedere in che direzione vanno le cose e quindi mi sono ritrovata al momento giusto al posto giusto, quando è venuta la proposta a scuola.

Lo confesso, ho dei rimpianti per quel periodo, che è stato un periodo bellissimo, ci sta ancora il sito della scuola a rappresentarlo, ma diciamo che lo sto con molta fatica lasciando, perché ad un certo punto bisogna tagliare i cordoni ombelicali.

A parte l’esperienza in sé relativa all’utilizzo delle tecnologie didattiche, è stata bella l’esperienza della comunicazione, le persone che giravano intorno alla scuola, il rapporto e l’apertura verso altre realtà, associazioni, enti, ecc.

Io penso di non essere stata capace di gestirla al meglio, che avrei potuto prendere molto di più da quell’esperienza, solo che ognuno tiene le spalle per fare delle cose e altre no, non so come dire: dal punto di vista didattico è stata una grande sfida, una grande rivoluzione, però con tutta onestà ha rappresentato una crescita più per me che per la scuola, per i ragazzi. Forse non c’erano le condizioni o non eravamo pronti, di certo non c’era il contesto e le cose da solo non le puoi fare, forse a 50 anni mi sono resa conto di questo, che le cose da solo non le puoi fare ed io ero sola, troppo sola. Sì, direi che ci sono delle questioni di contesto che sono fondamentali per la riuscita di certi processi, e là il contesto non ci stava, ero diventata una sorta di giacobina, è una situazione nella quale mi ritrovo spesso e non funziona, quando sei un passo avanti in realtà sei sola.

Spero di non sembrare presuntuosa, ma sta accadendo anche adesso, nel contesto della didattica della matematica, per me non è una cosa che è nata all’improvviso, l’ho intuita, ho insegnato matematica quando sono rientrata e ho intuito che le cose potessero essere fatte in maniera diversa anche se non sapevo ancora bene come.

Forse è vero che ci sono delle fasi in cui si aprono nuove strade, nelle quali si aprono dei sentieri, e poi ci sono altre fasi nelle quale le cose si maturano. Posso dire che alcune cose sono maturate adesso, cioè dopo 20 anni, allora non lo erano. Non lo so, forse quell’esperienza è servita, forse se ne coglieranno i frutti, ma io mi sento sempre come una pioniera, una che si deve tirare appresso persone e cose, una che anche giustamente a un certo punto diventa una rompiballe, nonostante il grande affetto, i grandi legami, che ci sono e restano. A un certo punto ti trovi a fare i conti con il vuoto, sta di fatto che penso che la mia storia al 70° sia finita, sono agli sgoccioli, penso che prima o poi me ne dovrò andare, in parte per motivi logistici, perché spero di spostarmi finalmente dalla periferia al centro, in parte perché ci sta il nuovo concorso e spero di superarlo anche se continuo a non sapere se quella è la cosa giusta per me.

Per tornare ai ragazzi, con i quali da tre anni ho ripreso a tempo pieno ma che comunque non avevo mai abbandonato del tutto, qualche tempo fa mi sono chiesta se riuscivo a trovare due o tre cose nelle quali secondo me sono cambiati nel corso di questi 27 anni. Volete sapere cosa mi sono risposta? Che oggi sono sicuramente più preparati come livello culturale di base. Non dimenticherò mai che nella realtà culturale nella quale ho iniziato a lavorare i bambini non conoscevano i colori, in pratica ero io che dovevo insegnare ai bambini i colori in prima elementare. Oggi i bambini che arrivano in prima elementare sanno leggere, sanno scrivere, conoscono i colori, sono bambini che culturalmente hanno un livello decisamente superiore ai loro coetanei dello stesso quartiere di 27 anni fa. Eppure, credetemi, sono meno interessanti, nel senso che sono molto omologati, molto plasmati, molto uguali uno all’altro. Non voglio cadere nella facile denuncia della cattiva maestra televisione, anche se dico che la televisione è uno dei fattori negativi, non l’unico, eppure i ragazzi di 27 anni fa erano più ignoranti ma più unici. Nella sua ignoranza il ragazzo lo individuavi, lo capivi subito che era un ragazzo di periferia, che era il bambino di una periferia disagiata di una grande città, oggi sono tutti uguali, questo bambino che vedi adesso a Ponticelli potrebbe anche essere un bambino del Vomero, potrebbe anche essere un bambino di un altro quartiere napoletano più o meno “bene”, i bambini sono tutti molto simili tra di loro, sono tutti più o meno vestiti alla stessa maniera e hanno, naturalmente stiamo parlando in un certo ambito, più o meno tutti le stesse cose, dicono più o meno tutti le stesse cose, c’è meno differenza, ma l’uguaglianza raggiunta non la trovo sempre un punto d’arrivo positivo.

È un po’ anche la storia della nostra società, dove non siamo riusciti a evitare che una grande conquista sociale come l’alfabetizzazione di massa non diventasse ignoranza di massa, che è un pò lo stato nel quale a mio avviso ci troviamo oggi.

E poi oggi è molto più difficile intervenire in maniera efficace, perché la scuola ha molti meno strumenti per farlo, nel senso che mentre prima la scuola faceva la differenza, cioè il bambino entrava che non sapeva i colori e usciva che sapeva i colori, entrava che non sapeva scrivere e usciva che sapeva scrivere, le cose che abbiamo da insegnare oggi sono molto più complicate e noi insegnanti siamo molto più impreparati. È la storia semplice ma non banale che ci dice che oggi la realtà è molto più complessa, che è molto più difficile insegnare anche se molti miei colleghi, forse perché ancora non se ne sono accorti, continuano a insegnare i colori, continuano a insegnare le parole e i numeri come si faceva prima, non hanno capito che ’e criature il sopra, il sotto, la destra e la sinistra già la distinguono, che non è più questo che va loro insegnato, che sono altre e diverse le competenze, per utilizzare un termine di moda, che dovremmo provare a far sviluppare, non a insegnare, perché le competenze non si possono insegnare, si acquisiscono, si costruiscono, sono mattoncini che ognuno deve mettere uno sopra all’altro. Io penso che noi come classe insegnante siamo mediamente impreparati a fare questo tipo di lavoro.

E poi ci sono i cambiamenti nel rapporto tra insegnante e genitori.
Secondo me è evidente che le famiglie, i genitori, seppure in maniera intuitiva, non esplicita, intuiscono che la scuola è incapace, è inadeguata, però non lo esplicitano nè rivendicano un cambiamento, ma allo stesso tempo non le riconoscono l’autorevolezza di cui avrebbe bisogno, e questo non funziona. Non funziona perché, diciamocelo con chiarezza, quando ci sta un conflitto tra le figure educative a cui fa riferimento un bambino non si lavora bene.

Venti anni fa accadeva più spesso di dover fare i conti con genitori minacciosi, prepotenti, talvolta persino violenti, ma comunque ti riconoscevano il potere della conoscenza che adesso non ti riconoscono più e questo rende il nostro lavoro molto più faticoso. E la cosa più drammatica è che la scuola non ha preso coscienza di questo cambiamento, intendo la scuola nel complesso, perchè poi ci stanno i singoli, le eccezioni, le eccellenze, ma la norma, quello che conta vermente, è questa.

Infine ci sono i rapporti tra la scuola e il quartiere, cambiati in maniera speculare rispetto al rapporto coi genitori, nel senso che la scuola ha rappresentato sempre un’istituzione significativa, una presenza nel quartiere. Non che adesso abbia perso del tutto questo ruolo, ma anche in questo caso sta perdendo specificità, importanza, significato.

Per fare un esempio per il primo giorno di scuola il nuovo dirigente scolastico quest’anno ha voluto gli animatori. Tutto sommato è stata una bella festa, una bella accoglienza, i bambini hanno fatto una bella esperienza però questo fatto che i bambini venissero accolti da due animatori vestiti da pagliaccio che cantavano le canzoni che i bambini cantano d’estate nei villaggi turistici, canzoni tipo “Il coccodrillo come fa”, secondo me dà l’esatta dimensione dell’incapacità della scuola di stabilire un proprio, altro, livello di comunicazione e di cultura.

Ci stiamo omologando pure noi, per cui anche dal punto di vista della presenza della scuola sul territorio finisce che la scuola viene “usata”, ma nel senso meno nobile del termine, cioè non come fondamentale occasione di sviluppo culturale, ma bensì di volta in volta come serve, come intrattenimento, come laboratorio, che poi o fai il laboratorio di scienze o fai il ballo latinoamericano non c’è, o comunque non viene percepita, alcuna differenza. Mi dispiace dirlo, ma purtroppo è così. E mi pare evidente che così non funziona.

pm

* Il racconto di Colomba Punzo è tratto da Bella Napoli, Storie di lavoro, di passione e di rispetto, edito da Ediesse nel 2011.