Il viaggio, il lavoro e la visione di Domenico Romano

Caro Diario, è da tanto che mi dico che devo raccontare il lavoro ben fatto di Domenico Romano, che lui da quella volta che aveva 19 anni e ci siamo ritrovati seduti di fianco sull’autobus della Sita direzione Fisciano di strada ne ha fatto davvero tanta. Ti dico a verità, quando ci siamo rivisti nei corridoi dell’università e gli ho dato la copia di Finzioni che gli avevo promesso lo sapevo già che quel ragazzo lì era speciale, però sapevo anche che il grande Jorge Luis Borges a 19 anni è difficile da buttare giù, ma lui invece no, tre o quattro viaggi dopo lo aveva già bello che digerito, e ne abbiamo parlato, e sono stato molto felice di non essermi sbagliato.
Circa dieci anni fa, il 5 Dicembre del 2009 per la precisione, lo avevo definito “naponico”, un neologismo che avevo ideato al mio ritorno dal Giappone per definire un napoletano che coniuga la creatività partenopea e l’approccio al lavoro nipponico, quando hai voglia e tempo lo puoi leggere qui, però quello che ha combinato dopo alla voce lavoro era difficile da immaginare persino per me.
Come dici amico mio? Cosa ha combinato?
Facciamo così, ti metto solo il suo incarico attuale, Head of Marketing and Communication a AW LAB e i suoi due precedenti, Marketing Director Natuzzi e Marketing Director Original Marines, che tanto se vuoi sapere tutto ma quasi tutto di lui alla voce lavoro puoi andare sul suo profilo Linkedin così fai prima. A proposito, non ti ho detto ancora che tiene 34 anni, che è di Ponticelli e che il suo papà è un carpentiere, che anche quello aiuta a farsi un’idea del personaggio.
Per finire, ti passo il link all’articolo in cui racconta una delle sue ultime pensate e ti dico che un po’ di giorni fa mi ha chiamato per salutarmi e mi ha detto che stava per andare in vacanza gli ho chiesto se aveva voglia di raccontare il suo viaggio e lui mi ha detto di no e però poi ha cambiato idea, le sue ragioni le spiega lui, la mia è che in attesa di raccontare il suo lavoro gli faccio raccontare la sua vacanza, ho come l’impressione che ne valga la pena.

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DIARIO
Day 1 – Suono; Day 2 – Lentamente; Day 3 – Ginocchia;
Day 4 – Libertà; Day 5 – Treno; Day 6 – Leopardo;
Day 7 – Sostenibile ; Day 8-9 – Chef; Day 10 – Strada;
Day 11 – Inconvenienti; Day 12-14 – Colori; Day 15 – Lavoro

Day 1
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Caro Vincenzo, alla fine ho deciso di raccontarti un po’ di questo mio viaggio in Sri Lanka.
Non so bene perché ho accolto il tuo invito caro prof., sarà perché a te proprio non riesco a dire no, o perché l’idea di buttare giù sensazioni e osservazioni di un viaggio come questo, e di poterle ricordare per sempre, mi fa già sentire quel sapore di malinconia che tanto mi piace assaggiare nei pomeriggi d’inverno, o semplicemente perché Giusy, che mi accompagna in questa avventura, ha un libro con sé mentre io il mio l’ho perso. Sarà destino prof., ma mentre lei legge qualcosa dovrò pur fare. Intanto troppe parole, le vedo già strabordare, ma alla fine saranno proprio le parole la chiave per raccontarti questo mio viaggio. Parole. Chiave. Parole chiave. Keywords, come direi se stessi raccontando il mio lavoro agli studenti del tuo corso con la prof. Maria D’Ambrosio.
Direi di cominciare, il mio racconto inizia con la parola Suono.
Giusy e io atterriamo a Colombo e la prima tappa di questo viaggio porta il nome di Negombo, sì Vincenzo, proprio come i famosi bagni termali di Ischia. Se ti dicessi che è per la voglia di scoprirne l’origine etimologica che ho deciso di partire da qui mi crederesti sarebbe esagerato ma è per la voglia di scoprirne l’origine etimologica che ho deciso di partire da qui.
La cittadina è contornata di canali e divisa in tre aree principali: spiaggia, centro città e area del tempio buddista.
La spiaggia è il luogo scelto per pernottare: un albergo vista oceano con una staccionata che divide la spiaggia pubblica dal nostro giardino con piscina.
Suoni di risate, di onde che si infrangono e di bambini che corrono.
Lo sai prof., non mi sono mai piaciuti i muri, ancora di meno quelli che in nome della sicurezza limitano l’accesso alla libertà del mare. Decidiamo di evadere quasi subito, e con la bella ingenuità dei viaggiatori che amano perdersi, ci incamminiamo verso il mercato del pesce, luogo che la nostra preziosa guida descrive come colorato e ricco di folklore.
Di solito quando cammino in un posto nuovo, guardo sempre tre cose: il numero di turisti presente, gli sguardi delle persone locali e le insegne dei ristoranti. Mi piace quando il numero dei primi è discreto, quando le persone locali mi guardano con disinteresse, non come un bancomat, quando i bambini mi sorridono, come se fossero davvero contenti di ricevere le mie attenzioni, quando le insegne dei ristoranti sono senza translights, prima che ti arrabbi ti dico senza foto retro illuminate con menu a prezzo fisso. Ecco, quando queste tre cose si realizzano contemporaneamente mi sento in vacanza, altrimenti comincio nell’ordine a tenere la mia compagna a vista, a mettere in sicurezza il portafogli e ad accelerare il passo.
A Negombo due condizioni su tre si sono realizzate, ma quella strada verso il porto si è comunque trasformata in qualcosa di diverso dal tè sul pontile che avevamo in testa. La cittadina è senza marciapiedi, nel senso che sono occupati da botteghe arrangiate alla meglio, e di fatto la scarsità di passaggi pedonali rende le passeggiate praticamente inesistenti, le strade sono battute soltanto da tuc tuc – ape car con posto passeggero utilizzato come servizio taxi – moto e auto senza marmitta catalitica. Il rumore è assordante e i corvi che tingono di nero i bordi strada e i cavi elettrici rigorosamente scoperti gracchiano come per avvertire che ci sono anche loro.
Te l’ho detto Vincenzo, due su tre, perciò non ci lasciamo intimidire, anche perché i sorrisi delle persone sono molto rassicuranti e così arriviamo al porto. Lo troviamo chiuso. Peccato. Del resto un mercato aperto di sera non si è mai visto, se non nei non-luoghi per turisti. E Negombo sicuramente non lo è. Quindi il tè sarà per la prossima, intanto ci teniamo la puzza dei banchi del pesce vuoti.
Ritorniamo in hotel a bordo di un tuc tuc. Guardo Giusy negli occhi e non ho il coraggio di chiederle quello che pensa, capisco però che è a suo agio, che ha paura che non lo sia io, in fondo è il nostro primo viaggio assieme, servirà anche a “impararci” a vicenda.
Andiamo a letto dopo una cena a base di aragosta e gamberi consumata in un piccolo locale a due passi dall’hotel. Da bere succo di mango e come companatico del riso alle verdure. Nella radio cover di successi pop americani, devo ricordarmi di aggiungere questa cosa alla mia lista, magari accanto alle translights. Costo per due persone: 20 euro. Commento: delizioso. Mentre torniamo, per strada ci fa compagnia un karaoke bolliwoodiano. India e mare. Arriviamo a letto dopo 15 ore di volo, la testa piena di suoni e gli occhi pieni di passione, ma questo non te lo racconto, ti riscrivo domani.
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Day 2
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Caro Vincenzo, la keyword del secondo giorno è Lentamente.
Oggi il nostro itinerario prevede l’arrivo in Dambulla, cittadina al centro dell’isola e anima viva del buddismo srilankese. Il piano prevede l’incontro col nostro driver in hotel e la partenza verso le cinque grotte di Dambulla, sedi di uno dei due templi più importanti di tutto lo Sri Lanka.
Il driver è un signore sulla 60ina, capelli bianchi corti, altezza 160 cm, pantaloni marroni large fit e una camicia a mezze maniche bianca, di nome Premalal ma ben presto diventa Luigi. 
Sì prof., sono pur sempre nato a Ponticelli dove come sai lo storpio dei nomi è pratica comune, ma ora tu ti stai chiedendo, come del resto farei io al posto tuo, come si fa a passare da Premalal a Luigi. Te lo racconto in due battute.
Io: Ciao, come ti chiami ?
Lui: Premalal, Mr Romano, ma può chiamarmi Lal.
Vincenzo, da Lal a La è stato un attimo, da La a Lu, maschile, un secondo, da Lu a Luì 10, da Luì a Luigi per un napoletano viene automatico e così da quel momento Luigi ci ha accompagnato e abbiamo capito in due giorni parlando con lui qualcosa in più sulla cultura sri lankese, anche se parlare non è proprio il verbo giusto date le difficoltà della lingua.
Per cominciare devi sapere che il viaggio da Negombo a Dambulla dura circa tre ore, tempo che noi avremmo voluto abbreviare il più possibile, perché le porte dei templi chiudono alle 18 e alle 17 le biglietterie e partendo alle 13.40 dall’hotel saremmo stati costretti a spaccare il centesimo di secondo. Parlo al condizionale perché Luigi non é stato solo il nostro driver in questi giorni, ma anche il nostro cronometro.
Partiamo e dopo i primi convenevoli tipo “quanto tempo vi trattenete in Sri Lanka” e “di dove siete”, uniti a qualche disquisizione della serie “ci sono troppi musulmani a Negombo”, perché si, c’è sempre qualcuno più a sud anche senza riferimenti all’equatore, parte il “ditemi quando volete fermarvi”.
Al nostro vada pure, perché vorremmo arrivare per le cinque, nessuna reazione, se non un timido cenno con la testa. Dopo un’ora una nuova richiesta di fermarci e un nostro ulteriore diniego, alle 16.30 arrivo a Dambulla in tempo record. A questo punto un sorriso e il tempo di un tea. Abbiamo capito che gli inviti a fermarci sono anche dei gentili obblighi. Alla fine beviamo 3 tea e io mangio un fishroll, anzi due. Hanno la forma dei nostri crocchè di patate, ed anche la consistenza, ma il contenuto è farina di ceci, verdure e pesce, forse.
Alle 16.50 ripartiamo e arriviamo in meno di tre minuti alla biglietteria. Poche rupie e parte la scalata al tempio. Luigi si premura di guidarci fino all’ingresso, con passo svelto e fare consapevole. Circa 200 scalini con un uomo in camicia di 60 anni a battere il passo senza esitazioni.
Panorami mozzafiato su piantagioni di tea e risaie, nuvole che si infrangono sui monti, così tanto verde da dover trovare delle parole differenti per definirne tutte le sfumature. Ad accoglierci all’ingresso donne vestite di bianco, uomini rasati con tuniche arancioni, statue di Buddha dorate e sorrisi da far asciugare ogni goccia di sudore e rilassare spalle e collo anche ai più ansiosi.
Restiamo per un paio d’ore tra le grotte e guardiamo le prime luci del tramonto prima di farci accompagnare nella guest house dove avremmo trascorso la notte.
Si chiama The Green Lodge, è una piccola casa di legno nel mezzo delle campagna di Dumbulla. È gestita da un ragazzo sulla trentina, con lui un’altro ragazzo più o meno della stessa età e un anziano.
Ci accolgono con una tazza di tea, per noi e per Luigi, che naturalmente gradisce il fatto di essere trattato da ospite. Aggiungo che il suo lavoro di accompagnatore agli occhi di queste persone è visto come un lavoro prestigioso e degno di rispetto, a prescindere dal titolo, e che tutto questo gli regala buone dosi di orgoglio, lo si legge dai suoi occhi.
Stiamo benissimo, per cena ci preparano una teglia al forno con Roti, verdure, pollo e uova. La camera é tenuta bene, molto pulita, dopo cena ci adagiamo su uno dei nanetti in giardino, Giusy legge, io scrivo queste note. Si sente soltanto il suono della campagna e dei campanelli appesi all’atrio, credo per allontanare gli animali selvatici e i pipistrelli. La testa di Giusy è sulle mie spalle spalle da un po’ quando decidiamo di tornare in camera. Lentamente.
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Day 3
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Caro Vincenzo siamo già al terzo giorno, la parola di oggi è Ginocchia.
Ci siamo svegliati di buon mattino, la notte è stata amica, ma il risveglio ancora meglio. A colazione uova fresche, frutta tropicale e un buon caffè. Il piano prevede visita di Sigirya, cittadina medioevale patrimonio dell’Unesco e poi dritti fino a Kandy in tempo per la Perahera, famosa festa popolare di stampo buddhista.
Appuntamento ore 7.00, Luigi era pronto già dalle 6.30 con la sua auto bella lucidata nel parcheggio della guest house, quando si dice fare bene il proprio lavoro. Salutiamo i proprietari della green house e partiamo. 30 minuti di banchi da frutta, strada piena di venditori ambulanti, di mini “cuppetielli” di mango sbucciato, tagliato a strisce, come patatine fritte.
Luigi orgoglioso mi guarda e dice: lo Sri Lanka esporta il mango in tutto il mondo e ti devo dire che a prima vista sembra proprio che questa “mango’s economy” dia da mangiare a tutta la regione. Mi soffermo a guardare più attentamente e mi rendo conto che alle spalle delle bancarelle si estendono ettari sconfinati di mango e di banane, e poi vedo camion che trasportano nei loro vagoni decine di uomini in abiti da lavoro. Immagino che abbiano mani esperte, penso che essere orgogliosi di quello che si esporta è una buona cosa, proteggerla ancora meglio. A proposito, ho dimenticato di che qui nello Sri Lanka, almeno nelle zone visitate fin qui, nonostante siano costruite contro ogni logica di ingegneria civile, per strada non esistono cartacce e sporcizia, se non bucce di frutta.
Ma torniamo a Sigirya e a Luigi che come al solito ci scorta in biglietteria, assicurandosi che non ci blocchino guide turistiche, non so se preoccupato degli imbrogli o semplicemente di tardare sulla tabella di marcia.
Arrivai alla biglietteria troviamo ad aspettarci un ragazzetto di circa 20 anni, ci guarda e dopo aver sottolineato che il pagamento è solo in contanti, mi mostra un cartello, si alza in piedi e comincia a cantare l’inno nazionale dello Sri Lanka. Io e Giusy scopriamo così che nei luoghi pubblici a una certa ora si blocca ogni cosa per lasciare spazio alle sue note.
Prof., ho deciso di non dilungarmi troppo su Sigyria, ogni parola rischia di sminuirla, ti dico solo che abbiamo fatto oltre 300 gradini per superare i magnifici giardini terrazzati e che alle pendici del palazzo reale ci sono due grosse zampe di leone scavate nella pietra e una scalinata di accesso, insomma una roccaforte che appare ancora oggi inespugnabile. La città non è conservata, quindi la visita è ai percorsi che portano alle fondamenta e alla vista mozzafiato su laghi, giardini d’acqua e piantagioni di tea.
Andiamo via dopo circa due ore, destinazione Kandy, dove di fatto comincia la nostra danza sotto la pioggia. Secchi d’acqua sull’altopiano, ma Luigi sembra guidare con tranquillità e sicurezza. Ci porta a destinazione in tempo per pranzo. Saltiamo fuori dall’auto inondati dal monsone, facciamo il check-in e la stanza dell’Oak Heritage ci regala una vista incredibile sul lago di Kandy e sui colori della città. Mi puoi credere Vincenzo, anche bagnati regalano uno spettacolo incredibile.
Sono le 15:00 decidiamo di scendere, lo facciamo di corsa, le strade sono strapiene di gente, è quasi impossibile passeggiare. Per prima cosa andiamo ad acquistare il biglietto per il famoso treno aperto Kandy – Ella, troviamo solo biglietti in prima, oggi credo gli unici acquistabili dai turisti. Ritorniamo per le vie della città e due guardie ci fermano per dei controlli. La Esala Perahera sta per cominciare. Restiamo letteralmente bloccati tra la folla e Giusy ha il lampo di genio, le donne sono sempre più pragmatiche di noi uomini, entrare da Domino’s ed aspettare lì per guardare la sfilata tra le vetrate. Peccato che dopo due ore di attesa ed una pizza bacon, cipolla e pollo, ci facciano uscire, mi sa che la pensata smart non sia solo nostra, ci adagiamo sui gradini e a quel punto elefanti, danze, giocolieri, suoni tribali e canti, tre ore nel corso delle quali ogni tempio si esibisce nelle sue migliori coreografie tradizionali. Centinaia di ragazzi e donne in festa e tanto tanto orgoglio, le luci, lo spettacolo e la festa ci travolgono ma siamo completamente impacchettati tra la folla e le ginocchia scricchiolano per il troppo raggomitolarsi. Perché sì Vincenzo, tre ore sono lunghe anche con tanta pazienza e bellezza, ma quando sei bloccato sei bloccato, non puoi scappare, non c’è stanchezza o pipí che tenga. Sono le 22.30 quando andiamo via con gli occhi carichi di meraviglia, la vescica piena e la ginocchia scricchiolanti. Ah, non ti ho detto che la pioggia ha smesso di battere proprio durante queste cinque ore. Tu chiamala se vuoi serendipity, caso, o forse solo magia di un viaggio.
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Day 4
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Caro prof., con ancora negli occhi i colori della festa di ieri sera, sono a scriverti delle avventure di questo quarto giorno. La parola di oggi è Libertà e l’obiettivo é cercare il dente di Buddha, o meglio quello che ne resta dopo la sfilata di ieri notte, si perché la Esala Perahera non è altro che la processione del dente che si narra sia rimasto intatto da Buddha dopo la sua cremazione. I cattivi dicono che in realtà sia il dente di un bufalo, non confermo né smentisco, mi limito a raccontare di quanto amo il culto buddista e la pace che trapela da quelli che lo perseguono.
Oggi il programma è visita al tempio di Kandy (il luogo più sacro del buddismo in Sri Lanka), palazzo reale e lago di Kandy, ma ti anticipo che i piani cambieranno radicalmente e che il mio impermeabile Patagonia risulterà quanto mai utile.
Partiamo con tutte le buone intenzioni ed arriviamo al tempio, dove Luigi ci lascia. Al check point, al controllo anti-terrorismo, ormai frequentissimi in tutte le grandi città dello Sri Lanka, bloccano Giusy. Aveva gambe coperte e un impermeabile, ma sotto all’impermeabile una canotta. Non è permesso. Torniamo indietro, ne approfittiamo (leggasi approfitta) per fare un po’ di shopping e portare a casa due t-shirt di quelle “I love Sri Lanka”, ma ti giuro più interessanti, almeno perché portavano impressi degli elefanti su un segnale di pericolo, dirai che non è il massimo ma lei ci tiene ed io sono qui con lei e quindi non posso farla incazzare, ma adesso torniamo a noi.
Con le t-shirt ci lasciano entrare e dopo due controlli, le scarpe ed i calzini abbandonati, un acquazzone indescrivibile, entriamo nel tempio: due piani, tre ambienti, quattro controlli dei biglietti ma non mi ha impressionato. Andiamo via un po’ delusi e tanto bagnati.
Decidiamo di sostare in una teeria per capire il da farsi. Il monsone ha reso la città praticamente impraticabile, il lago al centro della stessa è bloccato in ogni punto e camminare sembra impossibile, così con un tea in una mano e la guida nell’altra, apro una pagina a caso e … idea, andiamo a scoprire il mestiere dell’allevatore di elefanti!
A circa 40 minuti di auto da Kandy c’è un orfanotrofio per elefanti, la guida lo descrive come un luogo ambiguo, in cui gli animali da un lato sono salvati, dall’altro sono “addomesticati”.
Saliamo sull’auto dopo una forte negoziazione per risparmiare 5 euro di transfer, in Sri Lanka il primo prezzo nn è mai il definitivo, tranne che negli hotel.
Dopo circa un’ora, accompagnati dal monsone arriviamo in questa specie di fattoria, all’ingresso la prima doccia fredda, ci hanno fregati, gli elefanti sono tutti a Kandy per la festa, insomma quelli che avevamo visto la sera prima erano gli orfanelli di questo posto, qui ci sono solo i tre anziani e Pooja, l’unica nata in cattività, a quanto pare aggressiva e difficilmente addomesticabile, proprio come “una bambina viziata che non ha mai conosciuto i no della vita vera”, ci è stato detto.
Comunque non ci demoralizziamo, magari ci hanno pure mezzo fregato – il tizio del taxi avrebbe potuto dirci che gli elefanti erano a Kandy, il nostro Luigi di certo lo avrebbe fatto, ma insomma quattro erano lì, potevamo accarezzarli, lavarli e sapere com’è il lavoro di “addestratore di elefanti”. Ti dico subito che questa volta le nostre aspettative non sono state tradite.
Acqua battente, fango, forse cacca di elefante mescolata alla fanghiglia, prima la spiegazione di un ragazzetto sulla ventina che dice di essere un volontario, poi il nostro tour, dove dopo le classiche foto di rito e la mia “sciuliata” (scivolata) d’occasione, avvenuta dopo aver avvicinato un elefante ignorando un cartello di divieto, ma poi scappando appena lo stesso bestione dà il primo cenno di fastidio, conosciamo Mamuk, l’addestratore.
Sì Vincenzo, Mamuk, un personaggio da libro delle fiabe. Scuro, alto circa 180 cm, barba lunga – immagina Hagrid di Harry Potter – con in mano uno spuntone e in bocca i comandi per far muovere la “mamma di Pooja”.
La fa passeggiare, lavare al fiume, parlare a comando e ci guarda fieri, lasciandoci avvicinare, con lo sguardo di chi sa che fa qualcosa di unico al mondo. Di certo di unica bellezza e di unico fascino, forse di unica cattiveria, non lo so, é sempre strano vedere da vicino il significato della parola “comando”, in pratica qualcuno che obbliga qualcun altro a far qualcosa che tanti altri giudicheranno efficace, “divertente”, interessante, ma intanto a chi esegue il comando nessuna domanda. Nel mondo degli animali poi non viene fuori neanche il dubbio che possa andare via nel caso non voglia, mentre nel mondo degli uomini se non vuoi ubbidire puoi sempre decidere di non fare, o forse anche no, tu che dici Vincenzo?
Dopo aver conosciuto Pooja, sua madre e i suoi nonni sotto l’incessante pioggia torniamo a Kandy, questa sera la cena è di fronte all’hotel. Vista mozzafiato e sotto di noi danze e fuochi, questa volta dall’alto – la Perahera dura 10 giorni, noi abbiamo goduto degli ultimi due -. Guardo Giusy e lei guarda me mentre beviamo coca-cola, alcool is not allowed. A domani caro prof.
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Day 5
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Caro Vincenzo oggi ci lasciamo Kandy, i suoi colori, i suoi elefanti e la sua pioggia, alle spalle e partiamo per una nuova città: Ella, nel cuore dell’altipiano.
A dirla tutta Ella è entrata nel nostro itinerario perché capolinea di quello che i visitatori dello Sri Lanka raccontano come l’esperienza in treno più emozionante del mondo, il treno aperto Kandy – Ella, dunque non ti sorprenderai se ti dico che la parola di oggi è Treno.
Ci accorgiamo subito che questo qui ha qualcosa di speciale non solo agli occhi dei turisti, ma anche nel cuore di tutti gli abitanti dello Sri Lanka, anche perché muove un importante business turistico – chiaro e non – intorno a sé. Lo capiamo in particolare da due cose: 1. la fierezza negli occhi dei ferrovieri che danno indicazioni ai turisti alla banchina del treno; 2. la strafottenza con cui il bigliettaio ci ha consegnato il ticket di prima classe, ed alla nostra richiesta di andare in seconda o in terza – le classi “a porte aperte” – ci guarda con fare supponente come per dire tu yankee non puoi, quella è solo per gente autentica.
Autenticità è forse la parola che più mi risuona in testa ogni giorno qui in Sri Lanka. In ogni caso saliamo sul treno, 11 vagoni, 2 chiusi con aria condizionata, 3 classi.
La terza classe si presenta simile ad un treno merci, colore rosso e persone appese in ogni dove, quasi soltanto posti in piedi, un po’ come la vecchia vesuviana a Napoli, ma senza pareti, perché quelle lasciano spazio a lamiere separate l’una dall’altra da circa 5 cm.
La seconda classe è chiusa ma con finestrini “apribili” e con sediolini – divanetti simili a quelli di un fast food americano anni 60.
La prima classe, simile a quella di un regionale italiano, è quella con meno personalità, ma sicuramente più confortevole. È abitata soltanto da turisti, sì prof., 100% turisti.
Il viaggio in treno regala uno spettacolo indescrivibile. Foreste, piantagioni di tea, città colorate e soprattutto stazioni piene di fiori e di bambini in festa con gli occhi che esprimevano la stessa energia e la stessa gioia dei nostri guardando il loro meraviglioso paese. Autentico paese.
Accanto a me e Giusy ci sono due bambine olandesi, alla stazione di Haputale il treno si ferma e un altro treno lo accosta, appare un’altra bambina con occhi grandi e i capelli color pece tenuti fermi un fermaglio a forma di farfalla. Guarda le sue coetanee olandesi, loro le sorridono e i suoi occhi le diventano ancora più grandi. Ripartiamo. Nel treno, appaiono ogni tanto minuti strani personaggi, un po’ come nella metropolitana di Napoli, che provano a vendere cibo, souvenir e bibite, ma l’attrazione più bella è il vano di connessione, quello che collega le due carrozze, aperto. Ovviamente Giusy vi ci si fionda in un istante e reggendosi con una sola mano, mette il resto del corpo fuori al treno e si lascia avvolgere di aria nuova.
Vincenzo, se ti stai chiedendo cosa abbia fatto io, la risposta è veloce e poco sexy, prima di dare sfogo al mio spirito ribelle, ci ho messo circa due ore, dopo di che ci ho provato anche io, per poco, ma l’ho fatto.
Il viaggio dura circa 6 ore, perciò per le 13.30 siamo ad Ella, per la precisione in una baita – hotel chiamato Zion view Ella. Prof., mi devi credere, è un paradiso scavato tra le montagne e le piantagioni di tea. Proprio così, Ella è un paradiso naturale, cascate, picchi da scalare, piantagioni di tea e paesaggi mozzafiato.
Il nostro piano prevede scalata del little Adam’s Peek, poi cena e all’indomani visita a una piantagione, naturalmente di tea.
Partiamo subito e cominciamo la scalata, passo dopo passo si libera davanti a noi un paesaggio sempre più irresistibile, ma dopo circa un’ora di cammino la cosa che ci attrae di più é Adam’s jump, lanciati da circa 1000 metri con la corda!
Sì, la discesa in velocità alla Indiana Jones è stata irresistibile, ci facciamo imbracare e saltiamo! Non chiedermi video e foto, perché nonostante abbia noleggiato una go pro, mi sono dimenticati di premere play, quindi nulla di fatto, ma lo sai che puoi credermi sulla parola. Nel furgone per la risalita incontriamo una famiglia francese che ci racconta del suo prossimo spostamento verso la costa Est, l’unica in questo periodo a non essere preda del monsone. In Sri Lanka ce ne sono addirittura due ad Agosto.
Decidiamo di cambiare i nostri piani, andremo ad Arugam Bay a riposare dopodomani! Tornando a noi, la scalata finisce dopo altri circa 300 scalini (in realtà il numero l’ho inventato, ma comunque erano tanti), in alto ad accoglierci una vista mozzafiato e l’immancabile altare di Buddha. Godiamo di questo spettacolo fino al tramonto, poi ci infiliamo nel primo ristorante, rientriamo in hotel e dopo una meritata doccia, ci stendiamo su un’amaca per farci cullare dalla notte.
Sarà una bellissima notte e quindi buona notte anche a te caro prof., a domani.
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Day 6
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Caro Vincenzo, la parola di oggi è Leopardo, più avanti scoprirai perché, intanto sappi che sono proprio felice, abbiamo trascorso una splendida notte, all’ombra della luna piena e risvegliati dal cinguettio degli uccelli e da due scoiattoli che si azzuffavano sul davanzale, siamo pronti per fare colazione: un buon caffè, solito piatto di frutta tropicale e questa volta uova alla Hooper.
Come dici? No, non preoccuparti, non sono uova di cavallette come potrebbe sembrare dalla traduzione dall’inglese, ma una sorta di uovo fritto in camicia, in pratica prima calano il bianco in padella poi aggiungono il tuorlo e lasciano cuocere.
Dopo questa buona colazione attiviamo il nostro piano: rifare i bagagli, trovare un passaggio fino a Tissamhara (città più vicina allo Yala National Park) e visita ad una piantagione di tea verde. Verso le 9.00 ci incamminiamo e troviamo un paio di postazioni taxi/tour operator, ci avviciniamo e chiediamo il prezzo per queste tre ore di viaggio. Ci chiedono 7500 rupie, circa 40 euro. In assoluto non sono troppe ma scendiamo a 5500 giusto per dargli la soddisfazione della negoziazione. Convinti di aver fatto l’affare ci accorgiamo che in realtà ci rifilano il van più cool dell’isola. Copricuscotto a pelo lungo azzurro, statuina del Buddha sul contachilometri e finestrini a manovella anni 70, interni in pelle marrone e via con questo nuovo autista sulla sessantina vestito come un hippie anni 70, dal sorriso pacato e rilassante. Insomma transfer trovato.
L’appuntamento è alle 12.00 in hotel, intanto ci incamminiamo verso la piantagione di tea che a detta del nostro receptionist era a soli 40 minuti di cammino. Peccato che si sia dimenticato di specificare che erano tutti in salita e soprattutto di dirci che la piantagione di tea era chiusa alle visite! Piano saltato, vabbè capita, non è che ci lasciamo scoraggiare, e poi il guardiano della piantagione, forse impietosito dalle nostre facce quando ci ha dato la brutta notizia, ci urla da lontano sorridendo – Nine arch bridge – Nine arch bridge!!!, insomma ci indicava che eravamo vicini al famoso ponte a nove archi. Andiamo alla sua ricerca ma anche in questo caso “vicini” era un eufemismo, impieghiamo almeno altri 20 minuti di cammino per stradine di campagna, con relativi incontri sui generis: Carolina, la vacca a guardia del primo bivio e Raul, un bastardino che sembrava volerci guidare verso l’arco. Lo seguiamo, non so perché, ma ispirava fiducia o forse eravamo troppo stanchi per ragionare, ma questa volta abbiamo ragione, alla nostra sinistra spunta un lungo ponte con degli archi simili agli acquedotti romani che sorreggeva il treno con cui eravamo arrivati il giorno prima. Sembra la copertina di Oriente Express. Foto e a casa ad aspettare il transfer.
Partiamo ed il viaggio risulta piacevole, Srimatha, l’autista, si prodiga nel mostraci le bellezze naturali che incontriamo sul percorso: scimmie, cascate, ma noi avevamo in testa sopratutto lo Yala park ed i suoi leopardi.
Arriviamo verso le 15.00 e presi dalla smania della scoperta ringraziamo Srimantha e chiediamo subito di organizzarci un Jeep Safari allo Yala park. Partiamo alle 15.30 con Ilan, sicuramente il protagonista di questa nostra giornata.
Lui è un uomo sulla quarantina, grosso, con i capelli castani ricci, 12 anni trascorsi nel parco e una voglia incredibile di fare un buon lavoro.
Ci chiede subito a quale animale tenevamo di più e alla risposta leopardo, non si lascia intimorire anche se ci preannuncia che sarà difficile.
Parte l’avventura. A bordo di una jeep la gara è con tutti gli altri visitatori, gli animali vengono spaventati dai rumori, figurarsi dal frastuono di una decina di jeep, quindi Ilan, cercava strade alternative, lascia segni nel parco sputando acqua e lanciando pietre e chiama colleghi sparsi in ogni angolo all’impazzata, sempre con lo scopo di avvistare un leopardo.
Dopo circa 30 minuti di bisonti, pavoni, scimmie, cinghiali ed uccelli coloratissimi, un’ accelerazione improvvisa, curva a “orecchio a terra”, come si dice dove sono nato, e appostamento. Finalmente lo vediamo, veloce come il vento. Restiamo apostati per altri 15 minuti in attesa di un altro suo passaggio, ma “una gioia “ basta.
Proseguiamo il nostro tour in questo posto spettacolare, al tramonto la luce del sole si sposa con la terra rossa e l’azzurro del cielo si accende ancora di più, formando una tavola di colori che vanno dal rosso all’arancio, dall’azzurro all’ocra.
Sapore di terra e profumo di libertà. Torniamo in hotel per le 19.00. Stanchi, ma felicissimi, gli occhi sorridenti di Giusy valgono l’intera vacanza, spero di rivederli ancora così.
La cena ha il sapore di spezie, peperoncino e terra. Sapori a cui ti abitui e che cominci ad amare. A me mancheranno, ne sono sicuro. Buona notte Vincenzo, domani si riparte per un po’ di riposo al mare. Saremo ad Arugam Bay, se Dio o chiunque altro vuole.
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Day 7
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Buongiorno Vincenzo, con l’animo animalista ancora colmo di meraviglia siamo partiti per Arugam Bay. In realtà il nostro viaggio prevedeva, in fase di itinerario, lo spostamento verso Mirissa, città sul mare a Sud dell’isola, ma non ricordo se ti ho scritto che lo Sri Lanka in questo periodo può essere circondato anche da due Monsoni e a quanto pare o uno ci sta seguendo o siamo noi ad andargli incontro. Comunque, per fartela breve, siamo venuti a sapere che Mirissa in questo momento é sotto un monsone grosso “una settimana” quindi abbiamo deciso di girare la testa al cavallo e fare rotta ad Est.
Il cambio di itinerario comporterà qualche ora in più di auto al ritorno verso Colombo, e fin qui va bene, la necessità di rinunciare al potenziale avvistamento delle balene – Mirissa sembra essere il punto migliore per avvistarle – e qui bisogna fare buon vis a cattivo gioco – e il dover competere con i surfisti agli occhi di Giusy, dato che Arugam Bay in questo periodo sembra essere il paradiso dei surfisti di tutto il mondo, e qui che Dio me la mandi buona. 
Comunque non mi lascio spaventare, spero mi scelga per il cervello o la bontà d’animo, più che per le capacità di cavalcare le onde, però adesso non pensare che sto mettendo le mani avanti, perché ci prenderesti di brutto caro prof.
Deciso il cambio di rotta cerchiamo un passaggio, anche se a Tissa gira tutto intorno al parco di Yala e quindi c’è poco spazio per le negoziazioni. Troppi turisti e poca autenticità, siamo quindi costretti ad affidarci all’hotel che ci prenota un furgone per 11 persone con aria condizionata ed autista col pedigree.
Proprio così Vincenzo, l’ autista col pedigree, e sai come me ne sono accorto? L’ho salutato neanche cinque ore fa e già non ricordo il suo nome, perché quelli col pedigree sono cosi, considerano più importante il titolo che il nome, possono essere autisti, manager, dottori, universitari che fanno stage obbligatori, quelli che prima di tutto viene lo stipendio e il posto fisso, a me invece come sai piacciono quelli che si fanno chiamare per nome e non per titolo. Certo, i titoli possono servire a etichettarti, a farlo in fretta in un mondo che corre e non ha tempo, però standardizzano, mentre i nomi sono l’argomentazione, la certificazione di autenticità e unicità, ciò che rendono un direttore marketing o un autista unici, come nel caso di Luigi.
Comunque partiamo e in tre ore siamo ad Arugam Bay, non mi stancherò mai di dirti che la strada è stupenda, abbiamo incontrato nell’ordine tre cinghiali, un attraversamento vacche, due elefanti adulti e un gruppo di turisti locale che teneva un picnic con delle scimmie.
Arriviamo ad Arugam Bay per questi tre giorni di mare e relax, decidiamo di alloggiare al Jetwing Surf Hotel. Voglio raccontarti un po’ di questo posto caro prof., non solo perché ho intenzione di attaccarmici come una cozza al suo scoglio, ma perché è un esempio incredibile di hotel 100% plastic free calato in un paradiso naturale, perché non e l’ho detto ancora ma la parola di oggi è Sostenibile.
Il nostro alloggio è una capanna costruita con foglie di palme di cocco, legno e bambù, super confortevole. Vengono utilizzati legni speciali per allontanare gli insetti senza utilizzo di insetticidi o sostanze nocive all’ambiente. L’acqua e le bevande sono servite solo in vetro, le cannucce solo in carta di bambù, le docce scaldate con cisterne di legno esposte al sole e ogni elemento rende scoiattoli, corvi, farfalle e fauna marina perfettamente integrata con l’uomo. Posto stupendo e con un servizio impeccabile, se non lo conosci lo devi segnalare al tuo amico Carniani, quando ho letto il suo diario dalla Cornell University mi sono fatto l’idea di un uomo molto innamorato del suo lavoro.
Perdonami se non condisco questa giornata con altri elementi. A dirla tutta, ho trascorso tutto il pomeriggio tra lettino, spiaggia, ristorante, lettino. Sarà noioso per i nostri lettori, ma io ne avevo tanto bisogno. Buona serata Vincenzo. Spero tu stia bene e che a #Cip la vita prosegua nel modo in cui tu desideri.
dr18a

Day 8-9
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Caro Prof. lo so, non mi sono fatto sentire per un giorno intero, ma ho letteralmente perso la cognizione del tempo.
Siamo qui ad Arugam Bay a farci coccolare dalle persone di questo posto e a fare la spola tra lettino, mare e ristorante.
Ieri c’è stato anche un fortissimo temporale, che praticamente ci ha segregati in casa. Ne abbiamo approfittato per parlare dei giorni vissuti fino ad adesso, del futuro e per vedere un film su Netflix, come schermo un iPad mini e come titolo “The boy who harnessed the wind”.
Un film di quelli col lieto fine, che ti danno speranza e ti stringono il cuore. Un racconto basato sugli scontri generazionali tra padre e figlio e la fotografia di una società centroafricana, così lontana, ma dai contorni molto vicini alla nostra, solo più semplici e definiti.
Eh si prof., ogni volta che le cose prendono sembianze definite e dai contorni “certi” nascondono sempre grandi problemi. Molto meglio le sfumature, chi si pone domande e cerca argomentazioni nelle risposte.
Tornando a noi, credo valga la pena raccontarti di una splendida persona incontrata in questo posto, Sirghit, uno chef sulla quarantina che dice di aver trascorso qui gli ultimi tre anni. Proprio così, vorrei parlarti dello chef di questo posto – Chef è la parola di questi due giorni – lui è proprio uno di quelli che tu ameresti, uno di quelli che starebbe benissimo in uno dei tuoi racconti sul #lavorobenfatto.
Pensa che fin dalla prima sera si è premurato di scambiare qualche parola con ognuno dei suoi commensali, all’inizio pensavo facesse parte dell’etichetta, delle regole di questo posto, ma mi sono ricreduto quando ha cominciato a chiedere delle nostre vite e di come era l’Italia.
Forse il verbo chiedere non è proprio il più adatto, Sirghit ha chiare difficoltà di espressione in inglese e il tono della sua voce, molto pacato, tipico di quasi tutte le persone incontrate durante questo cammino, non ha aiutato la nostra comprensione. In compenso il suo sguardo rilassato e la sua gestualità parlava più forte di mille discorsi in pubblica piazza. A un certo punto ci ha fatto capire che ama ascoltare i racconti dei suoi ospiti, perché ha poche opportunità di andare fuori dallo Sri Lanka e molto di quello che ha imparato lo doveva alle domande poste a persone come noi. Per lui, avere due italiani alla sua tavola, era come ospitare la pietra filosofale della buona cucina e così ha cominciato a omaggiarci di alcune delle sue ricette e a chiedere i nostri pareri. Dopo ogni portata.
Oggi è stato il secondo giorno che abbiamo parlato con lui e ha deciso che era giunto il momento della prova del nove, ha preparato il risotto ai frutti di mare e frutta tropicale. Ce lo ha raccontato personalmente, dopo che un cameriere ce lo ha servito con un calice di Cabernet australiano – in pratica del succo d’uva – e gli occhi gli si sono illuminati. Ci ha raccontato di Giovanna e Paolo, due ospiti italiani a cui doveva gli smussamenti ai piccanti. Ci ha raccontato di Sebastiano e Chiara dai quali ha appreso che l’ananas è meglio non cuocerlo con il resto degli ingredienti. Ci ha raccontato persino di noi che con i nostri complimenti abbiamo alimentato la sua passione.
Vincenzo mi puoi credere, il suo cibo ha il sapore del mare, dello Sri Lanka e un po’ di tutti i racconti che portano i nomi degli ospiti passati al Jetwing. Sapendo che l’indomani dobbiamo ripartire ci da appuntamento con un sorriso a trentasei denti per colazione e ci chiede se può omaggiarci di una doggybag. Ovviamente accettiamo. Prima di tornare in camera ci intratteniamo sulla spiaggia, passano accanto a noi una famiglia composta da un uomo, una donna e due bambini. Lei indossa un burka nero, ora si spiega la cantilena delle 5 del mattino, sarà stata una preghiera. Scopriamo che il villaggio nel quale sorge il resort è a prevalenza mussulmana. Proviamo a guardare le stelle ma una grande nuvola copre quello spettacolo, come ad intimarci di tornare in camera. Nell’aria solo il suono della notte. A domani prof. È arrivato il momento di spostarci a Colombo, la capitale.
dr20a

Day 10
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Caro prof. si riparte, la parola di oggi è Strada.
Ci lasciamo alle spalle Arugam Bay, le sue albe e i suoi surfisti, per raggiungere Colombo, la capitale, ultima tappa di questo viaggio in Sri Lanka. Siamo leggermente in difficoltà, perché per la prima volta ci siamo affidati a internet per trovare un mezzo di trasporto in grado di raggiungere la meta. Mi spiego meglio: purtroppo la linea ferroviaria del paese, seppur molto affascinante dal punto di vista paesaggistico, è ancora poco sviluppata. Da Arugam Bay non esistono stazioni ferroviarie, la prima sulla costa Est é a Batticaloa, a due ore di auto da Arugam Bay e non collega direttamente la città con Colombo. Insomma l’unico mezzo di trasporto possibile sembra essere l’auto. Sulla costa est però non abbiamo nessun contatto capace di organizzare uno spostamento di 8 ore. On line scopriamo invece che esiste un sito in cui i viaggiatori possono pubblicare un annuncio e dei “tour operator” rispondono con rispettive quotazioni e servizi. Le risposte sono accompagnate da link a review sui servizi già erogati, una specie di bla bla car, ma su forum, come ai vecchi tempi. Ci sembra abbastanza affidabile, o meglio ci sembra l’unica opportunità, quindi incrociamo le dita o giungiamo le mani, a seconda delle preferenze, e riceviamo 4 differenti risposte in meno di 20 minuti. Ne scegliamo una, col famoso metodo della “scelta sicura”. Come dici prof? Come funziona questo metodo? Facile! Escludi il più caro e il più economico e tra i due di mezzo prendi quello con le migliori review.
Fissiamo il pick-up per le 11.00, ma alle 10.30 lasciamo già il Jetwing con la nostra doggybag, un’auto ci aspetta dalle 10.00 nel parcheggio. Buon segno, mi piace chi arriva puntuale o in anticipo. Ci accoglie il nuovo autista, Kasun, un omone anche lui sulla quarantina che ci racconta di esser stato in Italia, grazie alla sua “vita precedente “ da marinaio.
Un marinaio, mi sento ancora più sicuro, – prima giravo per il mondo in mare, oggi il paese in auto – ripete. Dopo meno di 10 minuti ci rifila però una richiesta che mi infastidisce: chiede se possiamo dare un passaggio ad un suo amico per metà del tragitto.
Queste richieste danno sempre fastidio perché non hanno una risposta “giusta”. Se rispondi di si, sei uno sciocco che probabilmente si sta facendo fregare, il tizio potrebbe subaffittare il passaggio. Se rispondi di no, trascorrerai le prossime 8 ore con un autista scontento a cui comunque stai affidando la tua incolumità, metti pure che l’idea di due uomini sconosciuti in auto con me e solo Giusy come donna non mi piaceva molto e hai tutti gli elementi per comprendere quello che provavo.
Decido però di non entrare in conflitto, devo dire su consiglio di Giusy. Con una battuta liquido l’imbarazzo, dicendogli che va bene se l’amico paga il 25% della quota. Lui ride, io ovviamente utilizzo un tono bonario, ma volevo si accorgesse che sono buono ma non stupido. In tutti i casi andiamo a prendere Evan dalla banca in cui lavora ed in breve scopriamo che stavamo facendo una buona azione. Il ragazzo aveva appena avuto un figlio – una bambina a quanto pare – e doveva tornare di urgenza a casa dalla moglie, come tutte le settimane.
Ebbene sì, caro prof., tra Colombo ed Arugam Bay ci sono 380km, con un tempo di percorrenza “secondo Google” di 8 ore e nessun mezzo di trasporto al di fuori dell’auto. Ci racconta che il sistema bancario Srilankese impone a tutti i suoi impiegati di trascorrere al massimo 2 anni per filiale, senza garanzie di locazione. Evan, insomma, rientra ogni week end a casa dalla moglie e non aveva un auto, troppo cara per un impiegato di banca.
Sai prof., questo passaggio mi ricorda ancora una volta che viviamo nel miglior continente del mondo, l’Europa è il posto più giusto che abbia mai vissuto e lo sai te lo dico dopo diversi anni trascorsi negli Stati Uniti e qualcuno di lavoro con Asia e Medio Oriente. La nostra Europa, spero proprio che non la rovineremo, ma torniamo al nostro viaggio.
Salto i plurimi incidenti scampati per frecce non messe, sorpassi in curva, passaggi di animali vari, frenate e cambi direzione bruschi e 4 microclimi differenti, tra piogge forti, deboli, sole e nebbia e passo a raccontarti di cosa succede dopo le prime quattro ore di viaggio.
Chiediamo a Kasun di fermarsi per pranzare. Sostiamo in un posto surreale, per il 90% uomini seduti su panche e tavoli condivisi, brocche d’acqua da cui bere senza bicchieri e senza appoggiare la bocca e lavandini laterali in cui lavare le mani durante e dopo il pasto. Potremmo definirla come una specie di tavola calda in mezzo alla statale, con un buffet ampio, piatti e nessuna posata. Già, tutti mangiavano con le mani, per questo i lavandini erano accanto ad ogni tavolo.
I ragazzi prendono del riso, verdure varie e peperoncini verdi “vivi” che mangiano a morsi, come fossero companatico. Io e Giusy beviamo una Coca Cola, il viaggio non ha conciliato l’appetito.
Si riparte dopo circa 30 minuti, tutti sembrano più sereni ed anche i rischi sembrano calare o forse è solo che ci stiamo abituando. Fatto sta che ho il tempo per concentrarmi su quello che ascolto e vedo: in radio passano canzoni pop cinesi, è la prima volta che le ascolto, sulla strada insegne, cinesi, sui cartelloni pubblicitari aziende cinesi e la stessa strada sembra essere di fabbricazione cinese.
Solo per un un istante mi sembra di ascoltare “Senza una donna” di Zucchero, poi Kasun cambia stazione. Parentesi italiana a parte, il mondo è già diviso in due prof. e qui sembrano esserci meno stelle e strisce che stelle gialle su bandiere rosse.
Ancora tre ore e salutiamo Evan, ancora un’ora e arriviamo a Colombo.
La città si presenta sin da subito come una classica grande città asiatica. Traffico asfissiante e aria pesante. Il benvenuto è dato dall’area intorno al lago, dove sorgono il parlamento e le ambasciate straniere. Il centro è il Fort, dove sorgeva un tempo il forte olandese. Impieghiamo 45 minuti per 3 km e arriviamo nel nostro hotel, The Stuart, consigliato dalla inseparabile guida. Un edificio neocoloniale, con interni a mo’ di pub irlandese, un tocco di Occidente in pieno oriente.
Ci facciamo prendere dai “sapori di casa” e ceniamo con cheeseburger e patatine fritte. Questa sera anche due birre, di sottofondo un ragazzo che suona cover americane. Chiudo con un amaro, la città sembra la più occidentale visitata al momento. Domani abbiamo mezza giornata per viverla prima dell’ultima tappa di questo viaggio, partiremo per tre giorni alle Maldive, speriamo non ci deluda e sia amica.
dr24a

Day 11 – Inconvenienti
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Caro prof., con oggi e con Colombo arriviamo all’epilogo di questa esperienza in Sri Lanka, nel pomeriggio partenza per le Maldive, dove trascorreremo gli ultimi 4 giorni di questa bellissima avventura, fatta di paesaggi, cibo, energia e soprattutto persone.
Come ogni avventura, ci sono stati degli Incovenienti, o comunque imprevisti, ma nulla che non abbia permesso alla stessa di continuare.
Questo per me è il significato intrinseco di ogni viaggio e in generale in ogni percorso che abbia un obiettivo, un principio ed una meta. Che sia un percorso di carriera, un hobby, una passione o un viaggio, quando hai un obiettivo, non c’è inconveniente o ritardo che tenga. Arrivi alla conclusione e la meta diventa un nuovo punto di partenza, l’esperienza che ti permette di trovare l’energie necessarie per ripartire ancora.

Ma torniamo a noi, prof. Oggi ci siamo visti completamente avvolgere dal caos di Colombo. Tuc tuc in ogni dove, traffico, marciapiedi praticamente inesistenti, tanto caldo e distanze enormi tra i vari punti di interesse. Aggiungi soltanto tre ore per girare e la decisone da prendere sembra unica: trovare qualcuno disponibile a farci visitare la cittá a bordo di un tuc tuc, velocemente ed intensamente.
Troviamo un signore dal sorriso rovinato, denti larghi, pochi capelli e la precedenza rispetto a tutti gli altri “ tuctucchisti” della zona. Il ragazzo aveva un certo “potere” nei loro confronti e ci è stato praticamente imposto.
Partiamo e dopo aver ripetuto almeno 50 volte che per quel prezzo ci stava offrendo un servizio eccellente, ci ritroviamo prima nel meraviglioso tempio sul lago, poi al tempio Hindu ed infine nella zona delle ambasciate.
Dopo circa un’oretta il tizio ci implora di entrare per 5 minuti da un rivenditore di gioielli di fronte alla spiaggia. Se l’avessimo fatto lui ci avrebbe guadagnato 2 litri di carburante per il suo tuc tuc. Accettiamo, quasi obbligati perché eravamo lontani dall’hotel, ma non senza fargli pesare che gli stavamo facendo un favore.
Qualche pietra, qualche turista, qualche controllo e in generale una trappola acchiappa sprovveduti. Un ragazzo in camicia e cravatta dai colori pastello cerca di convincerci che avremmo fatto un affare nell’acquistare quelle pietre, a prima vista dei “sassi”, io al quel punto guardo Giusy ed insieme decidiamo di uscire.
Da quel momento ho un solo ricordo. Il tizio sul tuc tuc intasca il suo buono benzina, ci riporta a bordo e non vede l’ora di sbolognarci. Si ferma davanti a un altro taxista che convince ad accompagnarci prima in hotel poi in aeroporto per un prezzo imposto da me. Tutto molto velocemente, noi scendiamo dal tuc tuc, saliamo sballottolati sul taxi, nessuno spavento, l’autista era innocuo. Un sorriso storto da lontano, dritti verso l’hotel, richiesta dei bagagli e non trovò più il mio marsupio con i “soldi di salvataggio”.
Mi hanno derubato, o li ho persi. Cosa sono i soldi di salvataggio prof.? Quando visito un paese in via di sviluppo porto sempre dei contanti in euro con me, da cambiare in caso di bisogno e tengo gli averi e le carte in posti differenti.
In tasca i contanti che posso mostrare a chi devo pagare, con il giusto ammontare per saldare la serata o la mattinata. In un’altra tasca i soldi in valuta locale di scorta e sotto alla maglia, in un marsupio ultra sottile, di quelli da corsa, gli euro di riserva con una carta prepagata.
Le altre carte nel portafogli nello zaino che mostro molto raramente.
Il marsupio scompare l’ultimo giorno a Colombo. Ci resto male soprattutto per l’immagine e per il ricordo che avrò di quella città, ora caro prof. tu pensa a quanto danni un’esperienza del genere crea alla percezione di un turista sull’intera esperienza in una città e pensa alla nostra bellissima Naapoli, non aggiungo altro.
Lo ripeto, poco male, perdo qualche euro, ma sono assolutamente coperto e con documenti apposto, quindi dopo l’ennesimo controllo nel taxi, ci facciamo accompagnare in aeroporto e ci lasciamo alle spalle i paesaggi, il cibo, l’energia e soprattutto le persone di questo paese. Ci aspettano i colori delle Maldive, ma questa sarà un’altra storia, penso di raccontartela alla fine in un solo post, intanto oggi salutiamo lo Sri Lanka, entrato a far parte di noi e spero un po’ anche di te caro prof.
dr26a

Day 12-14 – Colori
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Caro prof., sono passati nuovamente tre giorni da quando ci siamo scritti per l’ultima volta, ma se tu vedessi il posto in cui siamo in questo momento capiresti e perdoneresti la negligenza del tuo amico – allievo.
Come ti ho scritto, dopo un giorno a Colombo, la scomparsa del marsupio e qualche oretta nel traffico a causa di 4 controlli sicurezza prima di entrare in aeroporto, prendiamo il volo per Malè, Maldive. Ti dico da subito, che dallo Sri Lanka non c’è bisogno di visto aggiuntivo e quello fatto per entrare nel paese da Roma è riutilizzabile anche in uscita, quindi è semplicissimo arrivare nella capitale delle Maldive da Colombo con soli 90 minuti di volo.
Atterriamo sull’isola e da subito capiamo che “avventura e inatteso” sono due parole bandite per questa ultima fase del nostro viaggio. Agli arrivi vengono a prenderci due addetti del resort in cui alloggeremo e prendono i nostri bagagli; li ritroveremo direttamente in camera. Ci fanno accomodare in una sala d’attesa prima dell’imbarco sul nostro idrovolante, il mezzo che ci accompagnerà all’atollo in cui alloggeremo.
L’esperienza è molto piacevole, nonostante l’attesa, a dirla tutta si capisce che siamo agli ultimi giorni di vacanza perché comincia ad arrivare qualche telefonata dall’ufficio, ma solo parole simpatiche. È tutto sotto controllo anche senza la mia presenza e questo non solo mi permette di rilassarmi, ma mi rende soprattutto orgoglioso. Si, prof., a tanti può sembrare strano, ma mi reputo realmente soddisfatto solo quando non c’è bisogno di miei interventi per mandare avanti i processi; credo fortemente che un buon manager, abbia solo tre compiti: 1) spiegare il “cosa” 2) spiegare il “perché” 3) difendere il proprio team mentre gestisce il “come”. Fin da piccolo, ho sempre preferito giocare a Football manager che a Fifa, ad Age Of Empires piuttosto che a Quake. Insomma ho sempre preferito programmare e lasciare che tutto si muovesse da solo, piuttosto che manovrare i personaggi del gioco. Il resto sta tutto nello spiegare a terzi come e perché stai giocando.
Ma torniamo a noi. Ci cullano in questa sala di aspetto e dopo circa 1 oretta, trascorsa a rimpinzarci di tea, biscotti, bibite e rinfreschi vari, saliamo sull’idrovolante. 8 posti, si parte dal mare e si atterra in mare. Durante il viaggio un panorama mozzafiato, talmente tante sfumature di azzurro da aver bisogno di parole nuove per poterle definire. Non ho tempo e capacità per crearle prof, ma per favore fidati, quello che noi chiamiamo azzurro può essere almeno 50 colori diversi contemporaneamente.
Atterriamo sull’isola dopo circa 30’ di volo e da subito l’impatto è accogliente. Viene a prenderci Chiara, assistente personale, italiana, che ci descrive l’isola, le sue bellezze naturali, i servizi e ci mostra il nostro appartamento. Ci arriviamo scalzi, via sabbia. Ora prof. ricordi la storia dei colori di azzurro? Ok, per favore fai un copia e incolla per il “bianco” di questa sabbia”.
Bianca e bianchissima e credo composta da coralli sbriciolati provenienti dalla barriera corallina a pochi metri dalla riva. Un incanto! Non riesco a trovare altre parole. I giorni sono trascorsi tra albe, tramonti, cene a lume di candela e bagni in un’acqua capace di ridefinire il concetto di trasparenza.
Confermo, non ho altre parole da spendere, se non che domani ripartirò verso casa e già sto gustando il sapore di quella nostalgia di cui ti parlavo dopo il racconto del primo giorno.
Un abbraccio forte prof., a domani, per parlarti del “ritorno a lavoro”, di quello che mi porto dietro e di quello che mi trascinerò in avanti.
dr28a

Day 15
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Caro Vincenzo, come promesso eccomi qui a scriverti l’ultima puntata di questo nostro racconto, quello più difficile e più facile, quello del rientro a lavoro.
Come tutti quelli della mia generazione, mi sono bastati quattro secondi per sentire nell’aria il profumo della carta stampata, per vedere code nelle librerie alla ricerca dei libri di testo e dell’ultima Smemoranda, per sentirmi risuonare nella testa Wake Me Up When September Ends dei Green Day. Si prof, il ricordo degli anni ’90 segna sempre l’inizio di ogni ritorno in ufficio dopo i tanti ritorni a scuola.
Quest’anno sono rientrato di mercoledì, direi strategicamente di mercoledì, anche se in realtà è merito del mio migliore amico, Alessandro, che ha deciso di sposarsi di Lunedì.
Quindi biglietto Male – Roma al Sabato, noleggio auto sabato notte e domenica mattina la sveglia suona a Napoli.
Non ti racconto di lunedì, perché come ogni paroliere mediocre, quando davvero sento sulla pelle troppe emozioni, non riesco mai a descriverle, quindi torniamo a noi. 
Sappi soltanto che è stato uno dei giorni più emozionanti della mia vita e loro erano bellissimi, poi ti mando una foto.
Nello zaino stamattina avevo il mio computer e i regali per il mio team! Alla voce donne creme di bellezza artigianali – non che ne abbiano bisogno, per carità! – alla voce uomini tisane detox, il tutto per smaltire l’affaticamento da vacanza e per ricordare che le scrivanie sono il luogo in cui “smaltisci” lo stress, non dove lo accumuli.
Penso che sarà un anno sicuramente straordinario, con tantissime novità, per noi è giunto il momento di raccogliere quello che abbiamo seminato negli ultimi 12 mesi. 
Non so se ti ho mai raccontato quello che stiamo facendo per AW LAB, qualcosa tra una telefonata e un caffè probabilmente sì, ma oggi voglio provare sinteticamente a spiegarti quanto sono orgoglioso della mia squadra e di quello che stiamo mettendo in pista.
Mi piace dire che siamo dei folli con più di 240 negozi in Italia, Spagna, Repubblica Ceca, Singapore e Malesia, che si sono messi in testa di fare a gara con Footlocker e JD, partendo da un posizionamento Women Oriented in una industry all’80% maschile.
Da due anni stiamo lavorando per trasformare un Retail Business in una Retail Media Company concentrandoci quindi non solo nel vendere il prodotto, ma anche nel creare un posizionamento editoriale.
Tutto questo supportato da una missione – EMPOWER THE YOUTH GENERATION – e da una visione – BECAME THE BIGGEST AMPLIFIER OF THE YOUTH GENERATION’S VOICE – .
Lo so, prof., detta così ti può sembrare una supercazzola, ma noi non solo ci crediamo davvero, noi lo stiamo facendo.
Per farla breve, in tutte le nostre campagne marketing ci chiediamo come poter rendere protagonisti i nostri clienti – in un certo senso come farli diventare famosi – e come dargli voce. Perché sì Vincenzo, se non hai budget a sette zeri che ti permettono dire banalità ovunque devi lavorare sui contenuti, prendere posizione e rischiare, anche se rischiare fino a un certo punto, perché dare voce a una generazione che parla di sostenibilità, di abbattimento delle differenze di genere, di apertura e integrazione, in un mondo che invece chiude i porti ed organizza i “family day” è non solo soddisfacente, ma indispensabile.
Lo so cosa pensi, far sentire la loro voce dovrebbe essere il compito dei nostri rappresentanti politici, ma intanto che i sedicenni diventino la maggioranza degli elettori e creino un mondo migliore, ce ne occupiamo noi, imponendoci di alzare la loro voce, cercando di farli urlare, perché fare delle scelte è oggi più che mai importante, anche nel mondo del business.
Ma torniamo sul pratico, vuoi sapere cosa facciamo concretamente prof.? Presto detto.
Come ogni media company che si rispetti lavoriamo su due principali ambiti:

1) aumentare i canali di proprietà e l’audience: store fisici, social network, magazine, radio, circuito videowall, community on line, data base clienti, app.

2) Creare contenuti di proprietà esclusivi.


Sul primo aspetto non mi dilungo, ti dico solo che nel 2018 abbiamo ricevuto 263 milioni di visualizzazioni totali del brand contro i 50 milioni del 2017, e che quest’anno pensiamo di chiudere con un ulteriore aumento del 20%.

Il secondo è molto più interessante, perché abbiamo lavorato in due direzioni:

1. Creare format di proprietà, ecco 3 esempi:
1.1. AW LAB is Me: primo Retail Talent Show prodotto in Southern Europe.

 
Per farti un’idea, tieni pesente che la vincitrice ha appena lanciato un singolo con Sony Music.

 
Non faccio per dire, ma tra gli altri ha speso qualche parola su questa storia anche l’editore che ci ospita.

1.
2. The Style Cube il nostro Temporary Street Cultural Hub

 

1.3. WMNS Together, campagna che mette le donne al centro della costruzione di un nuovo mondo. Contiamo di lanciare una petizione a breve, in base ai temi che discuteremo al primo forum tutto al femminile, il 5 ottobre al BASE Milano.

2. Gestire la produzione dei contenuti orientata al nostro target clienti.
In pratica curiamo la produzione di alcune campagne dei principali sportsbrand e le adattiamo al nostro target. 


Il tutto si fonda sul principio che il retailer è il media tra le storie di prodotto (brand) e i consumatori (clienti).
Detto questo aggiungo che il sogno più grande è legato allo scopo nella società: credo fortemente che il mondo non abbia bisogno di un altro negozio di sneakers, ma di qualcuno che sia in grado di amplificare la voce di una generazione che ha voglia di raccontare il mondo in cui vive. Lo stesso che ha il diritto di cambiare. Un mondo senza confini, in cui vivere ogni giorno la diversità, in cui le nuove generazioni ci guidino verso il futuro senza paura di non essere ascoltate.

Quanto tutto questo può trasformarsi in cambiamento sociale? Tanto prof.
Gli addetti del settore retail oggi contano più di 3.000.000 di impiegati solo in Italia (tra chi lavora in negozi, chi in sede e chi nei servizi on line ed off line), non ti sembrano tanti? Per darti un riferimento il totale degli operai dell’industria in italia è di circa 3.600.000, quindi si, anche i nostri sono tanti e in più sono in crescita e trasversali, nel senso che tra le loro fila ritrovi ogni tipologia di formazione e estrazione sociale.

A mio parere tutto questo da perfettamente la fotografia della nuova società orientato ai servizi che diventa preminente su quella orientata alla produzione, non credi? Vedi che se trasformiamo una parte di questi servizi in innovazione, ecco che hai delineato il ruolo del paese a livello internazionale: Ambiente – Agricoltura e Artigianato (nuove fonti di energia e lavori tradizionali, in un paese che importa più del 98% del suo fabbisogno di idrocarburi e ha un tessuto di PMI), ricerca e sviluppo (non solo scientifica, ma anche commerciale, da prodotti a canali di distribuzione), servizi, lotte civili. Non potrebbero essere questi i cardini di un nuovo rinascimento dell’Italia a livello globale? Io penso di sì. E penso che le aziende, con una missione, possono contribuire a questa trasformazione.
Basta crederci prof, basta uscire dal proprio ufficio, basta ricordare di far parte del miglior continente del mondo in cui welfare, sanità, stabilità lavorativa e libertà di espressione (almeno fino ad oggi) non sono considerati “centri di costo”, ma conquiste. E basta ricordare che il mondo non ha bisogno di un nuovo direttore marketing o di un nuovo negozio di scarpe, il mondo ha bisogno di storie da raccontare, qualcuno disposto ad ascoltarle e a lottare per crearne delle nuove.
Ti voglio bene prof., davvero, e ancora grazie per questa immensa opportunità.
A presto, il tuo allievo indisciplinato Domenico.
dr30a