Caro Riccardo

Caro Riccardo, è da ieri che per merito tuo tengo il cuore nello zucchero. Sono stato tutto il giorno così, mi sono addormentato così, mi sono svegliato così, spero di rimanere il più a lungo possibile così e di questa felicità ti sono profondamente grato.

Il  fatto che tu abbia messo la parola fine alla prima parte della tua vita da apprendista ingegnere è per me un dono stupendo. Sì, dono è la parola giusta, a me non devi niente, soltanto rispetto, e quello non è mai mancato da parte tua e di tuo fratello Luca, nei miei confronti come nei confronti di vostra madre, che lei come (quasi) ogni mamma ha una dedizione per voi figli che è pressoché impossibile eguagliare.

Come hai visto stamattina presto ho pubblicato qualche foto della laurea sui social e ogni tanto vado a controllare quante persone hanno messo un like o un commento, e a tutte/i rispondo con un cuoricino, cosa che non faccio mai in maniera così scientifica. Come sanno bene le/i ragazze/i di Aula O non siamo i nostri like e le tecnologie, quelle vecchie e quelle nuove, vanno usate con consapevolezza, altrimenti non funziona.
Vuoi sapere perché mi sono concesso l’eccezione? Perché per noi Moretti “laurea” è una parola importante e difficile, lo è per tante ragioni, te ne voglio dire due, una di carattere più generale e sociale, l’altra di carattere più personale e familiare.
 
La prima te la racconto con l’aiuto di una canzone, Contessa di Paolo Pietrangeli, per quelli della mia generazione è stata più importante di Born in the USA di Springsteen e di Albachiara di Vasco Rossi.  C’è una strofa che fa così, “Del resto, mia cara, di che si stupisce? anche l’operaio vuole il figlio dottore, e pensi che ambiente che può venir fuori: non c’è più morale, contessa”.
Proprio così Riccardo, anche l’operaio vuole il figlio dottore, anche il figlio dell’operaio può prendere la laurea. Vedi, mio padre neanche la conosceva Contessa, era troppo impegnato a lavorare per mandarci a scuola, però assillava me e i miei fratelli con la necessità di studiare, di prendere bei voti, di essere tra i primi della classe. Lui aveva fatto la 5° elementare “in mano a Mussolini” e Edgar Morin non aveva manco idea di chi fosse, però la vita gli aveva insegnato l’importanza di avere una testa ben fatta, l’importanza di saper pensare e fare, l’importanza d’o piezze ‘e carte, del diploma, della laurea che attestasse questa capacità di pensare e di fare.
Riccà, ‘o nonno teneva ragione. Anche se non aggiunge nulla a ciò che siamo, anche se non è di per sé sinonimo di successo – Steve Jobs la laurea non ce l’aveva – ‘o piezze ‘e carte, la laurea, serve, pure se fai il muratore o il calzolaio serve, ti consente di vedere in altri modi il muro e la scarpa, ti fa da base per i tuoi passi successivi.
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La seconda è un pezzetto di storia recente del nostro Paese. Vedi figlio mio, ai tempi
miei non era così facile che i figli degli operai prendessero la laurea, io ho avuto la fortuna di avere un padre che pretendeva di correggermi i compiti anche quando stavo al primo anno delle superiori, nonostante nel merito non ci capisse letteralmente nulla, e guai a indispettirlo per una qualunque ragione, perché te li faceva rifare daccapo, avevi voglia a protestare e a giurare che erano fatti bene, al massimo, se stava di buon umore, ti rispondeva che anche se erano fatti bene li dovevi rifare di nuovo perché non erano scritti in bella calligrafia. E valeva anche per la matematica, per i numeri Riccardo.
Ecco, qui non mi sorprenderei se tu stessi pensando “daddy, ma quale fortuna, quello il nonno era peggio di te”, se ti dicessi quello che pensavo io a quei tempi ti farei arrossire. E invece è stata propria una fortuna, oggi che vado per i 64 anni te lo posso dire senza tema di essere smentito, senza gli insegnamenti di mio padre, compresi una parte delle sue assurdità, molte delle cose buone che ho fatto nella mia vita non le avrei sapute e potute fare.
A pensarci bene non è un caso che su una buona dozzina di ragazzi che componevano il nostro gruppo a Secondigliano, tutti con più o meno le stesse potenzialità e capacità, ci siamo laureati soltanto in due. Del resto se ci pensi, anche nella nostra famiglia zio Antonio e zia Nunzia con la laurea ci sarebbero stati non bene, benissimo, per testa, per capacità, per tutto, eppure l’unico che se l’è presa sono stato io.

Ecco Riccardo, penso che forse adesso puoi capire meglio perché sono stato contento un sacco quando si è laureata tua cugina Sara e perché sono stato un poco dispiaciuto quando tuo fratello Luca ha deciso che lui invece no.  Mi è sembrato uno spreco di talento, di intelligenza e di possibilità che noi Moretti non ci possiamo permettere. E sono certo che adesso capirai anche perché mi sento abbastanza stupido ad averti prospettato la possibilità di non fare la specialistica e di cercarti al più presto un lavoro da dottore in ingegneria.

Come puoi immaginare non l’ho fatto perché sono cattivo, e neanche perché mi hanno disegnato così, è che volevo spingerti a guardare le cose anche da un altro punto di vista, a non accontentarti di una vita da mediano, a trovare dentro di te le motivazioni e la forza per fare il salto di qualità di cui, secondo me, hai ancora bisogno.

Tu sei un ragazzo per molti versi straordinario figlio mio, le ragioni non c’è bisogno 
di scriverle qui, anche il solo il fatto che già stamattina non mi hai risposto al telefono perché eri in aula all’università a seguire il corso suggerisce qualcosa di significativo su di te, sulla tua serietà, sulle tue motivazioni, eppure ancora non basta.
Sì, adesso non ti arrabbiare, perché non basta, e non perché “faccio come nonno Nello”, nonostante tu e mamma ieri mi abbiate preso in giro per tutta la mattinata. 
Non basta perché 98/110, il voto che hai preso alla laurea triennale è ottimo come risultato ma non come approccio, e secondo me tu non hai ancora del tutto chiara la differenza.

Lo so che cosa stai pensando. Che laurearsi in ingegneria non è come laurearsi in sociologia, che più di un terzo di coloro che si scrivono non arrivano alla laurea e compagnia cantante. Lo so e anche se non lo sapessi sappi che sei arrivato 127esimo, perché tra ieri e oggi me lo hanno ripetuto già in 126 prima di te.
Lo ammetto, in parte è vero, ma rimango dell’idea che il confronto va fatto non con quelli che si laureano in sociologia ma con quelli che si laureano in ingegneria e prendono 110/110 e lode. Come sai ce ne sono mio caro Riccardo, non saranno tanti come i sociologi ma ci sono, e non vengono da un altro pianeta, non hanno i superpoteri e non hanno neanche due teste, hanno semplicemente un approccio diverso, forse un metodo migliore, di certo si dedicano di più.
Ora, nel caso tu stessi pensando “papà sei una palla, non so se metterti nel girone degli incontentabili o in quello degli insopportabili” ti propongo di fare come nel gioco dell’oca e tornare alla prima casella, dove ho scritto che tengo ‘o core int’o zucchero. Anzi, visto che ci sei, aggiungici anche che stong int’e Celeste, sono oltre l’Empireo di Dante, di fianco a Zeus che da bravo ateo non mi va di scomodare Dio per queste faccende, per quanto mi siano care.

Quello che devi comprendere è che io sto a posto, per quanto riguarda me non avresti potuto fare di più per il semplice motivo che altrimenti l’avresti fatto. È per quanto riguarda te e il tuo futuro che il discorso è diverso. Anzi, per essere più precisi, direi che questo discorso vale per tutti, per te, per gli studenti di ogni età e di ogni tipo di scuola, per me, per chi studia, per chi lavora.
È come quando alle presentazioni di Novelle Artigiane dico che le ho scritte come se dovessi scrivere il romanzo più bello del mondo e tutti sorridono e qualcuno pensa anche “questo è scemo”, però poi quando aggiungo che pure se sono al 999esimo posto su 1000 scrittori sono contento perché quello è il risultato, ma nell’approccio no, non conosco altro modo di scrivere se non quello di essere il migliore non sorridono più, e non pensano più che sono scemo, anzi applaudono, come è successo ancora qualche giorno fa a Bologna.


Vedi figlio mio, io in questa vita qui non ce la faccio a essere il più grande scrittore del mondo tu invece ce la puoi fare senza problemi a laurearti con 110/110 e la lode, ed è proprio nello spazio che c’è tra l’approccio e il risultato che ti puoi conquistare i centimetri che ti aiutaranno a farlo, perché il lavoro ben fatto, lo studio ben fatto, è prima di tutto questo, è approccio, è metodo, è abituarsi a dare sempre il meglio, è voglia di fare ogni cosa che si fa come se si dovesse essere il numero uno al mondo in quella cosa. Il grande Jorge Luis Borges direbbe che bisogna darsi un futuro inesorabile come il passato, il tuo piccolo padre aggiunge che farcela può fare la differenza, la differenza per te, per la tua vita, per le tue possibilità, per il tuo futuro, perché per me meglio di come sei non puoi essere.
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Ecco, adesso ti devo lasciare, e mi piace farlo ancora con la parola grazie. 
Grazie per le emozioni che mi hai fatto vivere, dal momento dell’appello a quello della discussione, dalla proclamazione alla festa con gli amici, dai nostri abbracci troppo rumorosi alla spilletta del lavoro ben fatto che ti ho appuntao con le mie mani sulla tua bella giacca. Quanto avrei voluto che ci fosse stato nonno Pasquale, avrebbe allagato l’Aula Magna con le lacrime e, se avesse potuto, con il vino. 
Grazie anche per la scelta dell’abito, eri unico con il pantalone blu e la tua fantastica giacca celeste – il mitico spezzato. Senza nulla togliere a chi ha scelto di vestire in blu – ci mancherebbe – noi Moretti siamo fatti così, in un modo o nell’altro troviamo sempre la maniera di distinguerci. 
Grazie infine perché da stamattina per strada mi guardano e mi sorridono tutti, a Napoli come a Roma. Il mio amico Matteo Bellegoni sostiene che è perché oggi non cammino, volo. Lui un poco sfotte, però un poco è vero.
Un abbraccio fortissimo. Ci vediamo Domenica.
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