PROLOGO. IL KANBAN RIFLETTE TRA SÈ E SÈ
“Mi sento fuori posto come mai mi era capitato prima. Il contenitore è quello di sempre, ma il buio è troppo fitto e la voce della linea di rottamazione troppo vicina perché io mi possa sentire tranquillo. Tra noi, nei reparti, se ne parla spesso del destino che ci attende una volta completato il nostro lavoro. La cosa non ci fa né contenti né scontenti, è semplicemente così che funziona, se vuoi garantire la qualità di quello che produci devi per forza utilizzare macchine, tecnologie, strumenti di lavoro, perfettamente efficienti. Comunque io in reparto ci sono arrivato solo da tre mesi e ho fatto sempre il mio dovere, perciò proprio non capisco cosa ci faccio qua, al buio, con una notte tutta intera da affrontare e nessuna idea di quello che mi capiterà domani.
Continuo a sentirmi fuori posto come mai mi era capitato prima. Però almeno adesso comincio a intravvedere delle ombre intorno a me; la cosa non mi dispiace, in certi frangenti anche le ombre sono meglio del nulla. Uno stridore come di ferro che si stira attira la mia attenzione. Resto ancora per qualche secondo in attesa, poi mi faccio coraggio e mi presento.”
PARTE PRIMA. IL DIALOGO TRA IL KANBAN E LA CATENA DI MONTAGGIO
Kanban: “Ciao, mi chiamo kanban, sono un cartellino e vengo utilizzato nelle fabbriche organizzate secondo il modello giapponese come strumento di comunicazione e di controllo delle scorte. In pratica vengo applicato a un contenitore e indico la consegna di una certa quantità di pezzi diretto all’area di assemblaggio; quando tutti i pezzi stanno per finire, io e il contenitore veniamo riportati al magazzino scorte e diventiamo un ordine per la consegna successiva; in questo modo evitiamo tempi morti e sprechi.”
Catena di Montaggio: “Piacere, io sono la catena di montaggio, sono stata un esempio di innovazione semplice e geniale, è grazie a me che un modello prevalentemente teorico è diventato il sistema organizzativo che ha dominato il mondo della produzione per oltre un secolo. Sono stata costruita negli Stati Uniti, dove ho fatto quello che dovevo fare per un bel po’ prima di essere fatta a pezzi e mandata, in versione ridotta, qui, dove ho continuato a fare il mio dovere per altri due decenni prima di essere spedita qui pronta per essere rottamata.
Che bei tempi quelli dell’inizio. Pensa, ho vissuto in una fabbrica di quasi due chilometri e mezzo di larghezza per più di un chilometro e mezzo di lunghezza, con novantatre edifici, centosessanta chilometri di linea ferroviaria interna, una centrale elettrica, trentaduemila macchine utensili, più di centomila persone che vi lavoravano.
Una fiumana di gente che eseguiva in maniera sincronizzata, nei tempi stabiliti, le mansioni elementari che erano state loro affidate. Non era una fabbrica, era una città, dove c’era sempre un gran fermento eppure tutto funzionava preciso come un orologio. Poi per la produzione verticale è cominciata la crisi, è arrivato il decentramento, le auto si sono cominciate a fare un pezzo da una parte, uno dall’altra che poi vengono assemblati da un’altra parte ancora, e così anche per me sono finiti gli anni ruggenti.”
K.: “Io a dire il vero vengo da un’altra cultura, da un’altra impostazione, so di essere solo uno dei molti elementi di un sistema integrato di qualità totale che ci permette di raggiungere, tutti assieme, gli obiettivi che ci sono stati dati. Nel nostro sistema c’è una maggiore flessibilità, non c’è una divisione netta tra lavoro direttivo e lavoro esecutivo, la vendita è più importante della produzione, l’innovazione è proposta anche da chi lavora nei reparti, le comunicazioni sono di carattere orizzontale. Come ti dicevo, non ci sono scorte di magazzino, la produzione si basa sulle richieste dei clienti, la cui soddisfazione è la prima cosa che ci viene chiesto di garantire.”
CM.: “Fossi in te non la farei tanto lunga, che pure io non sono mica fatta solo di ferro, non solo perché mi sento parte di un modo di lavorare che ancora oggi è utilizzato da tantissime imprese in ogni parte del mondo, ma perché è proprio grazie a me che l’organizzazione scientifica del lavoro ha avuto il successo che ha avuto, e questo non lo dico io, lo dice la storia.”
K.: “Caspita, adesso tiri in ballo addirittura la storia. Hai ragione che non mi posso permettere di litigare, piuttosto farò finta di non sapere come hai fatto la tua fortuna.”
CM.: “E perché non puoi litigare? Facciamolo pure, sarà l’ultima litigata della mia vita, non ci rinuncio per nulla al mondo. Allora, dimmi, cosa vorresti insinuare?”
K.: “Insinuare? Perché osi negare l’alienazione, lo sfruttamento, i ritmi insopportabili a cui sono stati sottoposti i lavoratori nel tuo sistema di produzione?”
CM.: “No, non lo nego, dico però che neanche con il vostro sistema gli operai quando tornano a casa sono questi mostri di freschezza e aggiungo che se vogliamo parlare seriamente dobbiamo partire non da quello che c’è adesso, ma da quello che c’era prima, che era sicuramente peggio, e poi dobbiamo riconoscere che insieme alle ombre c’erano anche tante luci, ad esempio la settimana di lavoro di 8 ore più corta e la paga più alta del 15%.”
K.: “Va bene, ammetto che il tuo approccio è ragionevole, a patto di aggiungere però che aumentando la paga e diminuendo le ore di lavoro i lavoratori hanno potuto comprare l’automobile e diventare a loro volta clienti dell’azienda.”
CM.: “E dici niente, questo per me non è un problema, è piuttosto la trovata geniale di un imprenditore visionario. Il successo del modello T è stato costruito proprio a partire da queste due idee: assemblare componenti standardizzate per ridurre i tempi di lavorazione e il costo finale dell’auto; assicurare una paga migliore ai lavoratori per incentivare il loro attaccamento al lavoro, determinare una più proficua circolazione della ricchezza, permettere al consumo e al mercato di svilupparsi su basi di massa. Magari ce ne fossero oggi di visionari così, potrebbero bilanciare questa marea di finti imprenditori che aumentano il dividendo agli azionisti e tagliano la paga ai lavoratori, con il risultato di ridurre il loro potere d’acquisto e deprimere i mercati, come se non lo sapessero che le cose che produci le devi vendere a qualcuno.”
K.: “Va bene, lo ammetto, non hai tutti i torti, però anche tu devi riconoscere che è assurdo pretendere che la vostra sia la sola strada possibile, l’unica, la migliore di tutte. Noi, ad esempio, nel nostro Paese, per superare la crisi abbiamo dovuto abbandonare la produzione di massa e metterci a produrre auto di qualità in piccola serie, più modelli e versioni permettono di rispondere meglio alla diversificazione della domanda.”
CM.: “E certo, mica potevate fare come tutti gli altri, voi giapponesi dovete per forza essere originali.”
K.: “Mia grande e presuntuosa amica, noi giapponesi, come dici tu, avevamo perso la guerra in malo modo, avevamo la necessità di riconvertire l’industria bellica, non avevamo le risorse per produrre grosse quantità di auto e lasciarle là in attesa di essere acquistate, e perciò se avessimo continuato sulla vostra strada saremmo finiti molto male. È per questo che nasce il modello giapponese di produzione snella, basato sul continuo miglioramento del prodotto finale, è per questo che oggi siete voi a seguire noi e non viceversa.”
CM.: “Ma fammi il piacere, adesso sì che mi arrabbio davvero, e poi la presuntuosa sarei io. Guarda che ci vorrà ancora molto tempo prima che il nostro sistema se ne vada in pensione, ammesso e non concesso che una cosa del genere accadrà mai, anche perché pure noi non stiamo con le mani in mano e cerchiamo di migliorarci sempre. E poi davvero non se ne può più di questa mania di associare il fordismo soltanto allo sfruttamento e alla mercificazione del lavoro, come se per cento anni fossero esistiti solo Charlie Chaplin e Tempi moderni.
Ora neanche ci provo a pensare che tu possa essere oggettivo, perché si sa che, chi per una mano, chi per l’altra, ognuno tira l’acqua al suo mulino, pensa però alle innovazioni non solo tecnologiche ma anche culturali e sociali connesse al fordismo, all’attenzione che molto presto – certo, grazie soprattutto all’azione dei lavoratori e del sindacato, ma del resto loro ci dovevano pensare, mica noi -, è stata prestata alle condizioni di lavoro, alla decisione già ricordata di ridurre l’orario e di aumentare la paga, all’impegno nella creazione di scuole professionali e persino all’adesione a iniziative per la pace negli anni della prima guerra mondiale, alle critiche al nazionalismo, al sostegno all’idea di un sistema economico e politico in grado di allargare il più possibile le aree di benessere.
E poi non vogliamo dire niente sull’importanza di avere un posto di lavoro stabile? Del fatto che uno entrava in fabbrica e ne usciva solo per la pensione? Della connessione forte che esisteva tra lavoro in fabbrica e identità personale e sociale? Lo sai quanto ha contato poter dire mi chiamo Tizio e Caio e sono operaio all’Italsider, alla Breda, alla Barilla, alla Pirelli, alla Cirio? E dell’importanza che la grande fabbrica ha avuto per lo sviluppo della coscienza operaia, delle lotte sindacali, dell’affermazione del sindacato che mi dici?”
K.: “Dico che ci manca solo che ti prendi anche i meriti delle conquiste del sindacato. Guarda che nonostante io sia nato cinquanta anni fa in Giappone e non centodieci anni fa in Europa lo so bene che è stato grazie alla lotta e alla capacità di organizzarsi dei lavoratori che il sindacato è diventato così forte. Non devo essere certo io a dirlo, ma in Italia cento anni prima di Internet le leghe operaie e le camere del lavoro sono state una rete diffusa capillarmente sul territorio, li trovavi già allora dappertutto, nella grande città come nel piccolo paesino sperduto sulle montagne, altro che storie. La verità è che tu e il sistema che hai rappresentato non c’entrate proprio niente con questa storia.”
CM.: “E invece ti sbagli, perché il fatto di lavorare fianco a fianco con tanti altri operai come te aiuta, rafforza la tua identità, fa crescere la solidarietà e la coscienza di classe, fa in modo che l’operaio in sé, che cioè è operaio perché fa un certo tipo di lavoro, diventi operaio per sé, cioè un operaio consapevole del proprio ruolo in fabbrica e della sua funzione sociale e politica.”
K.: “Va bene senti, finiamola qui, con te non si può ragionare, solo perché sei grande e grossa vuoi avere sempre ragione tu, però ricordati di Davide e Golia, non sono sempre quelli grossi come te a vincere.”
CM.: “Io non voglio averla sempre vinta, penso solo che sia mio diritto sostenere le mie ragioni, sei tu che non sei abituato al contraddittorio, che alla fine ti trovi bene solo nei sistemi in cui tutti la pensano alla stessa maniera.”
K.: “Guarda che il Giappone è un paese democratico, siete voi che pensate che in fabbrica ci sta chi dirige e chi esegue, non noi, nel nostro sistema chiunque può avere una buona idea, può proporla, può vederla realizzata, altro che chiacchiere.”
CM.: “Va bene, sono d’accordo, finiamola qui, ma comunque io non ho detto che non siete democratici, ho detto soltanto che il vostro approccio comporta una condivisione totale dei principi e delle finalità da parte di tutti i componenti dell’organizzazione, e non penso che sia una cosa che si possa negare. Comunque non importa, si avvicina l’ora, adesso ho altro a cui pensare.”
K.: “Mi dispiace.»
CM.: “E di che. È solo il corso delle cose”.
PARTE SECONDA. IL KANBAN E I DUE OPERAI
K.: “Il rumore della grossa porta che scorre sui binari e le luci che si accendono nel capannone mi avvertono che il nuovo giorno è arrivato. Le voci, prima indistinte, adesso mi arrivano nitide.”
Operaio 1: “Oggi è il giorno della catena di montaggio.”
Operaio 2: “Già.”
O.1: “Un po’ mi dispiace, ci ho lavorato quindici anni e alla fine un po’ ti ci affezioni alle macchine con cui lavori.”
O.2: “Vero. Ma almeno loro finiscono rottamate e in qualche modo riutilizzate, pensa alla fine che facciamo noi.”
O.1: “Io sono credente, questo problema non ce l’ho.”
O.2: “Già, sei fortunato, anche se … Ma cosa ci fa qui questo cartellino di appena tre mesi?”
O.1: “Lasciami guardare, hai ragione, qui doveva esserci soltanto il contenitore, giù al reparto devono essersi sbagliati, capita anche a loro, saranno pure giapponesi ma sempre esseri umani sono.”
O.2: “Già, tra poco terminano pure i dodici mesi di assistenza previsti dal contratto di avvio del nuovo impianto, ci toccherà cavarcela da soli, speriamo bene.”
O.1: “Ce la faremo, vedrai che ce la faremo. Adesso però premi quel dannato bottone e riportiamo il cartellino in reparto, voglio vedere la loro faccia quando si accorgeranno dell’errore.”
O.2: “Già, come se non lo sapessimo che sfodereranno il loro sorriso di circostanza, si scuseranno, ci diranno arigatò e continueranno a lavorare come prima, più di prima.”
EPILOGO. IL KANBAN CI RIPENSA SU
“Il tic della luce che si spegne mi fa sentire come non mi ero mai sentito prima. La catena di montaggio sta andando incontro al suo destino, io al mio. Mi riporteranno in reparto, segneranno sul foglio di lavoro anomalia risolta, tutto tornerà a funzionare secondo le procedure stabilite, io continuerò ad andare su e giù in un altro contenitore.
Qui fuori il sole si prepara a occupare, come ogni giorno a quest’ora, il suo posto nel cielo. Dalla tasca della tuta sento il mio uomo che accenna un motivo, buon giorno tristezza, sembra quasi lo voglia dedicare a me.
Già, buongiorno, anzi no, addio, compagna per una notte, per sempre, della mia malinconia.”
La versione originale di questo racconto è contenuta nel volume Testa, Mani e Cuore, edito nel 2013 da Ediesse.