Come ho raccontato in Bella Napoli, per definire il rapporto tra me e Luigi Santoro la parola “amico” non basta, lui è stato per me il fratello maggiore che non ho, essendo il primogenito, è stato l’uomo con il quale per oltre 25 anni ho lavorato di più, ho vissuto di più, ho condiviso più cose. Ah si, dimenticavo – che lui niente niente riesce a leggermi anche da dove sta adesso ed è capace di apparirmi in sogno stanotte -, è stato anche il mio capo, persino quando le circostanze della vita hanno voluto diversamente. Ancora oggi rido da solo come uno scemo quando ripenso a mio padre che gli chiedeva «don Luigi, ma voi lo tenete a posto a mio figlio, glieli mettete i contributi, che altrimenti questo quando si fa vecchio non la prende la pensione», e lui che rispondeva compunto «don Pasquale, innanzitutto vostro figlio non lavora con me ma con la Cgil, e la Cgil è un’organizzazione seria; e poi adesso il capo è lui, nel caso dovrebbe versarli lui a me.»
La reazione di papà? Alla parola «seria» riferita alla Cgil alzava tutte e due le mani, si alzava in piedi e proferiva un contrito «per carità» che equivaleva a «chi si è mai permesso di metterlo in dubbio», «’a faccia mia sotto ’e piede vuoste», e alla parola «capo» riferita a me sorrideva e diceva «e gghià, don Luì, nun pazziate sempe, ca cheste sò cose serie».
Perché si, nella vita ci sono quelli che diventano capi, qualche volta con merito molte altre no, e quelli che capi ci nascono, secondo me funziona proprio come dice Bill a Beatrix Kiddo in Kill Bill sulla differenza tra Superman, che quando si sveglia la mattina è già un supereroe, e Batman o Spiderman, che quando si svegliano la mattina sono Bruce Wayne e Peter Parker e si devono mettere un costume per diventarlo. Ecco, Luigi si svegliava la mattina ed era già un capo, un leader. Mai ossequioso o banale, spesso tagliente, a volte duro peggio di due pugni nello stomaco, sempre pronto a darti una mano, ma non così per dire, perché lui era davvero uno che si prendeva le colpe e ti lasciava i meriti. Poi ti tormentava per farti capire dove avevi sbagliato, cosa avevi sottovalutato, come non ripetere l’errore, ma quando c’era da prendere gli schiaffi la faccia ce la metteva sempre, se c’era da prendere i meriti no.
Per me Luigi è un esempio del fatto che ha ragione Eraclito, che «il carattere è il destino » e ha ragione anche Hillman con i suoi racconti sul daimon e sul codice dell’anima, perché insomma le cose che ci accadono sono un po’ il segno del destino, della missione che ciascuno di noi si porta dentro fin dall’inizio. Dite che magari a volte è così e altre volte no? Può essere, però leggete la storia che mi raccontò Luigi tanti anni fa per un progetto che si chiamava «I nonni raccontano», che mi dispiace non poterlo linkare perché c’erano tante storie belle ma non stanno più in rete. Magari non cambierete idea, però penso che vi piacerà.
«Era il 1953, avevo 13 anni e avevo appena preso la licenza di terza avviamento (l’equivalente della attuale terza media). Non avevo più voglia di studiare – grave errore di cui mi sono ripetutamente pentito! -, e mio padre, caporeparto alle Manifatture Cotoniere Meridionali, mi spedì a lavorare in una officina di rigenerazione gomme.
Come si faceva a rigenerare una gomma? Più o meno così: la gomma liscia veniva “graffiata” con un apposito macchinario che rifaceva le scalanature, poi il sotto strato di camera d’aria veniva ricoperto da una strato di gomma liscia che veniva attaccata con una colla al benzolo – altamente nociva -, sulla gomma liscia. Dopo di che si metteva la gomma negli stampi, la si chiudeva bene, e poi ci si attaccava il nuovo battistrada a vapore. A questo punto la gomma veniva rifinita e sembrava – in realtà sembrava soltanto -, come nuova. Il fuochista dell’officina, cioè l’uomo che riforniva noi ragazzi – eravamo una decina tra i tredici e i quindici anni -, del vapore che serviva per incollare le gomme, era un bell’uomo con sette figli e delle bellissime scarpe bianche, che tutti noi chiamavamo Casanova (avere un nomignolo, il “soprannome”, era a quel tempo la norma più che l’eccezione). Quella mattina arrivammo all’officina e lo trovammo seduto per terra piangente. Cosa era successo? Il titolare dell’azienda l’aveva licenziato perché per un suo errore si era guastata la caldaia.
Che fare? Vedere quell’uomo, nostro compagno di lavoro, tanto disperato, fu per noi ragazzi un vero e proprio shock. Allora proposi: facciamo sciopero! E così ci incamminammo tutti verso la sede del sindacato. Avevamo fatto un bel pezzo di strada, quando fummo raggiunti dal factotum del datore di lavoro con il camioncino aziendale che ci fermò e disse: “potete tornare tutti al lavoro, tranne Casanova e Santoro”. I nostri compagni, dopo una breve esitazione, salirono sul camioncino abbandonando al nostro destino me e il povero fuochista.
Non ci crederete, ma mentre Casanova inveiva contro i nostri ex compagni di lavoro, a me rimasero impressi il loro capo chino e l’umiliazione che avevo colto nei loro occhi, insomma sentii che non avrei mai potuto prendermela con loro, ma con chi, con il ricatto del lavoro, li costringeva a tanto.
Persi il lavoro ma per le mie spettanze il giudice, al quale mi ero rivolto, decise un compenso di 100 mila lire. Mio padre ne spese 95 mila per comprare la nostra prima televisione, una Allocchio Bacchini. E io senza ancora rendermene conto avevo scoperto la mia vocazione.»