Rodolfo, l’astrofisico che mette in rete il turismo

Caro Diario, come sai mi accade assai di rado, ma ogni tanto lo faccio, nel senso che rinuncio al piacere del racconto e lascio la parola ai protagonisti. Sì, questa volta faccio proprio così, Rodolfo Baggio si racconta da solo così bene che non serve aggiungere altro.
Leggilo, e poi vedi se non ho ragione.

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«Ho 63 anni, sono napoletano di nascita e sono stato, come dico spesso, “deportato” da piccolo a Milano. Da allora ci vivo.
Ho frequentato un liceo classico, con alterne fortune. Sempre stato uno di quelli che “è bravo ma non si impegna…”, e, ai tempi, poco entusiasta. Anche se poi, con gli anni, ho apprezzato molto quella formazione di base.

La musica cambia quando approdo all’università. Corso di laurea in Fisica, quello che avevo sognato di fare fin da quando, con un caro amico, passavo i pomeriggi a fare cose, costruire marchingegni e far esperimenti modificando i pezzi di un meccano o di un piccolo chimico.
Qui finalmente mi impegno. Non ho mai seguito molti corsi ufficiali, ma la voglia di studiare e capire i fenomeni mi ha portato a laurearmi in maniera più che decente (mi sono solo giocato la lode per un “inconveniente” tecnico). L’argomento scelto è l’astrofisica. Rifuggo da sempre le eccessive specializzazioni e quello era l’area più “generale” possibile.

La tesi è un periodo divertente. Il lavoro che facciamo, col mio relatore, uno dei non molti veri maestri che ho avuto il privilegio di conoscere, è la verifica di un metodo di rilevazione dei raggi cosmici nell’atmosfera terrestre che in quel periodo alcuni dei vari guru andavano proponendo. Verifichiamo e dimostriamo che non funziona. Mi ha sempre affascinato demolire idee preconcette. Non tutti, nella comunità scientifica ci apprezzano, ma circa tre anni dopo ricevo una telefonata del mio relatore (ex a questo punto, ma caro amico) che, di ritorno da un mega congresso internazionale, mi annuncia: “Finalmente ci han dato ragione”. Una bella soddisfazione. Per un paio di anni continuo a far ricerca nel campo (allargandomi anche alla radioastronomia), ma dopo un po’ capisco che non ci sono molti spazi. Cambio e vado “a lavorare”.

Entro in una delle grosse multinazionali dell’informatica e ci passo una quindicina di anni. Privilegiato, o fortunato, riesco a cambiare mansioni abbastanza spesso, abbastanza da non sentirmi annoiato. Si perché una delle cose che mi ha sempre affascinato è andar su strade nuove, imparare nuove cose, studiare nuovi mondi e nuovi problemi e cercare di capire i meccanismi di fenomeni e sistemi. Sono un curioso patologico, non riesco a stare con le mani in mano di fronte a un cassetto.
Oggi lo ripeto spesso ai miei studenti, la curiosità è un elemento cruciale, soprattutto nel mondo interconnesso e globalizzato che frequentiamo. Senza quella spinta perdiamo tantissimo delle opportunità che ci si presentano. E senza la curiosità, unita a una buona preparazione di base, è difficile dar contributi sensati, a qualunque cosa. Serendipity era la parola d’ordine fra i fisici e gli scienziati che ho frequentato da piccolo. Quella strana caratteristica che ti permette di vedere cose che altri non vedono e di imbattersi in scoperte o invenzioni.

Quando comincio a capire che cambiare ancora all’interno della stessa azienda potrebbe non essere più così facile emigro verso altri lidi. Divento capo del settore informatico di un’azienda di spedizioni. Scopro la logistica e i suoi infiniti problemi. In quel periodo scopro anche uno strano mondo fatto di reti di computer di modem di connessioni lentissime ma che ti permettono l’accesso a un mondo fantastico. Internet è ancora un ambiente per pochi, ma ci vedo, come molti altri, una buona capacità di sviluppo.
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Dopo qualche anno comincio a sentirmi un po’ troppo “fermo” e cambio di nuovo. Faccio il grande salto e divento un libero pensatore. Consulente su questioni informatiche e comincio anche a tenere qualche corso, soprattutto sulla Rete e sui suoi strumenti. Collaboro anche a quella incredibile avventura, oggi un po’ dimenticata, della rete civica milanese, che in pochissimo tempo e con mezzi ridicoli (ancora una BBS per chi se le ricorda, cui collegarsi via linea telefonica a velocità che oggi sembrano ridicole) diventa una delle più grandi d’Europa.

Ritrovo anche una vecchia conoscenza che è diventato un docente universitario e che mi chiede di portare nella sua aula la mia testimonianza. Dopo qualche tempo comincio a collaborare col gruppo che si occupa di turismo. Sono l’unico che “capisce di computer” e l’avvento di Internet sta cambiando radicalmente il settore. Sono felice. Insegnare mi è sempre piaciuto e poi ho tempo di studiare (altra cosa che adoro) e di cominciare a far ricerca. Che è poi quel che avrei voluto fare fin dall’inizio, anche se in un altro campo.

Comincio a scrivere articoli che vengono pubblicati e a partecipare a convegni e seminari internazionali, e conosco molte persone. Mi guardano un po’ strano. Non so quante volte ho dovuto cercar di spiegare cosa ci faceva un fisico (astronomo per di più) a occuparsi di turismo, e ho molte discussioni, alcune vivaci, perché, come detto, per natura e per formazione sono uno spiritaccio critico e non accetto facilmente le affermazioni di altri se non ben documentate e provate. Mi viene sempre in mente quello splendido passaggio di uno dei libri più affascinanti che conosco, il Saggiatore, nel quale Galileo dice: “Mi sembra, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, senza l’appoggio di discorso d’un altro, dovesse rimanere sterile ed infeconda”. Ho sempre fatto il possibile perché la mia mente restasse “sana”.

Una sera, di fronte a una delle poche buone pizze che si possono trovare a Milano, chiacchiero con un amico inglese che è il direttore di una scuola di turismo all’università del Queensland, in Australia. Non so come finiamo sul discorso, ma cominciamo a discutere di dottorati (PhD). Io non ce l’ho, quando mi sono laureato in Italia non esisteva, e anche all’estero non era comunissimo.

Non so perché ma mi vien voglia di provarci. Penso che fare un lavoro strutturato di ricerca in una buona scuola (l’università del Queensland è una delle prime 50 al mondo) possa essere interessante. Non mi nascondo le possibili difficoltà. Ho 55 anni, non sono propriamente un ragazzino. Lavoro come libero professionista e, come si sa, il tempo libero quando si può contare solo su sé stessi, non è poi tantissimo. Ho anche una famiglia, e i figli, anche se non piccolissimi, comunque ci sono, e una moglie pure. Ma l’occasione di tornare a studiare seriamente e di imparare cose nuove mi affascina troppo.

Comincio. Sono registrato come “remote student” che vuol dire che lavoro stando a Milano, con solo qualche puntata in Australia un paio di volte l’anno. Il tempo richiesto è di almeno tre anni. L’argomento lo scelgo io. E su questo ho le idee abbastanza chiare. Un paio di anni prima avevo trovato per caso (serendipità …) un articolo che parlava di reti e di sistemi complessi. Si era all’inizio dell’esplosione dei lavori sulle reti. Mi sono ricordato quasi improvvisamente di essere un fisico e l’articolo era su una rivista di fisica. Quale migliore argomento? Mi occupo di turismo ed è facile vedere come una destinazione turistica sia una rete di aziende e organizzazioni varie, connesse da legami non sempre facili da capire. La domanda che mi faccio è: se uso queste tecniche abbastanza nuove per esaminare un sistema turistico, ne posso ricavare informazioni interessanti, utili, stimolanti?
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Comincia un periodo abbastanza faticoso. Devo raccogliere i dati necessari, studiare cose nuove e ristudiare cose dimenticate. Interpretare fenomeni che conosco poco e coi quali non ho grande familiarità, tener conto di fattori a me abbastanza lontani come quelli economici, sociali, aziendali e così via. Devo anche “costruirmi” i vari strumenti per l’analisi, non ci sono molti programmi già fatti in giro, l’area è molto nuova.

Mi rendo conto che ho dei limiti e che forse trent’anni prima queste cose sarebbero state molto più semplici per me, sono arrugginito su tutta una serie di aspetti tecnici (tipicamente matematici). Spesso mi ricordo e ne capisco il senso, ma poi mi serve la pratica, e su quella si fa molta fatica. Passo moltissime delle mie serate e quasi tutti i weekend a lavorarci su. Sono fortunato però. Ho una famiglia per la quale un individuo con un libro in mano e che stia studiando è quasi intoccabile. E ho due relatori che sono delle persone eccezionali. Uno, di grande esperienza (l’amico inglese) che disegna la strategia generale, e l‘altro che ho conosciuto da poco, che mi segue passo passo, senza quasi lasciarmi respirare. Abbiamo spesso discussioni abbastanza intense, anche perché veniamo da formazioni diverse (loro di tipo sociologico, molto più qualitativi, io decisamente quantitativo) e questo mi fa capire e vedere cose che prima non avevo avuto modo di vedere. Mi accorgo anche  di una cosa che dalle nostre parti potrebbe a volte sembrare strana. I due sono amici, quando ci si vede passiamo magnifiche serate, ma quando si lavora i ruoli sono chiari, io sono lo studente e loro i professori. Non ti lasciano scappare niente. Una grande lezione.

Ci metto due anni e mezzo. Consegno la tesi con sei mesi di anticipo sulla scadenza naturale (quasi non volevano farmela consegnare…). Prima conclusione: se ci si mette con impegno, si può fare. A volte mi meraviglio di sentirmi dire da qualche studente: sono stato troppo occupato per finire quel lavoro. Ma forse nessuno ha insegnato loro a lavorare in un certo modo e a concentrarsi. Io questa lezione l’ho imparata nei primi anni di lavoro. La multinazionale famosa aveva ritmi e scadenze a volte feroci, ma la lezione è stata utile.

La tesi, alla fine, arriva dove volevo arrivare. A me pare un buon lavoro, ma resto comunque sorpreso quando mi comunicano che mi è stato assegnato il premio del rettore dell’università come tesi di dottorato di eccezionale valore. Un bel riconoscimento. La tesi è poi diventata un libro che fra l’altro è uno dei lavori più citati nel campo, insieme con altri articoli sulle riviste scientifiche più importanti che si occupano di turismo. Non sono uno che si vanti, e cerco di fare il mio lavoro, la ricerca, al meglio possibile, anche se praticamente da solo e senza mezzi (mi considero un volontario), ma ricevere mail che ti chiedono aiuto da parte di ricercatori e studenti di mezzo mondo fa indubbiamente piacere. Cominciano quasi tutte dicendo che sono un’autorità nell’applicazione di tecniche di analisi di reti complesse nel turismo. Non so quanto ciò sia vero, probabilmente no, ma sono sicuro di essere stato il primo.

La soddisfazione maggiore è vedere che il numero di citazioni dei miei articoli continua a crescere e ho scoperto di essere finito in una lista dei cento ricercatori di turismo più citati degli ultimi cinque anni. Mi dà la sensazione di aver fatto finora qualcosa di utile per la comunità e di aver dato un contributo, per quanto piccolo, all’avanzamento della conoscenza in questo campo. Che poi è l’unica vera motivazione di chi fa ricerca, o lo dovrebbe essere. E questo mi dà la spinta a continuare.

Una noterella di costume. Ho notato subito il cambio di atteggiamento dei miei colleghi accademici internazionali. Avere un PhD vuol dire fare “parte del gruppo” e ti guardano in altro modo. Anche se molti dei miei lavori erano stati pubblicati prima ed ero già abbastanza conosciuto (almeno da quelli che si occupano di tecnologie e turismo), “nu piezz ‘e carta” fa una certa differenza. Non solo da noi. E a proposito di pezzi di carta ho saputo da poco di aver passato il processo di abilitazione nazionale per i professori universitari di seconda fascia (in pratica professore associato). Che, per un totale outsider nel tanto vituperato (e abbastanza chiuso) mondo accademico italiano, non è un cattivo risultato. Per ora però sono ancora un estraneo, non ho “posizioni formali” o “strutturate”, e dubito di riuscire ad averne in tempi brevi, nei pochi anni di attività che mi restano.

E da qui nasce l’unico mio grosso dispiacere: quello di non essere riuscito a costruire una “scuola”. A formare dei giovani che possano continuare su questa strada. In questo Paese, purtroppo, la sensibilità verso la ricerca non è alta; le università sono ancora mondi abbastanza chiusi, e le aziende, in particolare nel turismo, vedono la ricerca, e soprattutto la ricerca di base, come una specie di divertimento “inutile” per accademici. Posso solo sperare che altri costruiscano, anche partendo dai miei lavori. Alcuni lo stanno facendo, ma finora in maniera abbastanza sporadica.»