Caro Diario, ormai lo sai, ogni volta che posso mi piace citare le parole di Karl Weick (1997), Barry Lopez (1999) e Richard Sennett (2002) per spiegare perché mi piace raccontare storie. Nel caso te le fossi perse, sono, nell’ordine, le seguenti:
“Le storie aiutano la comprensione, perché integrano quello che si sa di un evento con quello che è ipotizzato […]; suggeriscono un ordine causale tra eventi che in origine sono percepiti come non interconnessi […]; consentono di parlare di cose assenti e di connetterle con cose presenti a vantaggio del significato […]; sono mnemotecniche che permettono di ricostruire eventi complessi precedenti […]; possono guidare l’azione prima che siano formulate delle routine e possono arricchire le routine quando sono state formulate […]; consentono di costruire un database dell’esperienza da cui è possibile inferire come vanno le cose”.
“Le storie che raccontiamo alla fine si prendono cura di noi. A volte una persona per sopravvivere ha bisogno di una storia più ancora che di cibo. Ecco perché inseriamo queste storie nella memoria gli uni degli altri. È il nostro modo di prenderci cura di noi stessi”.
“Un racconto non è solo un semplice susseguirsi di eventi, ma dà forma al trascorrere del tempo, indica cause, segnala conseguenze possibili”.
Ecco amico mio, ti volevo dire che certe volte per spiegare perché mi piace raccontare storie non serve citare Weick, Sennett e Lopez, basta leggere racconti come questo di Orietta e il resto viene da sé. Perché nel mondo del lavoro ben fatto, quello popolato da persone vere, i miti del nostro tempo, insomma il mondo che piace a noi, non sono mica solo rose e fiori, si inciampa, si sbaglia, si prendono mazzate sulla noce del collo, si, proprio su di lei, Atlante (C1), la prima vertebra cervicale della colonna vertebrale, che non è mica scontato che ce la fai a riprenderti. Però è lì che viene fuori il daimon, il codice dell’anima, la streppegna, è lui che fa la differenza, ed allora accade che … meglio che leggi la storia di Orietta, che altrimenti non la finisco più.
“Mi chiamo Orietta Serafini, sono a Napoli dal 1994, ci sono venuta per amore, lasciandomi alle spalle il lavoro nell’azienda di famiglia e lo studio alla mitica Facoltà di Architettura di Valle Giulia quando mi mancava un’esame e la tesi alla laurea.
All’inizio lavoro come arredatrice in un’impresa che si occupa di forniture per ufficio, sono gli anni del boom informatico, l’informatica mi incuriosisce, con il mio primo computer è amore a prima vista.
Per progettare comincio a usare il Cad e nonostante sia autodidatta me la cavo bene, ma scopro presto che la mia passione è la rete, questo nuovo mondo chiamato world wide web mi affascina, voglio capire come funziona.
Imparo, sempre da autodidatta, anche perché tra lavoro e famiglia tempo per frequentare i corsi non ce n’è, ad utilizzare il buon vecchio html e comincio a realizzare i miei primi esperimenti di web design.
La cosa mi piace, mi piace molto, perché creatività e tecnologia si fondono perfettamente, però nel frattempo l’azienda per cui lavoro entra in crisi e decido di licenziarmi.
Il mio nuovo posto di lavoro è presso un’agenzia web, percorro con qualsiasi tempo 40 km al giorno con il mio scooter 50cc per raggiungerlo, ma imparo, imparo moltissimo, e questo mi ripaga di tutta la stanchezza.
Quando mi rendo conto che non ho più nulla da imparare decido, tra mille dubbi e ripensamenti, di proseguire la mia formazione in autonomia, di approcciare i nuovi linguaggi di programmazione per la creazione dei così detti “siti dinamici”, di mollare il lavoro e di mettermi in proprio.
La scelta si dimostra non proprio felicissima. Da sola, non ce la faccio a seguire il lato creativo e produttivo insieme a quello commerciale, e inoltre in quegli anni il web è ancora, per la maggior parte delle persone, soprattutto al Sud, un mondo sconosciuto.
In compenso fioriscono i corsi di formazione a livello universitario e quindi comincio a collaborare con la cattedra di Scienze della Comunicazione dell’Università Suor Orsola Benincasa e svolgo per loro una serie di seminari, di attività di formazione e di laboratori, e in più ricomincio a studiare per crearmi una competenza nel settore in cui sto operando.
Mi laureo in Scienze dell’Educazione con una tesi sulla formazione a distanza (Fad).
Anche se il lato tecnologico ha ormai preso il sopravvento su quello creativo, penso che le cose stiano cominciando finalmente a prendere forma nella mia vita quando accade l’evento che spariglia le carte, quello che azzera tutti i risultati che credevi di avere raggiunto, che ti getta tutte le carte sottosopra, che confonde anche l’ultima e più intima emozione.
Cosa accade? Accade che per motivi di salute sono costretta a fermarmi due anni. Accade che nulla, dopo, è più come prima.
La mia energia, il mio entusiasmo, non ci sono più, sono evaporati, scomparsi. Sì, si, certo, qualcosa faccio, coltivo fiori, cucino, arredo la casa, faccio i compiti con i miei figli, ma la mia testa non sta lì.
Combatto una battaglia assai feroce con la mia malattia, l’ansia mi divora, gli attacchi di panico alzano muri invalicabili intorno a me, è per sfuggire a tutto questo – una vita così non è degna di chiamarsi vita – che ricomincio a disegnare.
Ah, non vi ho detto ancora che ho sempre avuto una passione per i gioielli, quelli che non luccicano ma conservano il gesto di chi li ha creati, oggetti molto personali, sintetici nella forma e nel materiale.
Ecco, adesso che ve l’ho detto posso aggiungere che disegno e l’ansia si dissolve, non torno più all’Università voglio imparare a dare forma alle mie visioni.
Tra tentativi drammatici ed errori, imparo ad usare il traforo, nascono i miei primi gioielli. Ho una buona manualità e non mi scoraggio, dalle forme semplici passo a quelle sempre più complesse, imparo a saldare e poi a lavorare la cera.
Leggo, mi informo in rete, chiedo aiuto e consigli a chi è più esperto di me e, nel frattempo, ricomincio a vivere.
Mi rimane da fare un passo importante, di più, decisivo, trovare il modo di vendere i miei gioielli senza renderli inaccessibili. Trovo la possibilità di farlo quando incontro, in uno dei tanti “mercatini natalizi” ai quali partecipo, Brigida Ricci. Lei e suo marito, Nino Postiglione, hanno avuto un’idea bella e innovativa, quella di creare un‘associazione che mette a disposizione uno spazio in cui ogni artigiano può esporre e vendere le proprie creazioni pagando una cifra mensile irrisoria rispetto ai costi di un negozio.
Così porto i miei gioielli da Mabruk E20 che in egiziano significa “in bocca al lupo”, e comincio a frequentare il piccolo negozio nel cortile del palazzo di Via Cavallerizza, quartiere Chiaja.
Frequentando il laboratorio di Nino affino le mie competenze orafe e le unisco a quelle tecnologiche, e così tutti i miei disegni a mano libera sono riprodotti con il Cad, promuovo le mie creazioni creando un sito web, Dora Gioielli (da Δωρα, dora, in greco doni) e una omonima pagina Facebook, comincio insomma ad “intraprendere”, a “fare impresa”, mescolando creatività, manualità, passione e tecnologia.
Da qui in poi la mia attività al negozio diventa sempre più intensa, creo un sito per web per l’associazione, organizzo con Brigida eventi ed insieme cominciamo ad immaginare strategie per crescere e alla fine decidiamo di provare a creare uno spazio più grande e più visibile che possa raccogliere un numero maggiore di artigiani.
In questi ultimi mesi abbiamo mandato mail, contattato artigiani, visitato negozi in fitto e alla fine siamo riuscite nel nostro intento: il prossimo Primo Ottobre 2014 apriremo il nostro nuovo spazio in Largo Ferrandina 1. Ospiterà 25 artigiani che lavorano in settori merceologici diversi suddivisi in due macro categorie, moda e arredo, ci saranno perciò ceramiche, gioielli, oggetti di design, abbigliamento, accessori, tutti sempre, rigorosamente, handmade e con una formula che consente di vendere direttamente dal produttore al consumatore.
I progetti futuri? Tanti, tantissimi. Te ne dico due: il desiderio di creare uno spazio animato, punto di incontro per la creatività, in grado di ospitare mostre temporanee, seminari e corsi di formazione; la voglia di attivare una rete di collaborazione con altre realtà analoghe, con l’obiettivo di scambiare bellezza, di diffondere la produzione dei nostri artigiani e di accogliere quella di altri artigiani e artisti che operano in altre parti d’Italia, e all’estero.
Ecco, questo è tutto, anzi no, perché prima di finire voglio dire un’ultima cosa.
Ogni artigiano che partecipa alla nostra associazione ha una storia diversa, ma in molti hanno in comune lo stesso desiderio di reinventare il proprio lavoro, di trasformare la propria passione in impegno, di fare un lavoro che non sia solo fatica, nel quale manualità e creatività si saldano e per questa via aderisce meglio e di più alla dimensione individuale di ciascuno.
Ecco, in un’epoca di ‘lavoro negato’ io penso che anche questa può essere una strategia che consente di conservare la propria dignità, di recuperare la fiducia in se stessi e la voglia di fare, di essere consapevoli che nessun percorso è facile e che la meta è sempre l’inizio del percorso successivo.”