Le parole sono importanti. Senza di esse, senza il linguaggio, l’imprevedibile, affascinante miscuglio di cose, fatti, ragioni, passioni, sentimenti che chiamiamo realtà sarebbe per noi praticamente inaccessibile, dato che non sapremmo come comunicarla e dunque come condividerla. Ludwig Wittgenstein avrebbe detto, ha scritto, “che ogni parola ha un significato e che questo significato è associato alla parola, è l’oggetto per il quale la parola sta”; Michele, uno dei personaggi nati dall’ingegno di Eduardo De Filippo, che “c’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare? Parliamo co’ ’e parole juste ca si no m’imbroglio”. Ecco, io sono da sempre un follower del grande Eduardo, e tengo la stessa fissazione di Michele, se non uso le parole nella maniera giusta mi imbroglio.
Prendiamo “start-up”.
Se si vuole parlarne sparando nel mucchio, senza tenere conto di complessità e differenze, si può anche dire che sono fuffa e che è meglio aprire una pizzeria, alla fine è come dire che tutti quelli che vanno allo stadio sono razzisti o che tutti quelli di Secondigliano, il mio quartiere, sono camorristi.
Se si vuole parlarne sul serio, tenendo conto della realtà delle cose, invece no.
La realtà delle cose dice per esempio che nella sola sezione delle start-up innovative al 12 maggio 2014 nel nostro Paese sono registrate 2033 società, suddivise per regione come nella tabella. Che alle spalle dell’attuale e controversa esplosione delle start-up ci sono un lavoro fatto con passione e impegno, un’ampia consultazione, il rapporto Restart Italia, un corpus di regole (non solo la legge ma anche i regolamenti di attuazione). Che tutto questo è senza precedenti nella storia d’Italia e contribuisce ad accelerare l’innovazione del Paese. Il cambiamento di approccio e di cultura di cui ha bisogno.
Facciamo un esempio? Si chiama NaStartUp ed è l’evento napoletano per sviluppare networking per l’ecosistema delle start-up ideato e promosso da Antonio Prigiobbo, Antonio Savarese e Max Morgante, un vero e proprio incubatore / acceleratore dal basso per le start-up made in Naples che si incontrano ogni mese per scambiare idee e progetti, sviluppare rapporti commerciali, trovare investitori.
Se lo chiedi a Prigiobbo, Savarese e Morgante ti raccontano che la loro iniziativa “è rivolta a chi vuole avviare una start-up, a chi deve far crescere la sua start-up, a chi è interessato a nuove forme d’investimento, a chi si è stancato del suo lavoro e vuole crearne uno nuovo, a chi vuole semplicemente capire il fenomeno e questa economia e a chi è semplicemente curioso, della serie non si può mai sapere.
Per ogni incontro preselezioniamo tra le tante candidature le idee di impresa innovative che verranno presentate alla community. Nelle prime tre edizioni abbiamo acceso i riflettori su 15 startup rappresentative dei principali settori dell’economia italiana: biotech, food , turismo, domotica, etc ma soprattutto abbiamo reso “pop” un argomento spesso visto solo come di nicchia”.
Ecco, questo è una parte di quello che sta accadendo a Napoli, ma tanto altro sta accadendo anche lontano dalle grandi città. Facciamo anche qui qualche esempio?
Start-up rurali; progetti di valorizzazione culturale ed economica basati sul recupero e l’attualizzazione di settori come quello primario o come l’artigianato; uso resiliente del territorio e allo sviluppo di attività come il turismo di qualità o le stesse tradizioni enogastronomiche; recupero della memoria che le nuove tecnologie possono sostenere in maniera più convincente di quanto non si sia fatto con i media tradizionali; start-up sociali che potrebbero dedicarsi a nuovi servizi di welfare di interesse pubblico (telemedicina, alfabetizzazione, socializzazione, cittadinanza attiva, ecc.) non direttamente gestibili in una logica di puro mercato che potrebbero generare processi di collaborazione e di integrazione strategica con enti pubblici e diventare un ulteriore tassello delle politiche di diffusione di impresa e di sviluppo dell’occupazione (non sarebbe neanche la prima volta che accade, basti pensare all’esperienza dell’inizio del secolo breve, quando l’iniziativa delle Società di Mutuo Soccorso fu decisiva per sostenere il passaggio dell’Italia da società agricola a società industriale, o anche all’esperienza delle 150 Ore e ai processi di alfabetizzazione dei lavoratori a partire dagli anni 60).
Tutto questo per dire che quello in atto potrebbe essere di più di un puro processo economico, che ha a che fare con l’approccio, con la cultura, che anche per questo va aiutato a crescere, va valorizzato e sostenuto. Come? Ad esempio rendendo sempre più esplicite le connessioni esistenti tra creazione di lavoro e creazione d’impresa; svincolando il carattere innovativo dell’impresa o della start-up dal settore di appartenenza per rapportarlo a parametri come la forza lavoro qualificata presente in azienda, il rapporto con incubatori certificati, con l’università e la ricerca, la qualità e la quantità delle transazioni con le imprese medio grandi e con gli investitori industriali e finanziari; o anche, come mi ha detto recentemente Domenico Romano, assai giovane e ancor più creativo Direttore Marketing della Original Marines, “offrendo agli startupper occasioni di confronto vere per valutare le effettive potenzialità delle loro creature, per capire se possono reggere o meno la sfida del mercato, per insistere quando è opportuno farlo e cambiare strada quando invece no”.
Io dico che Domenico ha ragione, che non si tratta di mettere le pizze, o le magliette, da un lato della lavagna e le start-up dall’altro, ma di mettere le pizze, e le magliette, e le start-up, e il lavoro, e l’impresa ben fatta da un lato e quelle che invece no dall’altro, che nell’Italia delle cose ben fatte c’è ancora tanto spazio per le buone idee, per il buon lavoro, per la buona impresa.
Perché si, il punto è fare bene, cercare di dare spazio, nella nuova foresta digitale, non soltanto ai leoni ma anche alle gazzelle, sapendo che non sono certo le start-up da sole la panacea per i problemi del Paese.
Lo vogliamo dire che l’Italia ha bisogno di tanto altro? Ad esempio di rendere più forte la propria vocazione industriale? Di investire nella scuola, nella formazione, nella conoscenza? Di dotarsi di una politica per l’innovazione e la ricerca scientifica? Di mettere al centro delle sue strategie per il futuro prossimo venturo le città, i distretti, i territori? Di incentivare e sostenere la transizione delle PMI, tutte, non solo quelle innovative, verso l’economia digitale? Di attivare processi di partecipazione in grado di elaborare proposte e di supportare le decisioni in materia di innovazione a livello locale?
Ma sì, diciamolo, che così diciamo pure che l’Italia che ce la fa è l’Italia che dà valore al lavoro, l’Italia che ama fare bene le cose perché è così che si fa, l’Italia dal cuore artigiano, l’Italia dei Gianluca Manca, 29 anni, che due anni fa, insieme a Gennaro Mangani e a Salvatore e Stefano Imparato, ha avviato Intertwine.
A Gianluca basta che glielo chiedi e ti racconta che l’auto impiego è la prospettiva migliore che ha la sua generazione, che in questi 2 anni ha imparato tante cose, è cresciuto, ha avuto tante soddisfazioni, che il fatto che il digitale ti permetta di inventarti un lavoro senza bisogno dei capitali che servivano quando dovevi aprire una fabbrica non vuol dire mica che sia facile, che loro hanno lavorato per 1 anno e mezzo in un deposito, senza “vedere” un euro, e che anche adesso che sono stati finanziati e lavorano con grossi gruppi editoriali hanno uno stipendio è di 525€ al mese.
“Non lo so dove saremo tra un anno, o meglio, lo so, con i miei amici lavoriamo duro ogni giorno per arrivarci, ma non posso dire che sono sicuro che ci arriveremo. Una cosa però è certa: io due anni fa avevo paura del mio futuro, mi svegliavo la mattina con l’angoscia di quello che dovevo fare il giorno dopo. Adesso no. Sono guarito. A prescindere. E questo per me vale molto.”