Università: ne vogliamo parlare? E parliamone!

Stavo facendo come faccio sempre in questi casi, avevo già cliccato su «aggiungi nuovo articolo», poi però ho pensato che questa riflessione – proposta di Luigi Glielmo sul bisogno di internazionalizzazione dell’università italiana, quella meridionale in primo luogo, si sarebbe integrata bene con la riflessione – esperienza di Maria D’Ambrosio sul «senso» del fare didattica e ricerca oggi, e dunque eccoli qua Luigi e Maria a fare da apri pista in una discussione sulla nostra università che rimane più che mai aperta. Buona partecipazione.
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Caro Vincenzo,
ci sono vari aspetti della vita accademica americana che mi avevano colpito in occasione dei miei soggiorni da dottorando prima e poi da “postdoc”, parlo degli anni 1989 e 1990. Uno è che nei corridoi la gente non si saluta, ci si incrocia in fretta – qualcuno ti mormora un “how are you?” a cui vorresti rispondere ma poi scopri che quello è già passato oltre e che la frase equivale al nostro ciao – e si corre rapidamente al posto di lavoro.  E’ un segno che la vita sociale è più labile della nostra, certo, ma anche che sono tutti d’accordo che non si deve perder tempo. Un altro aspetto è la varia provenienza del corpo docente e degli studenti: giapponesi, cinesi, coreani, indiani, australiani, europei ovviamente, sudamericani, insomma c’è di tutto, di più.  Ricordo un professore abbastanza noto del mio settore – lavoratore instancabile e possessore di una Ferrari che teneva nascosta ai suoi studenti ma mostrava a uno studente non suo, e pure italiano, come me – che quell’anno riunì i suoi studenti in dipartimento il giorno di Natale, tanto erano tutti orientali e fuori dalle nostre tradizioni (si, l’università era aperta!,  o meglio tutti potevano entrare avendo le chiavi).

Tornato in Italia, potei apprezzare il calore degli incontri in corridoio, con tutti italiani però!  Sì, perché in Italia di stranieri ce n’erano davvero pochi, anzi a Napoli, al mio dipartimento di informatica e sistemistica, nessuno. Abbastanza presto ho scoperto che ci sono studenti, dottorandi e postdoc nelle università del Regno Unito, in Francia, anche in Germania e in Austria; da noi ce ne sono negli ultimi tempi un po’ di più che nel passato, ma sempre piuttosto pochi.  Qualche anno fa discutevo di queste cose con un collega di Sheffield e gli raccontavo del mio desiderio di aprire le porte a studenti dall’India o dalla Cina e lui mi fece una osservazione che ricordo sempre:  ma perché farli venire dall’India o dalla Cina?  Vedo tutto questi ragazzi nord africani per le strade di Napoli, tra di loro, assieme a quelli che scappano per la fame e la miseria, non ci sarà anche qualcuno a cui piacerebbe tanto continuare gli studi?
Si, caro Vincenzo, questa osservazione del mio collega mi ha colpito e come sai sono un po’ di anni che ho in mente di organizzare un’importazione di cervelli che possa almeno parzialmente l’esportazione verso il Nord d’Italia o d’Europa.  Inizialmente pensavo soprattutto a studenti di dottorato ma ora che le università del Sud perdono anche immatricolati a favore degli atenei settentrionali, dovremmo pensare di importare anche studenti dei corsi di laurea magistrale (per la triennale mi pare più difficile la selezione).  E così come il Comune di Riace ha potuto rivitalizzare la cittadina oramai spopolata ospitando e dando lavoro a tanti migranti, credo proprio che una buona iniezione di studenti stranieri, provenienti dal Sud del nostro Sud, darebbe una svolta al sistema universitario meridionale.
Per fare un esempio che mi riguarda direttamente, basterebbero 50-70 bravi studenti di magistrale in più all’anno per rinvigorire sostanzialmente le attività di didattica e di ricerca dell’Ingegneria dell’Università del Sannio; e lo stesso varrebbe per i corsi di Economia e Management, di Giurisprudenza, di Biologia, di Geologia. Del resto se pure il nostro MIUR si sta accorgendo che l’internazionalizzazione è un aspetto importante della vita del sistema universitario italiano vuol dire che il tema davvero non è più così di frontiera come si potrebbe immaginare.
La mia proposta è semplice: creiamo un centro meridionale che, con l’aiuto di fondi nazionali ed europei, finanzi il viaggio, la permanenza e gli studi di un numero significativo di studenti meritevoli provenienti dal Mediterraneo e dai Balcani e ne curi la distribuzione tra gli atenei collegati in base alle specializzazioni richieste. Naturalmente è una proposta che può essere arricchita e migliorata, però come dici sempre tu se non facciamo il primo passo non partiamo mai.
Un abbraccio.
Luigi

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Caro Vincenzo,
ancora una volta sei riuscito a sorprendermi. Si, quando ho letto il messaggio in chat con il riferimento al fatto che sul tuo blog ci stanno i racconti di tutte le esperienze che stai e stiamo facendo alla scoperta dei  tanti nessi possibili tra #lavorobenfatto, #tecnologie e #consapevolezza e che manca solo quello che si riferisce al Corso di Formazione e Cultura Digitale del Suor Orsola Benincasa prima ho sorriso e poi mi sono detta «caspita, da un certo punto di vista Vincenzo ha ragione.». 
Da un certo punto di vista perché come sai bene – sei tu che sostieni che così è più facile che i nostri studenti interagiscano – noi il nostro diario lo scriviamo in presa diretta in un gruppo su Facebook che di certo non a caso abbiamo chiamato Per un uso civico delle tecnologie. Ti confesso che per un attimo ho avuto la tentazione di cavarmela invitando i tuoi lettori a fare un salto da quelle parti, ma era evidente che in questo modo avrei eluso la tua vera richiesta, quella di raccontare a che punto siamo con questo nostro tentativo di mettere in campo ragioni e motivazioni in grado di spingere i nostri studenti a pensarsi, e dunque a essere, studenti invece che cacciatori di crediti, produttori piuttosto che consumatori di contenuti – in una parola autori -, insomma come diresti tu citando il tuo mitico Totò: «studenti che studiano e hanno la testa al proprio posto, cioè sul collo».

Dunque, a che punto siamo. Siamo sicuramente su una strada in salita. In salita perché a venti anni i ragazzi hanno pensieri e modi di fare già abbastanza strutturati, definiti. Perché lo stesso sistema universitario li spinge a cacciare crediti più che a studiare, ad accumulare contenuti – avrei potuto dire nozioni – piuttosto che a imparare a ragionare, con metodo, consapevolezza e senso critico. Perché mettere l’accento – come ho fatto anche quest’anno negli obiettivi del corso sul sito dell’ateneo – sulla necessità di pensare la rete come spazio di relazione e di comunicazione da cui possono emergere identità, comunità e saperi sempre più connessi e intelligenti, e come da questa necessità possano nascere delle opportunità è bello ma di per sé non basta, per essere credibile bisogna che oltre che bello diventi ai loro occhi anche utile, conveniente. E perché mentre tutto questo e molto altro accade fuori dalle nostra aule grazie a Internet e alle nuove tecnologie cambia la cultura, la società, l’economia, la politica, la nostra vita presente e quella futura e i nostri ragazzi non sono sufficientemente preparati – non hanno le briscole giuste – per riconsiderare ciò che è certo e ciò che invece non lo è, quello che vale e quello che invece no, o che comunque non vale nella stessa misura.

Detto questo, aggiungo che sono molto contenta del lavoro che stiamo facendo, del fatto che ragazze e ragazzi come Irene, Emanuele, Vincenzo anche dopo aver fatto l’esame continuino a coltivare i rapporti con noi, che si ritrovino insomma a pensare il #lavorobenfatto, le #tecnologie e la #consapevolezza non come argomenti di esame ma come moltiplicatori di possibilità, come attrezzi con i quali affrontare meglio le loro vite e il loro futuro.
Non so se ti piace l’idea, ma vorrei concludere queste mie brevi considerazioni con le righe con cui ho iniziato il mio racconto ne Il coltello e la rete. Mi piace farlo perché lì ci ho pensato abbastanza, e non ha mai molto senso riscrivere le cose tanto per farlo, si rischia solo di peggiorarle, ma un po’ anche perché mi colgo l’occasione per segnalare il nostro libro ai tuoi lettori. Il pezzo è questo, di certo te lo ricorderai:

« […] Alla fine il senso del mio lavoro sta proprio nel poter insieme fare comunità, nel tentativo di passare dal singolare al plurale, dall’individuo al gruppo aula, e viceversa. A noi docenti spetta il compito di creare il contesto nell’ambito del quale i ragazzi possano trovare le ragioni e le motivazioni per estendere l’unicità di cui sono portatori alla molteplicità cui possono tendere e riconoscersi, fino a diventare una vera comunità di apprendimento. Connettere gli obiettivi didattici all’attuazione di un programma confezionato a priori non è insomma la nostra via, preferiamo piuttosto investire nel gruppo di studenti con il quale lavoreremo e nelle interazioni che si riusciranno a generare per formare e formarsi, a partire naturalmente dalle linee guida che abbiamo definito. Perché come sempre il viaggio prevede un attraversamento e la mappa può essere trasformata in una cartografia che segni passaggi, traiettorie, percorsi più o meno accidentati tra i quali i ragazzi dovranno districarsi un po’ come i loro coetanei della periferia francese che hanno inventato il parkour. Sì, ai futuri professionisti della comunicazione e della formazione proporremo di fermarsi, di pensarci, di saltare gli ostacoli, di arrampicarsi, insomma di domandarsi il perché di queste molteplici connessioni tra gli uomini e le tecnologie, di ragionarne oltre i confini della necessità, negli spazi meno angusti della possibilità e dell’immaginazione.
A pensarci bene, il «perché» introduce alla dinamica proattiva del fare ricerca e del formarsi; è generativo di ulteriori domande – e dunque risposte; contiene in sé la necessità di spostarsi, di cambiare prospettiva, per immaginare un’altra possibilità, una direzione ulteriore da prendere, un destino di cui poter essere autori.»

Ecco, quello che penso io di ciò che stiamo facendo è questo, e ciò che stiamo facendo mi piace così tanto che non vedo l’ora di ricominciare.
 Dopo di che spero davvero che i tuoi lettori trovino il tempo e l’interesse per  andare a curiosare tra i contenuti del gruppo su Facebook e un pochino spero anche che qualche altro nostro studente possa trovare da tutto questo lo stimolo per interagire, magari raccontando questa storia dal suo punto di vista, che credo sarebbe interessante pubblicare qui, che ne dici?
Buona serata.
Maria
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Rodolfo Baggio
Ci sono persone che credi di conoscere e frequentare da sempre, e poi scopri che le hai incontrate per la prima volta solo due anni fa. Vincenzo è una di queste persone. “Affinità elettive” le avrebbe chiamate Goethe. Che vengono da una visione del mondo molto simile e da storie personali che in qualche modo si assomigliano, almeno dal punto di vista culturale e delle idee.
Una “sinistra” caratteristica dell’amico Vincenzo è quella di farti sembrare in difetto, senza dirtelo, ma semplicemente con le cose che fa. Ultimo esempio è la discussione che sta nascendo su internazionalizzazione, università, didattica e ricerca con i bei contributi di Luigi Glielmo, Maria D’Ambrosio e altri. E quando li leggo mi sento tirato per i capelli. Mi piaccion molto le riflessioni che ho letto, e soprattutto trovo la proposta di Luigi estremamente attraente. Io però, caro Luigi, rilancio e miro più in alto.
Il rilancio nasce dalla considerazione dello stato della ricerca, argomento che mi coinvolge particolarmente, visto le cose che faccio da un po’ di tempo in qua. Sì, perché sono del tutto convinto di quel che diceva più di cento anni fa (nel 1891 per la precisione) Frances W. Clarke, geologo americano e padre della geochimica: «Ogni vero ricercatore nel dominio della scienza pura incontra la monotona e ricorrente domanda sullo scopo pratico dei suoi studi, e lui raramente riesce a trovare una risposta esprimibile in termini commerciali. E se non si vede un’utilità immediata, egli viene compatito come sognatore, o colpevolizzato come scialacquatore».
Ora, non devo qui ricordare che la ricerca di base è quella senza la quale oggi non vivremmo così a lungo o riusciremmo (anche se forse non tutti benissimo) a evitare di morir di fame, o a lavorare in condizioni decenti rispetto a poche decine di anni fa, o non ci diletteremmo con gadget di vario genere.
Allora, il rilancio è: pensiamo, oltre alle cose che dice Luigi, anche una qualche forma di istituzione di ricerca interdisciplinare avanzata sui temi che ci interessano. Esempi in tutto il mondo ce ne sono, ma anche nel nostro Paese (Sissa a Trieste, IMT a Lucca, ISI a Torino ecc.). Luoghi dove gruppi di persone, con diverse formazioni e competenze, ma accomunati dal sacro fuoco della curiosità intellettuale, possano liberamente studiare, scoprire, discutere e produrre quella conoscenza di base senza la quale siamo destinati ad essere al traino di chi invece queste cose le fa. Senza dover per forza sapere prima di cominciare quali risultati si otterranno, che se no che “ricerca” sarebbe? E senza necessariamente avere immediati obiettivi “pratici”. Che poi, come è ampiamente dimostrato, quelli vengono, e anche in fretta. Miro troppo alto? Forse, ma se devo sognare lo voglio fare seguendo i precetti dell’amico Vincenzo: voglio farlo bene.

Giorgio Ventre
Che dire, Luigi come al solito ci ha preso. E concordo che l’unica possibile soluzione è un approccio di sistema delle Università del Sud.

Vincenzo Orefice
Ho trovato molto bello il pensiero e il discorso della professoressa D’Ambrosio, e non lo dico per farmi bello perché tanto l’esame l’ho già fatto mesi fa. Per me il suo corso è stata un’esperienza di studio diversa dalle altre perché è stata maggiormente focalizzata sull’obiettivo di riflettere insieme, di mettersi in gioco cercando di essere protagonisti, autori come ci siamo detti più volte, a partire da temi importanti come il lavoro ben fatto, le tecnologie e la consapevolezza necessaria per utilizzarle al meglio. E’ stato richiesto un coinvolgimento da parte degli studenti, maggiore interazione, confronti, scambio di idee e questa la considero una cosa molto bella. Personalmente mi sono impegnato a continuare questo percorso anche dopo l’esame perché penso che questi siano argomenti importanti non solo in una prospettiva di studio e di lavoro ma anche in una prospettiva di vita. Si, sono temi sui quali si può discutere tanto e si possono scoprire sempre cose nuove. In questa nuova esperienza di studio e di approfondimento una delle più belle esperienze per me è stata sicuramente quella vissuta con i bambini di prima della scuola elementare di Soccavo. Discutere con loro di uso consapevole delle tecnologie è stato qualcosa di veramente bello che mi ha colpito e fatto riflettere tanto. Come consiglio ai colleghi studenti posso dire di approfondire sempre le cose che vengono trattate ai corsi universitari, bisogna andare oltre e guardare ogni corso come un percorso di crescita e di miglioramento personale.

Rosaria Peluso
Cara Maria, ho letto con piacere le tue riflessioni in merito alla sua esperienza fatta con gli studenti del Suor Orsola Benincasa durante il Corso di Formazione e Cultura Digitale. La cosa che mi ha colpito di più è il tuo mettere in evidenza come a vent’anni i ragazzi abbiano già pensieri e modi abbastanza strutturati e che l’università, come è concepita oggi, dà soprattutto nozioni e contenuti ma difficilmente spinge i ragazzi a crearsi una “testa pensante”.
Le tue parole mi hanno riportato alla mente le cose che ci siamo detti con Vincenzo quando ci siamo conosciuti; lui mi parlava della sua esperienza fatta con ragazzi di varie età e con i bambini di quinta elementare, del lavoro ben fatto e dell’uso consapevole delle tecnologie, e io pensavo ai miei bimbini di prima elementare che da poco avevano lasciato il “mondo giocoso” della scuola materna. Bambini che naturalmente sono una fonte inesauribile di fantasia, creatività e soprattutto spontaneità, senza le tipiche sovrastrutture dei più grandi. Questi bambini rappresentavano per me un terreno fertile sul quale avrei potuto seminare i principi del lavoro ben fatto per poi poterne raccogliere i frutti dopo i cinque anni della scuola primaria.
Ecco, leggendo le tue parole cara Maria mi sono sentita investita di una grande responsabilità: abituare i miei bimbi a creare connessioni per collegare il pensare al fare. Abituarli al lavoro ben fatto, cioè ad impegnarsi a fare ogni cosa fatta bene, dalla più semplice alla più complessa. Abituarli a pensare con la propria testa in una società che tenta di omologarti a ogni età a un pensiero “comune”, che spesso annienta o comunque non sostiene le personalità creative e critiche. Abituarli a essere utilizzatori consapevoli delle moderne tecnologie e non solo fruitori passivi.
Cara Maria, volevo dirti che io con il l’aiuto di Vincenzo provo a seminare con la speranza di poter raccogliere un giorno buoni frutti. Si, spero tanto che i nostri bambini possano diventare giovani consapevoli e capaci di costruire una società fondata su principi più sani.

Emanuele Esposito
Io penso che nella vita tutti, chi più chi meno, ci troviamo di fronte persone che ci mettono «all’angolo», nel senso buono ovviamente, nel senso che «ci costringono» a pensare. Non so se ci credete, ma tante colte ho sentito dire: «ma dai, ma un corso dove si impara a pensare che corso sarà mai, non impari niente di pratico, è sostanzialmente una perdita di tempo!”. Io penso invece che abbiamo bisogno come non mai di pensare, di collegare il pensare al fare, di condividere quello che pensiamo e facciamo, di confrontarlo con altri punti di vista diversi dai nostri. A me è questo quello che più mi ha affascinato durante il corso tenuto dalla prof. Maria D’Ambrosio e dal prof. Vincenzo Moretti, mi ha affascinato il loro modo di avvicinarsi, di parlare e talvolta anche di chiedere cose agli studenti. Si, lo posso dire in tutta serenità perché l’esame l’ho fatto e non posso essere tacciato di cercare benevolenza, personalmente sono contento che la vita mi abbia fatto trovare in quell’aula universitaria. Grazie.

Massimo Scolaro
Buonasera, io non sono nè uno studente nè un prof. eppure passo molto tempo della mia vita all’università essendo un impiegato tecnico amministrativo. Ho letto l’articolo e mi è piaciuto davvero molto, la ritengo un’opinione e un punto di vista notevole sul mondo dell’insegnamento e soprattutto sull’uso della rete come veicolo di formazione e di apprendimento. Mi viene naturale pensare alla mia esperienza personale in un contesto per molti tratti simile. Soprattutto mi viene spontaneo pensare al divario culturale tra chi considera ancora la rete come un grosso gioco e chi vorrebbe usarla o la usa per ampliare le metodiche e le metodologie di lavoro. Penso a chi considera i social ancora come solo e soltanto mezzi di svago, di perdita di tempo e in chiave negativa, mentre possono essere validissimi strumenti alternativi di comunicazione e di apprendimento, in particolare con una utenza specifica come gli studenti, con tutte le loro problematiche, a partire da quello di tipo logistico – organizzativo. Da che parte sto io penso sia evidente, ci sto per molte ragioni a partire dal fatto che le nuove tecnologie permettono di comunicare naturalmente, in maniera più immediata, più diretta, più facile, più intuitiva con le nuove generazioni. Alla fine sono gli strumenti con i quali studiano, lavorano, amano, vivono, come si può pensare ancora di limitare il loro uso?  Lo so che corro il rischio di sembrare banale, ma alla fine quando uno studente vuole dirmi una cosa quello che conta veramente è ciò che vuole dirmi non se usa la mail istituzionale, facebook, messanger o qualunque altro canale informatico.