Gaetano Scotto e la partita del pallone

Caro Diario, Gaetano Scotto di Rinaldi è uno dei ragazzi di Aula O, uno che anche se non riesce ad esserci sempre a causa dei lavori che fa, partecipa comunque alle diverse attività – bio, recensioni Novelle Artigiane e L’ordine del tempo, gruppo social, iscrizione a Intertwine, ecc. – e poi essendo di Monte di Procida mi insegue nei miei fine settimana bacolesi, ci siamo incontrati già un paio di volte, della serie una chiacchiera e un’aperitivo.
Come dici amico Diario? Perché mi sono fatto inseguire? Prima di tutto perché me lo ha chiesto, sono disponibile sempre ad ascoltare, non ne posso fare a meno, e poi perché la prima volta che ci siamo visti ho scoperto un ragazzo di 20 anni che come si diceva nella Secondigliano della mia gioventù, “pare ‘nu viecchio”, nel senso che dimostra una maturità fuori dal comune, muore dalla voglia di farsi da sé, di essere indipendente, di trovare la sua strada, e anche se il cammino che ha davanti è lungo e duro, a un ragazzo o a una ragazza così non si può non dare una mano.
Sì, caro Diario, hai capito bene, il cammino è lungo e duro, perché pure lui come la stragrande maggioranza degli studenti non hanno un’idea precisa di quello che vuole fare e anche quando ce l’hanno è, come direbbe il mitico Guzzanti nei panni del profeta di  Quelo, sbagliata.
Nel caso di Aula O tutte/i vogliono fare le/i giornaliste/i senza sapere bene che cosa è, oggi, fare il giornalista, e Gaetano non sfugge alla regola. Dato che, tanto per cambiare, vorrebbe fare il giornalista sportivo, gli ho proposto un esercizio di stile, raccontare un pezzetto di una partita di calcio vista dalla parte del pallone. Il risultato è quello che puoi leggere di seguito, io ci ho messo solo il lavoro di editing, chiedendogli però di fare un’analisi attenta tra il testo che mi ha inviato lui e quello editato da me. Intanto leggi caro Diario, poi ti faccio sapere come è andata anche con quest’altra parte del lavoro di Gaetano, che pure è importante, per certi versi anche di più della storia.

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LA PARTITA DEL PALLONE
di Gaetano Scotto di Rinaldi

Caro lettore mi presento, sono il pallone, l’eterno oggetto della contesa negli stadi di calcio di ogni parte del mondo. Quante me ne capitano ogni domenica, tra chi prova in tutti i modi a spedirmi in rete, chi fa di tutto per acchiapparmi e chi invece non vede l’ora di sbarazzarsi di me. Quanta stranezza nei giocatori, prima di tutti il portiere, che lui fa l’impossibile per farmi suo e quando ci riesce mi tiene avvinghiato tra le sue mani quasi come se volesse tenere con sé per sempre. Purtroppo è solo un’impressione, in realtà gli bastano 20, 30 secondi per decidere di lasciarmi andare, e così prima mi posa per terra, con più calma se la sua squadra sta vincendo, e poi o mi passa al compagno vicino o prende una rincorsa lunghissima e mi lancia lontano, quasi come se mi stesse cacciando. Sì, i portieri sono davvero i più matti, un secondo prima ti tengono stretti fra le loro braccia e un secondo dopo ti scaraventano via con una semplicità disarmante.

Ti voglio raccontare cosa è successo durante la finale dello scorso anno.
Siamo a pochi minuti dal termine. Un lungo umano con i guantoni mi spedisce dall’altra parte del campo. Gli avversari, vestiti di rosso per l’occasione, con la velocità e la scaltrezza tipica più di un ladro che di un calciatore mi recuperano in fretta e furia e mi rimettono in gioco. Io li guardo dal basso verso l’alto, li vedo stanchi, però con gli occhi assatanati. Sento uno di loro dire che basta un gol per vincere la partita, che bisogna mettercela tutta perché il tempo scorre veloce, lui va sempre di fretta quando c’è qualcosa da fare.
Sì, i minuti sono pochi, ma le pedate in campo sono tante, alcune rivolte a me, altre alle gambe dei giocatori, accade spesso quando vengo schivato che gli uomini in mutande si colpiscano tra di loro.
Chi li capisce questi umani, corrono, si affaticano, certe volte si fanno male, semplicemente per il gusto di darmi un calcio o una testata e di fare goal, senza contare i 100 mila sugli spalti, pronti a urlare, gioire, disperarsi, a seconda di chi mi spedisce in rete, su un palo, in curva.

L’arbitro – un altro tipo strano che corre su e giù, anche lui in mutande, per 90 minuti più recupero, con un fischietto in bocca – sta quasi per decretare la fine del match quando, a causa di un fallo, il tempo sembra fermarsi. L’uomo con il fischietto ha assegnato una punizione a favore dei rossi e per me è come se qualcuno avesse deciso che quell’attimo debba diventare eterno.
Sono finalmente fermo, immobile. Tra me e me so già cosa mi aspetta eppure, in quello scorcio di tempo infinito, scelgo di guardare il cielo, così celeste, così sereno, così grande. Com’è possibile, mi chiedo, che io, una semplice e modesta palla, possa far passare in secondo piano tutta questa bellezza?
Il fischio dell’arbitro mi riporta al mio destino, è lui che decide quando è il momento di premere il tasto “play” e di riprendere il gioco. A me tocca il solito volo disperato verso l’area di rigore, mentre compio alcune giravolte nell’aria scruto il volto dei tifosi che pregano non so per quale miracolo, qualcuno addirittura si rivolge direttamente a me, neanche fossi un Santo o addirittura Dio.
Bastano pochi secondi e, dopo una capocciata abbastanza violenta, (non capisco perché debbano sempre farmi male!), finisco sotto i piedi di un ragazzo tutto tatuato e con la determinazione di chi sa di non poter sbagliare. Non faccio in tempo a riprendermi dal dolore provocato dalla testata che il giovane centravanti mi colpisce con un bel sinistro che finisce in rete. In campo e sugli spalti è un misto di felicità e di disperazione, per un interminabile minuto nessuno si ricorda più di me.
Proprio così caro lettore, un secondo prima ero il centro del mondo, adesso nessuno mi calcola o mi supplica più. Il ragazzo non solo mi ha rubato la scena e mi ha fatto molto male, il peggio è che di certo non si scuserà mai.
Nel resto della storia c’è il portiere che mi raccoglie dalla rete e con l’ennesimo calcione mi rispedisce al centro del campo, neanche fosse colpa mia che ha perso la partita.
Per fortuna, pochi tocchi ancora e arriva il fischio finale. La mia lunga, estenuante stagione si è conslusa, mi aspetta qualche settimana di riposo e poi di nuovo in campo per la preparazione estiva fino a metà Agosto, quando tornerò ad essere preso a calci nelle competizioni ufficiali, di nuovo oggetto della contesa, ancora una volta artefice della felicità e della disperazione dei tifosi.

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