Miriam Pugliese e la Generazione Boomerang

Caro Diario, ieri finalmente sono riuscito ad avere tra le mani Generazione Boomerang – Storie di consapevoli ritorni, Rubbettino Editore, scritto dal mio amico Vito Verrastro, sì proprio lui, l’antesignano dei freelance, l’inventore di Lavoradio.
Come dici amico Diario? No, non lo sto leggendo, me lo sto bevendo, per stasera lo finisco, le storie raccontate da Vito ti prendono, ti coinvolgono, ti abbracciano così tanto che non ce la fai a lasciarle. Sai cosa ho fatto quando sono arrivato a pagina 55? Ho telefonato a Vito, gli ho detto che la storia di Miriam Pugliese la volevo condividere con te e gli ho spiegato perché.
Vuoi sapere cosa mi ha risposto? Che per lui sarebbe stato complicato propormene una piuttosto che un’altra, e che però è d’accordo che la storia di Miriam è molto romantica, e che per lui una giovane donna che dopo aver sempre vissuto a Gallarate vive un’esperienza di lavoro in Germania e decide di tornare non al Nord, ma a San Floro, nel catanzarese, è già di per sé una super donna, e che se poi ci metti che va lì a riprendere la tradizione serica ormai quasi scomparsa (parliamo di bachicoltura) la dimensione si fa ancora più eroica. Dopo di che ha aggiunto che l’attacco del racconto dice molto intorno ai pregiudizi, alle resistenze e all’incapacità che spesso il nostro Sud ha di riconoscere la propria bellezza.
Come dici caro Diario? Potevo approfittarne per saperne di più sul Progetto Generazione Boomerang? Bravo, e secondo te non l’ho fatto? Leggi cosa mi ha risposto: «La cosa che mi piace di più è che il libro non è la fase di chiusura di 3 anni di lavoro, ma la chiave che fa aprire una porta spalancata sul prossimo futuro, in cui mi piacerà – con l’amico storyteller Dino De Angelis – continuare a fare il “collezionista di boomerang”, per raccontarli sul sito nato per diffondere il nostro progetto.
La cosa più stimolante, avendone le forze e trovando lungo la strada qualche sostenitore, è l’idea di istituire dei Boomerang Awards per premiare le migliori storie di consapevole ritorno che andremo a scovare, e i migliori strumenti di politica attiva messi in campo per favorire i rientri. È secondo me un buon modo per tenere i riflettori sempre accesi su una tematica che continuerà a essere cruciale nei prossimi anni.»
Ecco, adesso mi fermo amico mio, mettiti comodo e goditi la bellissima storia di Miriam.

miriam
La metamorfosi della farfalla
Siti pacci, ca nun c’è nenti! Siete pazzi, qui non c’è niente! Sembra ancora di sentirle, le esclamazioni in calabrese stretto, le voci cantilenanti e quasi allarmate, che tornano a quando Miriam Pugliese comunica che dalla multiculturale Berlino intende trasferirsi nell’entroterra catanzarese. Quella frase è insieme un invito a lasciar perdere e un inno alla rassegnazione. Quando invece racconta la sua «pazza idea» ai tedeschi, è tutto un fiorire di «wow», «fantastic!» e incitamenti vari. In una scelta situata nell’ampio solco tra lo scetticismo più cupo e la spinta entusiastica a provarci, Miriam Pugliese non ha nessun dubbio. E invece del «perché mai?» si lascia guidare dal «perché no?», che spesso è il chiavistello mentale per riuscire ad aprire porte che all’apparenza appaiono blindate, inviolabili.
L’idea del consapevole ritorno nasce in un ambiente global come quello berlinese, in cui puoi ammirare l’organizzazione teutonica e la capacità di attrarre turisti da ogni dove, ma non puoi evitare di pensare che il colore e il calore dell’Italia sono ben altra cosa, se solo si imparasse a riconoscere appieno il valore della bellezza. Miriam ha origini calabresi e San Floro è il paese dei suoi genitori: poco più di 600 abitanti, in provincia di Catanzaro, sul versante ionico, in un territorio circondato da boschi, ampi pascoli e frutteti. Emigrata fin da subito con la famiglia a Gallarate, nel varesino, la ragazza assorbe ritmi e paesaggi ben differenti, ma senza mai dimenticare le sue radici. In estate le vacanze la riportano al blu carico del cielo, ai sapori dei piatti tipici calabresi e a quel profumo di campagna così unico che anche a distanza di anni, chiudendo gli occhi e respirando a fondo, magari nei giorni in cui il cielo milanese è plumbeo e il grigio domina sulla città, si può immaginare. Miriam dopo il diploma lavora in aeroporto, a Malpensa, per quattro anni: è hostess per una compagnia di linea tedesca, prima che la crisi e i fattori connessi alle decisioni geopolitiche sulle priorità degli scali (che diventano hub) riducano i voli e facciano partire le prime lettere di licenziamento. C’è aria di smobilitazione, è tempo di fare un altro salto verso il profondo Nord. Avendo conosciuto da vicino l’ambiente tedesco, sembra infatti naturale decidere di trasferirsi in Germania.
Berlino, del resto, è «bella da vivere e perfetta per lavorare», come recita uno slogan del programma The job of my life, che continua ad attrarre giovani dai Paesi europei in cui la disoccupazione è dilagante. L’elevata qualità della vita e l’atmosfera di una città multiculturale è quanto di meglio si possa desiderare ma tra piccoli lavoretti per mettere qualcosa da parte e corsi di lingua per accentuare l’apertura verso il mondo, il pensiero rimbalza costantemente verso l’Italia e il suo cielo azzurro, i suoi colori.

Se i tedeschi riescono a valorizzare questi posti, perché non possiamo provare a fare la stessa cosa al Sud, magari proprio in Calabria, che ha un paesaggio straordinariamente bello? Il Brandeburgo non è il massimo dell’attrattività, eppure ci arrivano milioni di persone, mentre posti come San Floro restano desolatamente vuoti, abbandonati a se stessi, nonostante un potenziale enorme.

Miriam parte da quell’interrogativo ricorrente per lanciare una sfida a se stessa e mettere al caldo l’embrione di un sogno che ha in sé la spinta della rivincita, e che va a collocarsi esattamente in quel «vuoto» – considerato dai suoi conterranei come ineluttabile – per farsi opportunità di cambiamento. Certo, da soli tutto è più difficile; ma se si è in due, magari il sogno può diventare qualcosa di più di una semplice idea. E il compagno di avventura Miriam lo trova in Domenico Vivino, giovane di San Floro che vive a Napoli, con in tasca una laurea da 110 e lode alla Federico II. È lui a prospettare a Miriam la possibilità di un abbraccio della storia che leghi passato e futuro, con la forza di un filo lunghissimo, sottile, eppure estremamente resistente. È il filo di un piccolo bozzolo prezioso che tra il 1300 e il 1700 ha rappresentato per molti calabresi orgoglio e vanto, tanto da permettere loro di varcare i confini d’Italia per affermarsi in tutta Europa per la straordinaria qualità dei manufatti. Tre secoli d’oro, che portarono Catanzaro a diventare la capitale europea della seta. Non a caso il toponimo potrebbe derivare da Katantárion, dal verbo katartizen (confezionare, lavorare) e dai katartarioi, i filatori di seta:

Tutti i paesi attorno allevavano il baco, la cui seta veniva poi spedita in città per la lavorazione e la trasformazione in damaschi. La tradizione era sopravvissuta fino ai nostri nonni e rischiava di scomparire. Questa storia mi ha appassionata molto, ha aggiunto quel tocco di romanticismo che mancava per completare il mio puzzle. Più ci dicevano che sarebbe stata una scommessa persa, più la nostra fantasia galoppava nell’immaginare una rinascita di un’idea futuristica innestata sulle tradizioni. Cosa avremmo potuto sognare di più? Da giovani che avevano viaggiato, conosciuto, esplorato, nulla poteva spaventarci. Solo una cosa rifiutavamo con tutta la nostra anima: l’idea del fallimento, addirittura preventivo, che aleggiava dalle risposte che ci arrivavano dai nostri corregionali. Una sconfitta che tutti pronosticavano come certa, ineluttabile, scontata, ma che era solo la proiezione di un immaginario resistente al cambiamento, frutto di una chiusura che se da un lato aveva preservato quei luoghi, dall’altro continuava a serrare le porte al nuovo.

Con quel chiodo fisso nella testa, la ragazza resiste solo un anno in una multinazionale della plastica a Milano, poi si licenzia: il richiamo della bachicoltura supera anche lo scetticismo della sua famiglia. A San Floro, del resto, sembrano esserci tutte le precondizioni per provare a rilanciare davvero il settore, a iniziare da cinque ettari di terreno di proprietà del Comune con 3 mila piante di gelso, casolari ristrutturati e un museo della seta sito in un bel castello del 1400. Peccato che tutto ciò sia preda di incuria e degrado. Le piante rischiano di morire, gli edifici sono in stato di abbandono, i terreni invasi da rifiuti ingombranti. La situazione appare disperata, tanto più che il dialogo con l’Amministrazione locale è tutto in salita. I ragazzi, cui nel frattempo si è aggiunta Giovanna Bagnato, artista della ceramica, temono che su quei terreni ci siano ben altri interessi. Eppure, invece di mollare, i tre decidono di rilanciare. Per farlo, devono diventare impresa in grado di formalizzare il progetto di futuro. A fine 2013 si riuniscono in cooperativa e la chiamano «Nido di seta», racchiudendo, in un nome così simbolico, la speranza di allevare molto di più che migliaia di bachi.
L’ottenimento della convenzione, dopo un anno di pressing asfissiante nei confronti del Comune, è solo il primo passo. Dando fondo a tutti i loro risparmi, passano sei lunghissimi mesi per completare estenuanti lavori di riqualificazione, districandosi tra la burocrazia e la diffidenza delle persone, le dietrologie, i falsi miti. Ai tanti ragazzi che sognano un lavoro a Milano, Miriam racconta di una realtà del Nord che è molto più difficile di quanto si possa immaginare. Piuttosto, li spinge a credere di più in se stessi e nel proprio territorio, in quella miniera d’oro su cui camminano inconsapevolmente ogni giorno. A chi guarda con scarsa ammirazione Domenico, che impugna la zappa nonostante il suo 110 e lode, lei ribatte dicendo che, zappando, stanno costruendo il proprio futuro, e li invita a visitare quei luoghi in cui si mischiano sudore e lacrime: di gioia, spesso, ma qualche volta anche di disperazione, quando le cose si complicano e la sfida si fa durissima. Non c’è tempo, tuttavia, per il pentimento: decidere di fare un’impresa così particolare, in un periodo di crisi, in Calabria, presenta già il massimo coefficiente di difficoltà.

Stiamo donando troppo, per permetterci di buttare tutto al vento. Ogni giorno, da due anni e mezzo, penso ai miei sacrifici personali, alla lontananza dalla mia famiglia, alle mie quattordici ore quotidiane di lavoro. E poi penso ai traguardi raggiunti, a tutti gli incoraggiamenti che arrivano proprio quando sei al minimo delle forze, ai segnali del destino che quando la disperazione ti sta per avvolgere ti dicono di continuare a “donare il sangue”, perché alla fine la ricompensa arriverà.

Segnali terreni e segnali divini, visto che anche il Papa ha usato un copri-inginocchiatoio prodotto dalla cooperativa. San Floro, tra aprile e giugno, si riempie di volti nuovi e di sguardi entusiasti: sono alunni delle scuole, gruppi di turisti italiani e stranieri, curiosi, richiamati dal fascino di una passeggiata tra i gelseti, dal gusto di conserve naturali e biologiche, e dalla visita al Museo della seta. La suggestione si fa magia quando si assiste, in religioso silenzio, a operazioni lente e precise: l’immersione dei bozzoli in acqua calda, la mescola con uno scopino che tira su il «capofilo», che può arrivare anche a due chilometri, su antichi telai (recuperati dagli abitanti del paese) per dare il via alla trattura, l’estrazione. Pazienza, manualità, precisione: doti umane che oggi sembrano scomparse sotto la spinta del «tutto e subito», ma che nella gelsi-bachicoltura sono l’essenza di un processo che la tradizione ha tramandato con i suoi preziosi segreti. Lo sa bene Florino, il padre di Domenico, l’ultimo dei bachicoltori di vecchia generazione, nonché ex sindaco del paese, che nel 1998 aveva provato invano a far rinascere l’antica arte come elemento di sviluppo economico ed occupazionale e che ha trasferito tutto il suo sapere ai tre ragazzi. Il resto lo stanno facendo studio, ricerca e ricostruzione di un passato di cui si erano quasi completamente perse le tracce.
La cooperativa agricola è l’emblema della multifunzionalità, avendo sviluppato le articolazioni legate al turismo e all’artigianato. L’innovazione sta soprattutto nella voglia di sperimentare; a «Nido di seta» si ricavano colori utilizzando risorse locali: non solo more e gelsi (che oltre a fornire marmellate gustose danno nutrimento ai bachi) ma anche papavero, uva di Cirò, Cipolla di Tropea, mallo di noce, melograno, con un processo produttivo che parte dalla terra e ritorna alla terra. Con i fili, grazie ai suggerimenti pratici di Angeluzza, un’energica ottantottenne di San Floro, si creano tessuti di seta grezza. E gioielli, unendo batuffoli di seta e perle di ceramica, quella di Squillace, altro comune del catanzarese. Il salto produttivo è passare dalla seta grezza a quella lavorata, ben più preziosa, da impiegare in una linea di abbigliamento. È un work in progress continuo che dalla testa trasferisce l’input alle mani, passando sempre dal cuore. E l’emozione contagia: sono già cinque i giovani che lavorano stagionalmente nella cooperativa, e non bastano: ci sarà bisogno di altre idee, altre braccia, altra solidissima voglia di realizzare il sogno.

C’è un progetto turistico, a cui Miriam tiene moltissimo, più volte presentato alle Istituzioni, ma che fino ad oggi non ha avuto accoglimento positivo. Eppure, questi ragazzi che con la sola forza di un’idea hanno dato vita a un piccolo miracolo, bisognerebbe ascoltarli, e supportarli di più.
Spesso le Istituzioni sono solo ostacoli che si frappongono sulla nostra strada, luoghi in cui si discute ancora troppo di accordi, posizionamenti e poltrone, e poco di merito, di sviluppo, di programmazione. Noi vogliamo uscire da questa logica. Piuttosto che sottostare a dinamiche che hanno impoverito il territorio, preferiamo pensare che piano piano ce la possiamo fare, senza chiedere niente a nessuno.
Una scelta rivoluzionaria che ha il profumo della libertà, della testardaggine, della determinazione. Non importa quanto tempo passerà; i cambiamenti culturali sono lenti e le trasformazioni si fanno a piccoli passi. Miriam guarda i minuscoli bachi che escono per iniziare a mangiare le foglie di gelso, poi crescono lentamente fino alla quinta età, quella dell’imbozzolamento, e sa che la strada per diventare grandi sarà lunga, così come per la cooperativa. Ma, come i bachi, non teme nulla: si deve solo continuare a lavorare, tessendo continuamente fili e relazioni positive. Solo così il bruco potrà trasformarsi in farfalla, che deporrà dalle 400 alle 600 uova: e la magia ricomincerà.
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