Storie di lavoro, di passione e di rispetto

Caro Diario, questa che puoi leggere di seguito è l’introduzione a Bella Napoli, Storie di lavoro, di passione e di rispetto, edito da Ediesse nel 2011. Come sai, le mie storie di lavoro ben fatto hanno origini lontane negli anni, e insomma di un po’ di esse ho raccontato proprio qui e mi faceva piacere condividerle con te, con le nostre lettrici e i nostri lettori.
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1. Frequentavo la III° C dell’Istituto Tecnico Industriale “Augusto Righi”, indirizzo elettronico, quando la prof. d’italiano cominciò a leggere “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente” e due banchi più in là Tommaso Ottobre alzò il dito e come al solito senza aspettare il via sparò il suo: “Ma perché, “psoré”, Dante è venuto a Napoli?”.
Ci mettemmo tutti a ridere, anche la prof., e l’evento, la sua risata, fu considerato a tal punto raro che Gennaro Stornaiuolo lanciò una sottoscrizione per raccogliere 1000 lire da puntare sul 19, ’A risata, e 72, ’A Meraviglia, ambo secco sulla ruota di Napoli. Io non mi legai alla folta schiera, perché uno dei comandamenti di mio padre prescriveva il divieto assoluto di giocare qualunque cifra in danaro, anche la più irrisoria, a qualunque gioco, anche il più innocente, per qualunque ragione, anche la più nobile, e la weltanschauung paterna non contemplava né il pentimento né, tantomeno, l’assoluzione, soltanto ceffoni, tanti, sonori, pesanti. Sarà per questo che non ho mai invidiato i miei compagni anche se vinsero la bellezza di 250 mila lire.
Che io ricordi, nessuno di noi fece invece una piega per l’accostamento di Napoli con l’Inferno, lo considerammo normale, eravamo belli e abituati, ci veniva naturale, anche senza aver letto Giorgio Bocca e Roberto Saviano. Certo che lo sapevamo anche noi che a Napoli allora c’erano ancora le fabbriche e c’era ancora la classe operaia, c’erano l’Italsider, la Mec Fond, l’Ansaldo, la Snia Viscosa, la Cirio, le piccole e medie aziende della metallurgia, della chimica, del vetro e della ceramica artistica, una miriade di fabbriche di scarpe e di guanti di diverse dimensioni, in fondo anche dalle nostre parti aveva comiciato a soffiare il vento del ’68 e nei cortei si cominciava a udire “operai e studenti uniti nella lotta”, ma io non avevo poco più di 16 anni e sognavo la California, i viaggi coast to coast, le poesie di Ginsberg e Ferlinghetti, i concerti dei Pink Floyd e di Crosby, Still, Nash e Young.

2. Il peggio doveva ancora venire. Un peggio chiamato nel corso degli anni colera, crisi dell’industria e della classe operaia, tangentopoli, il finto rinascimento, la vergogna della monnezza fin oltre il primo piano, l’aumento delle morti per cancro di cui ancora oggi nessuno dice. Un peggio che non è stato sempre peggio perché è stato attraversato da squarci di entusiasmo e speranze di rinascita. Un peggio che è stato peggio del peggio, perchè l’entusiamo e la speranza sono state ogni volta inghiottite dalla disillusione, dalla frustrazione, dall’impossibilità, dall’inferno.

3. Napoli e i napoletani non sono sempre la stessa cosa, perché se è vero che Napoli ci rappresenta tutti, classi dirigenti e popolo, che definirci cittadini mi viene difficile e chiamarci sudditi mi sembra ingeneroso, è altrettanto vero che dicendo classi dirigenti e popolo non diciamo la stessa cosa. E che non si può fare di tutta l’erba un fascio neanche delle classi dirigenti in quanto tali né, tantomeno, del popolo.
Dove li mettiamo ad esempio quelli che si sono aggrappati con le unghie, con la speranza e con i denti alla possibilità di non chinare il capo, di non arrendersi alle inefficienze, al pressappochismo, al clientelismo, agli ismi senza fine che hanno ammorbato la città? Quelli che a volte ne hanno fatto una questione etica, altre una regola di vita, altre ancora una ragione pratica, e allora è accaduto che si è fatta più forte la speranza, è sembrata meno evanescente la possibilità di cambiare? E quelli che se ne sono andati e poi sono ritornati? E quelli che non se ne volevano andare e non sono tornati più?

4. Le storie che leggerete in questo volume raccontano di napoletani che danno valore al lavoro, che sentono la responsabilità di fare le cose per bene, che mettono amore, passione, interesse in quello che fanno.
Le ragioni per le quali ho voluto raccontare Napoli attraverso il lavoro le scoprirete, spero, pagina dopo pagina, lo so che avrei potuto spiegare qui ciò che racconto più avanti, ma sarebbe stato un altro libro. Aggiungo che sarebbe stato un altro libro anche se avessi voluto dire semplicemente che Napoli non è solo Gomorra, camorra e monnezza e non perchè  rischiavo di essere banale e neanche perchè potevo essere frainteso; per quanto mi riguarda, non è la prima volta che lo dico e lo scrivo, Gomorra, camorra e monnezza sono oggi per Napoli la sola realtà, non l’unica possibilità, perché nessuna realtà è immutabile, qualunque contesto sociale può essere cambiato, è questione di cittadini, di classi dirigenti, di scelte, di impegno e di responsabilità degli uni e delle altre, niente di divino o di metafisico come vedete, tutte cose umane, possibili, concrete. Ciò che intendo dire è che in questo libro ho cercato, se ci sono riuscito o no non spetta a me dirlo, di raccontare Napoli  e di parlare all’Italia, a partire da Napoli of course. L’ho fatto non tanto perché, questo si che mi sarebbe apparso ovvio, gli italiani che danno valore al lavoro e mettono amore e passione in quello che fanno si annidano in buon numero in ogni parte della penisola, quanto perché penso che la grandezza, le speranze e le opportunità di un Paese siano strettamente legate al rispetto che esso ha, e mostra, per il lavoro e per chi lavora, a ogni livello, e questo dovrebbe essere ovvio, e invece non lo è affatto. Se l’Italia sta diventando un paese senza una visione condivisa del proprio futuro, un paese di poche speranze e con scarse opportunità, in primo luogo per le generazioni più giovani, quelle che più delle altre avrebbero invece bisogno di avere l’ombra lunga del futuro sul presente, è esattamente perché alle vie del lavoro e dell’impegno rigoroso ha preferito quelle dell’arrivismo e della ricchezza senza regole, della celebrità senza merito, dell’evasione dal fisco e dalle responsabilità,  insomma l’Italia dei furbi invece dell’Italia dei laboriosi.
Mio padre avrebbe detto che non ci vuole un arco di scienza per comprendere che se non si dà valore alla dignità di chi lavora non si va dà nessuna parte. Certo l’avrebbe detto a modo suo, con le parole e il vocabolario di un operaio che aveva per così dire terminato gli studi, la quinta elementare, all’inizio della seconda guerra mondiale, ma questo avrebbe detto. Io che grazie a lui e a mia madre mi sono potuto laureare aggiungo che una società che intenda garantire mobilità sociale, opportunità di crescita, autonomia e indipendenza ai soggetti che la compongono non può rinunciare ad assegnare al lavoro un punteggio elevato non solo sul terreno delle condizioni materiali ma anche su quello dei valori e della considerazione sociale che spetta a chi lavora, a prescindere dalle mansioni che svolge. Punto.

5. Mi piace un sacco raccontare storie, ci ho provato con Enakapata, poi con Uno, doje, tre e quattro, adesso ci provo con Bella Napoli, ma i miei libri finiscono puntualmente nella sezione sociologia, che spesso coincide con i piani seminterrati e gli scaffali più impervi delle librerie. Con mio figlio Luca, che il mestiere di libraio lo sta imparando dato che da poco più di un anno lavora nella bella libreria della stazione centrale, ho cercato più volte di capire perchè i miei racconti non possono andare nella sezione letteratura, e lui più volte ha cercato di spiegarmi che io non scrivo “fiction”, che i miei non sono proprio racconti, che di mestiere faccio il sociologo, che il mio posto è nella sociologia. Se dico che non ho capito faccio brutta figura? Allora faccio una cosa che piace molto ai sociologi e molto poco a Luca, cito, nel caso specifico spiego che cosa cerco di fare con le mie storie attraverso tre bellissime citazioni di, nell’ordine, Karl Weick (1997), Barry Lopez (1999) e Richard Sennett (2002). Eccole:
“Le storie aiutano la comprensione, perché integrano quello che si sa di un evento con quello che è ipotizzato […]; suggeriscono un ordine causale tra eventi che in origine sono percepiti come non interconnessi […]; consentono di parlare di cose assenti e di connetterle con cose presenti a vantaggio del significato […]; sono mnemotecniche che permettono di ricostruire eventi complessi precedenti […]; possono guidare l’azione prima che siano formulate delle routine e possono arricchire le routine quando sono state formulate […]; consentono di costruire un database dell’esperienza da cui è possibile inferire come vanno le cose”.
“Le storie che raccontiamo alla fine si prendono cura di noi. A volte una persona per sopravvivere ha bisogno di una storia più ancora che di cibo. Ecco perché inseriamo queste storie nella memoria gli uni degli altri. È il nostro modo di prenderci cura di noi stessi”.
“Un racconto non è solo un semplice susseguirsi di eventi, ma dà forma al trascorrere del tempo, indica cause, segnala conseguenze possibili”.

6. Prima di raccontarvi di loro, cioé dei protagonisti delle mie storie, penso sia utile dire qualcosa di me, nel senso del “mio” rapporto con il lavoro e dell’importanza che hanno avuto rispetto al mio rapporto con il lavoro i miei maestri. Per la verità la storia dei maestri mi è venuta in mente mentre leggevo della fredda giornata newyorkese nella quale Sennett incontra la sua di maestra, Hanna Arendt (Sennett, 2008) e ho rischiato di finire anch’io tra gli invidiosi di ogni altra sorte. In realtà è stata solo una fugace brezza, una capriola tra gli alberi, un attimo fuggente, giusto il tempo di dirmi “è vero, a New York non ci sei stato (ancora), ma nemmeno la tua fantasia made in Secondigliano poteva immaginarti nella Sydney dell’Opera House e di Harbour Bridge, nella Barcellona di Las Ramblas e di Gaudì, nella Dubrovnik con le braccia aperte e la guerra alle porte, nella Tokyo del talento, dei manga e dell’organizzazione”.
Dite la verità, voi avreste scommesso di più sulla parola invidia alla voce maestri. E invece no. Con tutto il rispetto per la meravigliosa Hanna Arendt, io i miei maestri non li cambio con nessuno. Giuro, sono contento così. Di più. Sono fiero di potermi pensare un loro allievo. Vi state chiedendo di chi sto parlando? Ve li presento rigorosamente nell’ordine in cui sono apparsi sul palcoscenico della mia esistenza: Pasquale, mio padre; Salvatore Casillo, la madre di tutti i prof.; Salvatore Staiano e Luigi Santoro, una scelta di vita chiamata Cgil.
Per ricordare tutte le cose che mi hanno insegnato ci vorrebbe un libro a parte, diciamo pure un’enciclopedia, dunque ve ne racconto solo alcune tra quelle che porterò con me fino all’infinito e oltre. Anzi, facciamo così, ricomincio anch’io da tre, in pratica dalle tre cose sulle quali uomini così profondamente diversi sono stati a tal punto profondamente uguali che talvolta mi prendeva il dubbio che fossero stati fatti con la carta copiativa, ma solo perché il copia e incolla al tempo non esisteva ancora:
la prima è l’importanza di essere uomini e non caporali; per saperne di più conviene consultare la storia del pensiero filosofico alla voce Totò;
la seconda è l’etica del lavoro, l’impegno “a prescindere”, l’idea che il lavoro è qualcosa che vale, una parte fondamentale delle attività che permettono di dare senso e significato alle nostre vite;
la terza è la necessità di non confondere, la capacità di tenere distinte, le principali dalle subordinate, ciò che vale di più da ciò che vale di meno, ciò che viene prima da ciò che viene dopo, le cose che non possono aspettare da quelle che invece sì.
Naturalmente, se tutto questo o anche altro te lo dovevano dire, ognuno di loro te lo diceva a modo suo, ma se lo dovevano fare o te lo dovevano far capire allora “puff”, le differenze scomparivano come per incanto.

7. Devo a mio padre l’incontro con il lavoro, prima di tutto attraverso il suo tanto lavoro, da operaio elettrico fino alle 5 della sera e poi dopo da muratore, imbianchino, piastrellista, idraulico, elettricista. Sì, perché papà sapeva fare tutto, proprio tutto, e i soldi per mandare avanti con dignità la famiglia non bastavano mai, nonostante mamma – lavoratrice infaticabile anche lei nonostante al tempo si facesse molta fatica ad associare il termine casalinga con il termine lavoro -,  fosse una maestra nell’arte di “friggere il pesce con l’acqua”.
Grazie a mio padre il lavoro non è stato solo fatica ma anche tante altre cose, dignità, onestà, rispetto, il fischio che faceva quando tornava a casa la sera e io e mio fratello Antonio (Gaetano e Nunzia non c’erano ancora) correvamo fuori per abbracciarlo e baciarlo, persino le filastrocche che ripetevamo sei, sette, dieci volte, appiccicati con i nostri nasoni sul vetro della finestra quando pioveva: “Madonna nun fa chiovere, che papà è ghiuto fora, è ghiuto cu’ ’e scarpe rotte,  a Madonna ’e Piererotta, rotta ruttella, ’a Madonna cu’ ’e scarpuncielli, stella stelluccia, ’a Madonna cu’ ’o cappelluccio”. Lui da lì a poco sarebbe tornato, e noi accompagnavamo così il suo ritorno.
Poi una sera il lavoro è entrato nella mia vita anche attraverso il discorso.
Non ricordo l’anno né, meno che mai, il mese o il giorno, però fu qualche settimana prima di lasciare la casa modello stanza singola, cucina e gabinetto incorporato per spostarci nel quartino di palazzo Limone, di fianco al cinema Arcobaleno, nella traversa di Corso Secondigliano, piano terra, qualche anno dopo che papà era passato, in seguito alla nazionalizzazione, dalla Società Meridionale Elettrica all’Enel. Poteva essere il 65, o il 66, dunque potevo avere 10 o 11 anni ed ero ancora ignaro dell’ormai prossimo passaggio dal bagno bacinella, spugna ruvida e sapone di piazza, quello che adesso è chiamato sapone marsiglia, al bagno inteso come stanza da bagno. Quello che mi ricordo è che la cosa andò, più o meno, nel seguente modo.
Papà era abituato alla fatica da impresa privata, ai lavori per la costruzione delle infrastrutture che avrebbero consentito, nei primi anni 50, di portare la corrente elettrica fin su ai più sperduti paesini tra le montagne del Centro e del Sud, dall’Abruzzo alla Calabria, cosicché quando passò all’Enel la “fatica” gli sembrava sempre poca. E poi lui era fatto così, per natura e per convinzione, e guai a contraddirlo quando diceva che “a fatica va pigliata ‘e faccia”, nel senso che le cose vanno fatte al meglio, senza perdere tempo, così poi si può fare qualche altra cosa o anche prendere un caffé, perché non è che fosse un fanatico, a patto però di avere la coscienza tranquilla di chi ha già fatto, e bene, quello che doveva fare.
Forse è perché con mamma di lavoro non gli piaceva tanto parlare, forse perché quella cosa lì voleva dirla proprio a me, ma quella sera mi disse “Enzo, ’e capito, io dico a Sebastiano di aiutarmi a finire il lavoro” e quello mi risponde “calma Pascà, ’a fatica va fatta a meglio a meglio”. “A meglio a meglio?”, e che significa? – gli chiedo -, e lui mi risponde “significa che prima ci prendiamo il caffé, poi magari inquadriamo un pò la situazione, poi facciamo qualche cosa di più semplice e poi alla fine finiamo il lavoro. Può darsi che nel frattempo c’è un guasto improvviso e ci chiamano da qualche altra parte e qui il lavoro lo viene a finire un’altra squadra”. “Ma se pò arraggiunà accussì?” – fu la sua finta domanda e la sua vera, amara, conclusione.
La questione gli rodeva ancora di più perché era un tipo che stabiliva con i propri compagni di lavoro rapporti di stima e di affetto sincero e dunque si dispiaceva sul piano personale quando le cose non giravano come secondo lui avrebbero dovuto girare. Aggiungo, nell’improbabile tentativo di essere obiettivo, che aveva non solo una grande capa tosta ma era anche soggetto ad attacchi di prepotenza, che insomma certe volte voleva avere ragione per forza, anche se quella volta lì no, perché quella volta lì secondo me aveva ragione per davvero, ma comunque giudicate voi, io vi ho raccontato semplicemente quello che è successo.
Ma si può ragionare così? E che ne so?, avrei voluto rispondere, ma naturalmente me ne guardai bene. A quel tempo niente sapevo di Donald Rey, di Michael Burowoy e del making out, i giochi di produzione messi in atto da squadre di operai che incrementano o riducono la loro produttività, rispetto a quella prevista dall’azienda, secondo logiche interne al gruppo; attraverso tale pratica, i lavoratori riuscivano a nascondere la loro capacità di produrre di più di quanto previsto dalle tabelle di cottimo, anche in presenza di un aumento dei controlli, fino a quando l’azienda non aumentava il cottimo o il salario. Non avevo ancora incrociato il prof. della mia vita e dunque ancora niente sapevo né di Monthly Review di Paul Baran e Paul Sweezy e neanche di Lavoro e capitale monopolistico di Harry Braverman.
Adesso voi non pensate “ma allora tu non sapevi niente”, perché io invece sapevo una cosa importante, nel senso che sapevo che quello che mi diceva papà era importante. Sì, importante anche solo per il fatto che me lo diceva lui e anche se poi negli anni della contestazione le cose che mi diceva lui ho avuto una gran fretta di cancellarle tutte, negli anni della maturità ne ho recuperate molte e in quelli della perdita ho cominciato persino a custodirle. Per farla breve – accorcia anguilla, mi avrebbe intimato lui -, uno dei miei primi dubbi amletici senza conoscere Amleto è stato proprio questo: bisogna approcciare ’a fatica “’e faccia” o “a meglio a meglio”? Non vi dico come l’ho risolto, vi dico invece che, ne fossi consapevole o no, scegliendo Casillo, Staiano e Santoro come maestri – dite che sono stati loro a scegliere me?, potrebbe essere, ma non ne sono convinto -, non mi sono dato alibi, non ho cercato scampo.

8. Salvatore Casillo è per me ancora oggi molto di più di un prof., è un amico, di più, per l’appunto, un maestro. Quando l’ho conosciuto nei giorni dispari ero innamorato della creatività di Lotta Continua e in quelli pari dell’organizzazione di Avanguardia Operaia. A studiare studiavo anche prima, ma è grazie a Ninì – sì, quando diventi suo amico lo puoi chiamare così, anche se ancora oggi la cosa un pò mi confonde, continua a sembrarmi un pizzico irriguardosa verso un uomo di cotanto senno -, che ho capito che il libro poteva essere per me quello che la chiave a stella era stata per Tino Faussone.
Sì, è stato lui che mi fatto vedere con chiarezza il filo rosso che lega la conoscenza alla possibilità di essere più autonomi, di far valere la propria opinione nell’ambito dello spazio pubblico, di avere qualche opportunità in più anche dalle parti a Sud del Garigliano. E filo rosso per filo rosso mi ha portato a iscrivermi al PCI, mi ha presentato ai suoi compagni della Cgil che poi sono diventati i miei compagni e la Cgil la mia vita, mi ha fatto capire insomma che nel mondo dei grandi, nel senso di adulti, non si può solo sollevare problemi, bisogna trovare risposte, soluzioni, in maniera rigorosa, assumendosi responsabilità, senza mai perdersi d’animo. Il mio prof. è ancora oggi, quando sta di buzzo buono, perché la vita si sa a volte ti stanca pure, un inventore di storie straordinario. Non che non sia diretto, al contrario, è che sa essere ironico, pungente, sagace. Anche quando ti deve correggere, lo fa con garbo, se appena può prendendoti in giro. Vi faccio un esempio di quegli anni là, quelli dell’università, quelli nei quali uno dei miei cavalli di battaglia preferiti era “per il Sud questo è l’ultimo treno, perderlo vuol dire condannarsi alla sconfitta per sempre”. E uno, e due, e tre, alla quarta volta mi prende da parte e mi dice più o meno “senti, fai bene a trasmettere questo senso di preoccupazione forte rispetto ai destini del Sud. Però l’ultimo treno inteso come ultimo ultimo, insomma quello definitivo, non esiste, è questione di tempo, e naturalmente di prezzi da pagare, ma prima o poi passa sempre un altro treno”.
Ebbene non potete immaginare quanto sia stato importante per me questo doppio principio, questa doppia consapevolezza, quella stessa che molto tempo dopo ho incrociato nella bellissima pagina in cui Calvino scrive che “nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è balordo, contano quei princìpi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere mai di credere che ogni cosa che fai potrà servire”. Detto così può sembrare strano, ma da lì ho cominciato a pensare che le soluzioni finali non esistono, che c’è sempre un’altra possibilità, un’opportunità da cogliere, un treno da prendere, che insomma “se ’nzerra ’na porta e s’arape nù purtone”, come dicevano gli antichi.

9. La differenza, e che differenza, tra “attivista” e “dirigente” l’ho imparata invece grazie a Salvatore Staiano. “Guagliò – mi dice un pomeriggio appena finita una riunione -, ci sono due tipologie di compagni, l’attivista e il dirigente. L’attivista è quello che fa volantinaggio, attacca i manifesti, distribuisce le tessere, fa il servizio d’ordine durante le manifestazioni e così via. Bada bene, si tratta di attività fondamentali per la vita di un’organizzazione, senza attivisti l’organizzazione non esiste, ma di attivisti ce ne sono tanti (bei tempi, quelli, nda), quelli che mancano sono i dirigenti, gli uomini capaci di decidere, di farsi ascoltare, di guidare, di assumersi responsabilità. Tu tra l’altro hai pure il difetto di venire dall’università e non dalla fabbrica. O dimostri di saper dirigire, o per te qua non c’è spazio”.
Assieme alla distinzione tra uomini e caporali quella tra attivisti e dirigenti è stata una pietra miliare della mia vita. Cosa aggiungere ancora? Che di Salvatore mi hanno sempre impressionato la voglia e la capacità di coltivare le intelligenze e di farle lavorare assieme, attorno al mensile “Sedicipagine”, nella definizione di una piattaforma rivendicativa, nell’organizzazione di un’esperienza indimenticabile come il corso di formazione per 50 quadri e dirigenti sindacali di una settimana presso la scuola di Ariccia dove, avevo 22 anni, ho visto un pezzetto di una tappa del Tour de France seduto a fianco di Luciano Lama mentre il cuore mi batteva a mille all’ora. E poi il suo “metterci la faccia” sempre, in anni in cui in Cgil, diciamo quelli precedenti all’ascesa di Sergio Cofferati, noi del sindacato chimici venivamo spesso criticati perché ritenuti troppo moderati e poco conflittuali. Volete sapere la mia verità? Avevamo il solo torto di pensare che la lotta é uno degli strumenti per raggiungere un obiettivo – la conquista o la difesa di un diritto, un pò di soldi in più in busta paga, un lavoro meno nocivo, un maggior riconoscimento della professionalità, la valorizzazione del lavoro di gruppo -, e non un esercizio rivoluzionario, e poi quando preparavamo una piattaforma contrattuale non ci mettevamo dentro tutto, perché sapevamo che tutto non l’avremmo avuto, e allora facevamo delle scelte, perché, continuo ad esserne convinto ancora oggi, con i lavoratori è meglio essere chiari già quando costruisci la piattaforma rivendicativa piuttosto che  aspettare il momento in cui bisogna approvare l’accordo.
Comunque la verità non è che conta sempre, e soprattutto non sempre permette di veder riconosciuto il tuo lavoro. Più le difficoltà erano grandi e più Salvatore ti ripeteva fino all’ossessione che bisognava lavorare di più e con maggiore impegno. Lavorare, lavorare, lavorare. Prendendo ad esempio sempre quelli che lavorano più di te e sono più bravi di te. Fermo restando che se invece si trattava di parlare di quello che guadagnavi, la prospettiva cambiava immediatamente, perché bisognava guardare sempre a quelli che stavano peggio di te. Tu gli dicevi “Salvatò, ma questo me lo dice anche papà”, e lui ti rispondeva “e allora?, tuo padre ti dice cose giuste”.
Ricordo ancora le mattine in cui arrivavo in sede e gli dicevo “Totò siente”, con lui che mi rispondeva “che vvuò”, e io che gli dicevo “niente” e lui che mi faceva “dai dimmi, hai litigato con tua moglie Laura, tuo figlio Luca ha la febbre, cosa è successo”, e  io che mi mettevo là e gli raccontavo i fatti miei, e lui che mi ascoltava tranquillo tutto il tempo per poi alla fine commentare inesorabile “sono problemi di abbondanza, il fatto è che state troppo bene, stai tranquillo, vedrai che poi si risolve tutto”.
Mi dovete credere, mi incazzavo come una iena, gli dicevo “ma io con te che ci parlo a fare che per te sono sempre problemi di abbondanza”, e poi quel suo sorriso che mi faceva infuriare ancora di più e poi io che giuravo di non dirgli più niente, fino al successivo “Totò, siente”.

10. Luigi Santoro dei quattro è il più facile e il più difficile da raccontare, anche perchè l’ho perso da poco, mi manca ancora troppo, Bella Napoli è dedicato a lui. Luigi è stato per me il fratello maggiore che non ho, essendo io il primogenito, è stato il mio maestro e il mio capo anche quando le circostanze della vita hanno voluto che a fare il capo fossi io.
Ho davanti a me vivida la scena che puntualmente si ripeteva quando andavamo assieme a trovare i miei al paese. Ad un certo punto la discussione finiva inesorabilmente sul lavoro, con papà che si tratteneva per un tempo che a lui sembrava interminabile e a noi inutile prima della domanda fatidica: “don Luigi, ma voi lo tenete a posto a mio figlio, ce li mettete i contributi, questo quando si fa vecchio la prende la pensione”?, con me che a seconda del momento mi incazzavo o mi mettevo a ridere e con Luigi che rispondeva compunto “don Pasquale, innanzitutto vostro figlio non lavora con me ma con la Cgil e la Cgil è un’organizzazione seria, e poi adesso è lui il mio capo, se fosse come dite voi, me li dovrebbe mettere lui a me i contributi”.
Papà? Alla parola “seria” riferita alla Cgil alzava tutte e due le mani, si alzava in piedi e profferiva un contrito “per carità” che equivaleva a un “chi si è mai permesso di metterlo in dubbio” all’ennesima potenza, insomma una specie di “ ’a faccia mia sotto ’e piere vuoste”, e alla parola “capo” riferita a me diceva “e gghià, don Luì, nun pazziate sempe, ca cheste sò cose serie”.
Insomma nella vita ci sono quelli che diventano capi, a volte con merito altre volte no, e quelli che capi ci nascono. È come la storia che racconta Bill a Beatrix Kiddo in Kill Bill, quello delle differenze tra Superman, che si sveglia la mattina ed è già un superoeroe, e Batman o Spiderman, che si svegliano la mattina e sono Bruce Wayne e Peter Parker. Ecco, Luigi si svegliava la mattina ed era già capo, un leader.
Lo era quando ti spiegava perché quando stava in produzione la fabbrica la sentiva sua, che cosa intendeva dire quando nel corso delle trattative poneva il problema del troppo cascame (scarti nel processo di lavorazione delle fibre sintetiche) e al capo del personale che sosteneva che quello era un problema dell’azienda e non del sindacato rispondeva convinto “no, la qualità e la competitività sono problemi nostri, perché se chiude la fabbrica, la proprietà non muore certo di fame, lei va a fare il capo del personale da un’altra parte, mentre noi finiamo in mezza alla strada”.
Lo era quando al Vice Prefetto che gli indicava la stanza dove si teneva la riunione dicendogli “Signor Santoro, in fondo al corridoio a destra, mi dispiace ma ogni tanto anche lei deve svoltare da quella parte”, rispondeva senza perdere un attimo  “Dottore, non vi date pensiero, io arrivo là, mi giro di spalle, e svolto comunque a sinistra”.
Lo era quando ti torturava fino alla morte perché anche il sabato mattina si andasse a lavorare, anche quando da tempo nella Cgil napoletana non era più la norma, quando ti spiegava che un pò alla volta non si sarebbe lavorato più neanche il venerdì pomeriggio, si sarebbe chiusa la sede per Natale,  Pasqua e le feste comandate, insomma la Cgil sarebbe diventata come un qualunque ufficio, mentre invece la Casa dei Lavoratori dovrebbe stare sempre aperta.
Lo era soprattutto quando te lo trovavi a fianco sempre, quando lo vedevi felice perché avevi portato a casa un buon risultato ancora di più di quando il buon risultato lo portava a casa lui, quando ti lasciava la scena anche se era lui che aveva fatto la maggior parte del lavoro, quando ti spiegava che il capo migliore è quello che sa far crescere i propri allievi, un  concetto questo che per sentirlo espresso in maniera altrettanto chiara, credibile, convincente, ho dovuto aspettare un bel pò di anni, fino al 2008 e alle mie chiacchierate a Tokyo, al Riken, con Piero Carninci, ma questo l’ho già raccontato in un’altra occasione.

11. È grazie a maestri così che mi sono potuto dare un futuro inesorabile come il passato. Proprio così, ai miei figli continuo a ripeterlo ancora oggi, spero che serva a loro come è servito a me, la mia vita si può riassumere così: ho fatto sempre quello che ho ritenuto giusto fare, ho fatto sempre tantissima fatica per poterlo fare o anche solo per poterci provare, ho sempre accettato le conseguenze di quello che ho fatto. Questioni di responsabilità, di educazione, di carattere. Come Claudio Lolli con Anna di Francia, non mi è mai piaciuto far l’amore senza rimborso spese o, come si diceva nella Secondigliano della nostra giovinezza, “buttare ’a pretella e annasconnere ’a manella”. Forse è per questo che ancora oggi, quando mi chiedo se la mia via ha un cuore, continuo a rispondermi di sì, e in quel sì trovo la forza per continuare a percorrerla, a conquistarla, ad azzannarla, centimetro dopo centimetro. Come leggerete, a Napoli se vuoi stare dal lato buono della forza ti tocca inevitabilmente fare questa trafila qui, perché questa è una città che non ti regala niente, neanche la sua bellezza straordinaria, unica, anche quella te la devi faticare, a meno che non ti accontenti delle cartoline. Ma tanto noi ci siamo abituati. E quando vinceremo lo scudetto della civiltà vedrete cosa saremo capaci di fare, altro che Maradona è meglio ‘e Pelé. Benvenuti a Bella Napoli.
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