Cara Irene, ci stanno delle storie che sono incredibili per come accadono, questa qui è una storia in due parti.
La prima è accaduta il 7 Gennaio di quest’anno, l’avevo già raccontata nella raccolta “Cip, mia cara Cip”, dalla quale l’ho ripresa, la seconda parte è accaduta oggi, con modalità incredibili, però procediamo con ordine, leggi prima l’episodio precedenti e poi ti racconto quello di oggi.
CASELLE IN PITTARI | 9 GENNAIO 2024
Francesco e Grazia li ho conosciuti due giorni fa a pranzo da Mario Pellegrino. Ero arrivato presto come faccio di solito, in particolare la domenica, quando è entrata questa coppia bella non della bellezza di lui e di lei, che di quella alla loro età ce n’è tanta, della bellezza che fa luce perché è fatta anche di complicità, di serenità, di contentezza.
Mario stava chiacchierando con me, come ti ho detto era presto e Francesco e Grazia erano i primi due clienti veri della giornata, insomma quelli che non sono come me che ormai da quasi quattro anni, a quell’ora, faccio parte dell’arredamento; dopo aver riconosciuto e salutato gli ospiti, li ha fatti accomodare, ha portato l’acqua ed è tornato verso di me per andare a tagliare il pane. Passando, mi ha detto prof., questi due ragazzi arrivano da Bari.
La cosa mi ha incuriosito per molte ragioni, ho finito di mangiare, ho infilato il giaccone, mi sono fermato vicino a Francesco e Grazia, mi sono presentato, ho ricordato che io spesso mangio al tavolo numero 3 e ho chiesto se avevano voglia di raccontarmi perché erano venuti da Bari per mangiare da Zi Filomena a Caselle in Pittari.
Sì, certo, ho spiegato che se volevano cominciare a mangiare in santa pace non mi sarei preso collera, ma i due ragazzi sono stati molto gentili, e così Francesco ha cominciato a raccontare che in realtà loro arrivano da Locorotondo, in provincia di Bari, e che l’anno precedente hanno fatto un viaggio in macchina di 20 giorni su e giù per l’Italia così bello che al ritorno si sono tatuati sulla schiena un po’ di tutto: Colosseo, David di Michelangelo, Duono Di Firenze, il viso di Ocean della Fontana di Trevi e altro ancora. Neanche a dirlo, la prima tappa era stata, un po’ per genio e un po’ per caso, Caselle in Pittari, dove avevano dormito, erano stati a mangiare da zi Filomena e si erano trovati molto bene non solo per la qualità del cibo ma anche per l’ambiente, la gentilezza, la maniera in cui erano stati accolti. “E poi ci stanno questi ravioli alla zucca che mi sono rimasti nel cuore”, ha aggiunto Grazia. “E soprattutto l’anno scorso eravamo in due e adesso siamo in tre e non potevamo non ritornare” ha concluso Francesco con due occhi così pieni d’amore verso Grazia che per la bellezza mi stavo mettendo a piangere, ho farfugliato qualcosa tipo “sì, prima ho intravisto un pochino di pancia”, ma era una bugia per sviare l’emozione.
Giuro, avevo già dato la mano a lui e stavo per darla a lei quando ho chiesto “ma non è che vi posso fare una foto e posso raccontare di questo nostro incontro”. Questa invece è la pura verità, non mi ero fermato perché pensavo alla storia, ci ho pensato dopo.
Prima di concludere confesso una cosa, anche se sono solo un casellese adottivo io mi sono sentito orgoglioso che due ragazzi così da Locorotondo siano tornati a Caselle, dico di più, mi capita spesso in diversi posti di trovare ragioni per sentirmi orgoglioso di far parte di questa comunità e tutto questo mi fa stare contento assai.
CASELLE IN PITTARI | 2 SETTEMBRE 2024
Stamattina giornata bella piena, ricca, cara Irene. Ho portato i panni a lavare, ho preso un bel caffè e una bella spremuta d’arancia al Bar U Cardillu e ho fatto bellissime chiacchiere con Francesca e Corrado prima – poi a suo tempo ti dirò chi sono, per ora meglio non spoilerare – e poi con Sandra, Nicola e Michele Mastropasqua Speranza, nuovi amici i primi due, vecchio amico il terzo. Tra una cosa e l’altra, il tutto è durato dalla 8:50 alle 12:35, più o meno. Data l’ora, mi sono detto “adesso vado a mangiare prima una cosa da Mario e poi ritorno a casa e metto a posto i panni”, e così ho fatto.
Appena alzato dal tavolino, il primo “allarme”, si fa per dire: non trovo il cellulare. Guardo sul tavolo di prima, guardo sul tavolo di dopo e non c’è. Guardo nella tasca sinistra, sarebbe il posto suo, idem, mi tocco dietro e sta nella tasca destra, non lo metto mai lì, ho paura che se mi siedo e lo rompo fa danni.
Cessato l’allarme cellulare entro da Mario e mi siedo. Saluto, ordino un piatto di pasta e un paio di contorni, prendo il mac dalla borsa e lo apro. Non trovo gli occhiali. Mentre Maria porta il primo contorno mi alzo e torno al bar, riguardo sui tavolini, chiedo alla signora Grazia e a Carmine se hanno visto gli occhiali anche se in realtà quello che mi dispiacerebbe davvero è aver perso il porta occhiali, che è un manufatto narrativo Scritte® della collezione AlphaBeta a cui tengo molto. Niente. Ritorno dentro, magari mi sono caduti nella borsa con i panni. Niente. Riesco fuori, magari li ho appesi da qualche parte. Sulla porta incontro una giovane coppia, lei con un bimbino in braccio. Mi guardano, li guardo, ci salutiamo. Mi ricordano qualcuno o qualcosa, ma adesso ho la testa impicciata.
Ritorno fuori, setaccio di nuovo tutti i tavolini, richiedo alla signora Graziella e a Carmine e quasi rassegnato faccio per tornare a casa, prima o poi verrà fuori, mi dico, a Cip non sparisce niente, o quasi, che alla fine pure lui è un paese abitato da umani.
Mi incammino verso casa e mi rendo conto che non ho il telefono, questa volta neanche nella tasca dietro. Ritorno da Mario, entro mentre Maria sta sparecchiando. In una mano ha il telfono, con l’altra tira via dalla sedia, dove lo avevo appeso, il mio portaocchiali. Era il primo posto dove avevo guardato, spesso me li tolgo dal collo e li appendo lì, ma non li avevo visti.
Al tavolo di fianco al mio sono seduti la coppia con il bambino. Lui mi saluta di nuovo e mi dice che sono Francesco e Grazia, che ci siamo incontrati a Gennaio e che ho raccontato il nostro incontro. La luce si accende immediatamente, li risaluto, faccio gli auguri con tutto l’amore che posso per loro e per lo splendido bimbo, chiedo come si chiama, “Noa”, mi risponde Francesco. “Come la cantante”, dico io, “sì”, mi risponde lui, “Noa è un nome sia maschile che femminile”.
Sorrido, mi viene in mente mio padre che arriva in clinica e io che gli dico che il suo primo nipote si chiama Luca e lui che mi chiede perché gli ho messo un nome da femmina. Sorridiamo, ci salutiamo, rifaccio loro tutti gli auguri del mondo e chiedo di fare una foto, bambino di spalle, quella che vedi in copertina. Mi dicono ancora di sì. Esco felice, penso che una storia così la devo raccontare.
Perché sì cara Irene, questa storia qui ha due finali possibili:
Nel primo, quello di gran lunga più probabile, io sono prossimo al punto in cui mi devo togliere le targhe e andarmene allo scasso, per essere finalmente rottamato e riposare in pace.
Nel secondo, al quale forse mi voglio aggrappare, è che gli occhiali si sono nascosti per farmi ritrovare Grazia, Francesco e lo splendido Noa, che davvero sono stati felice di vederli, perché alla fine il senso della mia vita, ogni giorno di più, è questo: incontrare persone e condividere sorrisi, gentilezza, nei casi più fortunati possibilità, nei casi più intimi gioia e dolore.
Sì, alla fine penso che siamo un poco anche le persone che incontriamo. Chissà, magari la prossima volta che incontro Noa ci posso anche un pochino chiacchierare, o se capita prima giocare, pensa che bellezza.