Le tesi ben fatte di Irene e Vincenzo

Caro Diario, oggi ti racconto del lavoro ben fatto di Irene Casa e di Vincenzo Orefice che venerdì scorso si sono laureati in Scienze della Comunicazione all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli con 110 e la lode.
Ora tu lo sai come la penso, il punto non è il voto, che quello nel migliore dei casi è una conseguenza, il punto è quello che Irene e Vincenzo sono, il punto è in che maniera hanno approcciato il lavoro di tesi, il punto è la capacità di tenere «la testa al proprio posto, cioè sul collo» a prescindere, il punto è la voglia di conquistare quel centimetro che ti permetterà di fare la differenza.

Te lo assicuro, amico Diario, basta avere un poco di sensibilità e te ne accorgi subito quando una ragazza o un ragazzo funzionano davvero, come è capitato a me e alla mia amica prof. Maria D’Ambrosio – titolare della cattedra di Comunicazione e Cultura Digitale di Scienze della Comunicazione – nel corso dell’Anno Accademico 20015 – 2016.
Ma secondo te perché una ragazza di 22 anni e un ragazzo di 23 che sanno di avere una media che senza grandi sforzi li porterà al 110 e lode, che sanno che con i nuovi regolamenti avranno 3 minuti per raccontare il senso del proprio lavoro, dovrebbero chiedere a me che da un lato non ho nessun ruolo formale nella loro università e dall’altro sono assai esigente (vogliamo dire scassambrello?) di seguirli nel loro lavoro? E perché si dovrebbero impegnare in un lavoro sul campo oltre che teorico per sostanziare con dati e idee le loro tesi?
Come dici?, te lo devo dire io? Perché funzionano un po’ come il muratore di Primo Levi di cui ti ho parlato più volte, quello che odiava i tedeschi e tutto ciò che era tedesco, a partire dalla lingua, eppure quando i tedeschi gli dicevano di costruire un muro lo tirava su bello forte e dritto, perché non lo faceva per i tedeschi, ma per il rispetto che doveva a sé stesso e al proprio lavoro. Sì, le condizioni per fortuna sono enormamente diverse, ma l’approccio è uguale, nel senso che Irene e Vincenzo il loro lavoro non lo hanno fatto bene né per l’Università e né per me, ma per loro, e se questo approccio qui saranno capaci di non smarrirlo potranno fare molte cose belle nella loro vita. Ed è per questo che Maria ed io abbiamo deciso di dar loro una mano.
Come dici?, che lavoro di tesi hanno fatto? Quella di Irene si intitola «A scuola di lavoro ben fatto, tecnologia e consapevolezza: un caso di studio» ed è partita dal lavoro che ha fatto insieme a me quest’anno in una scuola elementare napoletana di periferia, l’Istituto Comprensivo Porchiano – Bordiga di Ponticelli, diretto dalla preside Colomba Punzo. Quella di Vincenzo si intitola invece «Gioco d’azzardo patologico e calcio scommesse» e come capisci da te affronta uno dei temi più attuali e controversi della nostra contemporaneità.
Naturalmente se vuoi saperne di più ti conviene scaricare i due pdf con le tesi complete di Irene e Vincenzo e leggere tutto con calma, ma se per cominciare ti vuoi fare un’idea ti schematizzo in maniera un po’ arbitraria ma spero fedele il senso del loro lavoro.

Irene Casa
«Esplorare le infinite capacità derivanti dai mezzi che al giorno d’oggi ci sono messi a disposizione grazie ai progressi dell’innovazione e della tecnologia, sfruttandone le potenzialità a proprio vantaggio.
Ripensare al concetto di lavoro come qualcosa di profondamente identitario, che dà spessore e valore alla persona solo se applicato nel modo migliore possibile.
In sintesi l’intento prioritario è stato far nascere e sviluppare nei bambini un modo di pensare e approcciare alle cose e ai problemi in modo critico e consapevole.
Dal punto di vista più generale sono partita da una riflessione su quanto sia cambiata la concezione di scelta umana ai tempi del web.
L’Università Suor Orsola Benincasa nel 2016 ha promosso un’indagine, denominata “Infosfera italiana”, volta a chiarire questi aspetti, cercando di comprendere quali siano i nuovi meccanismi di influenza dei media, in particolare quelli presenti su internet, e la loro efficacia in termini di persuasione.
I contenuti del web si sono moltiplicati a tal punto da generare un overload di informazioni che sovraccarica l’utente, disturbandone l’attenzione e la concentrazione. Dovendo gestire più informazione di quanta possiamo effettivamente processarne, il rischio è di cadere vittime del confirmation bias, cioè la tendenza a rimanere legati ad un’idea che ci siamo fatti sulla base di informazioni preliminari, anche quando evidenze successive contraddicono quell’idea. L’esposizione ai flussi informativi non solo dimostra l’esigenza di dipendenza dal racconto, ma palesa anche un dispositivo di sottrazione del tempo, che evita la strutturazione del pensiero razionale, rendendolo fragile.
Ritornando al punto è stato proprio questo l’obiettivo che abbiamo cercato di raggiungere con i bambini delle prime elementari, ovvero cercare di introdurre in loro un tipo di ragionamento critico e razionale che possa guidarli in autonomia nelle scelte future.
Per fare ciò abbiamo pensato a varie attività interattive, come quella di costruire in gruppo dei camioncini lego, per fare notare loro come ogni piccolo ingranaggio fosse necessario alla riuscita del risultato finale. Inoltre, con l’aiuto delle insegnanti abbiamo ripercorso la storia dell’alfabeto, mostrando come ogni lettera abbia in realtà una storia alle spalle che giustifichi il perché oggi venga scritta in quel determinato modo. Altra attività importante è stata quella di ripensare al lavoro dei propri genitori e di associare ad ogni mestiere un attrezzo utilizzato, in modo da far capire come ogni lavoro necessiti degli strumenti adatti per essere svolto nel modo migliore possibile. Infine, l’attività che reputo di maggiore impatto è stata quelle dell’invenzione delle storie. In vari modo abbiamo provato a spronare la fantasia dei bambini, che attraverso un disegno o una parola hanno inventato racconti che mescolassero la realtà e l’immaginazione, creando dei link tra situazioni apparentemente diverse, ma che possono ritrovare nella vita quotidiana. È quello di cui parla il teorico americano Karl Weick quando afferma che “le storie aiutano la comprensione, perché integrano quello che si sa di un evento con quello che è ipotizzato, suggeriscono un ordine causale tra eventi che in origine sono percepiti come non interconnessi, consentono di parlare di cose assenti e di connetterle con cose presenti a vantaggio del significato”.
Alla fine dell’anno i risultati che abbiamo raggiunto e individuato, così come testimoniato anche dalle insegnanti e dalla preside in un’intervista finale che ho fatto loro, sono stati:
l’aver accresciuto autonomia, creatività, senso civico, responsabilità, approccio critico, capacità di risolvere problemi, per valorizzare conoscenze e competenze;
mirare a evidenziare le connessioni tra fare e pensare e attivare i processi di costruzione di senso e di significato, moltiplicare i processi di inclusione, incentivando sempre i bambini nel diventare “artigiani”, mettendo sempre qualcosa di sé, di personale e unico, nelle attività che svolgevano.»

Vincenzo Orefice
«
Ho deciso di trattare come argomento il gioco d’azzardo patologico e il calcio scommesse, un fenomeno che si sta ampliando sempre di più portando alla disgregazione di molte famiglie, colpendo l’intera società che sta perdendo l’importanza della cultura e il valore del lavoro.
Ho cercato di spiegare quali sono i pericoli che si possono verificare giocando d’azzardo, o meglio il prezzo di vita da pagare quando si entra nel tunnel della ludopatia. 

Difatti siamo in un periodo in cui ci si gioca tutto dalla semplice bolletta ai numeri al lotto e i gratta e vinci.  Nel 2016 in Italia si è superato ogni record con una spesa nel gioco di 95 miliardi di euro, come se ogni persona, neonati compresi, avesse giocato e magari perso 1583 euro.
Nel nostro paese sono presenti circa 400 mila macchine da gioco, in pratica un apparecchio ogni 151 abitanti, molte di queste collocate nei punti sensibili, vicino a scuole e chiese in modo da invogliare a giocare anche i più piccoli.
Proprio per questo, durante la mia ricerca, ho intervistato un ragazzo minorenne per cercare di capire cosa provano e come si comportano quando scommettono. Le sue risposte hanno avvalorato le tematiche trattate nella mia tesi; da sottolineare l’ansia e la voglia di rifarsi dopo una sconfitta. Questi determinano un contesto nel quale si perdono completamente le caratteristiche proprie del gioco ovvero il divertimento, la consapevolezza della possibilità di perdere e la complicità.
Il modo di scommettere è cambiato nel corso degli anni, si è passati dal totocalcio alla bolletta, fino ad arrivare alle scommesse online sviluppatesi grazie alla tecnologia che dà la possibilità di scommettere direttamente da casa in modo veloce.
Si è un po’ tutti giocatori sociali e ogni settimana si è disposti a rinunciare a qualcosa come una pizzetta o un pacchetto di gomme, ma difficilmente si rinuncia alla schedina o ai numeri al lotto, i soldi per il gioco in un modo o nell’altro si fanno sempre uscire.
Quindi si acquista speranza inseguendo numeri e risultati sportivi, dissipando ricchezza materiale per acquisire ricchezza immateriale, perché si vive di speranza, credendo che prima o poi la vita possa cambiare in meglio.
Speranza diffusa molto tra i giovani ed è per questo che bisognerebbe proporre un approccio educativo al gioco, incontri nelle scuole che dimostrino l’importanza del divertirsi giocando,  eliminando l’idea di inseguire ricchezze.  

Altre possibili soluzioni possono essere norme più restrittive, come maggiori controlli fuori alle sale gioco, impedendo così ai minori di entrare, facendo comprendere l’idea del gioco responsabile.
D’altra parte però come afferma la ricercatrice, Tracy Schrans, se il gioco responsabile fosse stato un successo, l’industria avrebbe chiuso per mancanza di introiti.»

Ecco amico Diario, penso di dover aggiungere solo un’altra cosa prima di concludere, e cioè che noi grandi, che poi è un modo abbastanza supponente e autoreferenziale di definire noi adulti, o meno giovani, o come ti piace, dobbiamo sentire l’urgenza di fare qualcosa affinché il talento, l’approccio, la voglia di essere e di fare delle ragazze e dei ragazzi come Irene e Vincenzo, che non sono tutte/i ma sono tante/i, non vada disperso, trovi ciò organizzazioni e contesti, ambienti, in grado di valorizzarli e moltiplicarli. Sì, sono convinto che sia questa la cosa più importante da fare nel tempo che resta a quelli della nostra età prima di tornare a essere polvere di stelle, naturalmente spero che anche questa mia piccola storia possa essere utile, ma di certo non può bastare. Chissà, quello che siamo disposti a fare per le generazioni più giovani potrebbe essere il tema di una nuova discussione, ma quello che siamo disposti a fare ciascuno di noi in prima persona, che a dire quello che dovrebbero fare gli altri siamo bravi tutti.
iv
Post Scriptum
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