Scuorno

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Lo trovo come ogni volta appena fuori dalla stazione, sulla destra, di fianco al cancello dello stabilimento, seduto di sbieco, i piedi appoggiati per terra, sediolino di fianco al lato guida, nella sua Multipla color amaranto.
Come ogni volta lo stereo effonde, discreto, buona musica. In questa torrida domenica di fine luglio «Love is the sevent wave» sembra sia stata scritta apposta per me, ma quando non è Sting sono Miles Davis, Charlie Haden, i Led Zeppelin, Enzo Avitabile, Carlos Santana. Solo note necessarie, insomma.
Come ogni volta mi saluta, mi fa entrare, chiude piano la porta che mica c’è bisogno di sbatterla come faccio io, fa il mezzo giro davanti, si siede al volante e mi guarda divertito mentre invento acrobazie con la cintura di sicurezza.
Come ogni volta mi dice «Cosimo, senti questo pezzo quanto è bello», con la faccia di chi ha appena rubato le caramelle e il tono di chi ti ha appena dato un ordine.
La voglia di contraddirlo non ce l’ho. E neanche mi viene. Il pezzo è bello davvero. E mi piace la sua idea che alla musica non bisogna dare etichette, è vietato mettere confini. Per mio fratello la musica o è buona, oppure no. E qui fu Napoli. Che poi sarebbe la sua versione di ipse dixit.

«Cosimo, ci dobbiamo fermare un attimo dal fruttivendolo, ho ordinato il cocomero,  ventuno chili, gli ho detto di metterlo in frigo, così ce lo possiamo mangiare bello fresco già a pranzo. Sei contento?»
«Sono contento? E stasera come la mettevi la testa sopra il cuscino se non mi facevi trovare il cocomero. Il treno ha impiegato settanta minuti per percorrere i sessantuno chilometri che separano Napoli da Sessa Aurunca. Un’ora e dieci di inferno: gente in piedi, finestrini che non si potevano aprire e aria condizionata che non funzionava, faceva ‘nu calore ‘e pazze. E non ti dico il bambino che strillava senza requie mentre la mamma giocava con il telefonino, li avrei strozzati volentieri tutti e due. Il cocomero è stato la salvezza mia, Libero. Ho pensato solo a lui per tutto il tempo.»

La fermata non dura proprio un attimo. Tra quelli che tornano dal mare e quelli che escono dalla chiesa ci sono più persone dal fruttivendolo che nella piazza del paese. Per fortuna, come dicevano gli antichi, solo quello che non comincia non finisce, e così viene pure il turno nostro.

«Rocco, piglia il cocomero dal frigorifero e mettilo nella macchina di Libero. Allora, riepiloghiamo: quattro euro e venti i pomodori, due e ottanta le pesche, tre euro i peperoni, cinque e venticinque il cocomero, in tutto fanno quindici euro e venticinque. Mamma mia come stai abbronzato Libero, ma tu non lavori mai?»
«Lavoro, Salvatore, lavoro. Faccio la guardia notturna, presto servizio a Latina. È che sono vittima di una maledizione, non dormo. E allora faccio di necessità virtù e mi godo la famiglia e il mare.»
«Lo dicevo io che non potevi stare già in pensione. A proposito, ma tu quanti anni tieni?»
«Quarantasette.»
«E si, a quarantasette anni la pensione. Oggi come oggi ce ne vogliono almeno settanta prima di poter appendere le scarpette al chiodo. Ecco il resto, tieni, controlla. Sono trentaquattro euro e settantacinque centesimi. Alla prossima Libero. Piacere di averti conosciuto, Cosimo. Buona Domenica.»
«Speriamo che la domenica sia davvero buona Salvatore, quello se il cocomero non è dolce come dice lui a Cosimo chi lo mantiene. Lui è il fratello più grande, gli dobbiamo rispetto, pensa che si è sacrificato così tanto sui libri che non ha trovato neanche il tempo di mettere su famiglia, a sentire lui conviene avere solo rapporti occasionali, ma va a sapere come vanno davvero queste cose. Comunque, è meglio che lo sai: se il cocomero non è buono domani vengo e te lo suono in testa.»
«È buono, è buono, non ti preoccupare. Cosimo, vedrai, rimarrai contento.»

Vorrei dire qualcosa, ma non mi vengono le parole. La verità è che un poco ho sentito e un poco no, è come se l’orologio nella mia testa si fosse fermato a Libero e alla sua inutile bugia. Credo di aver bofonchiato una cosa tipo «se se, sfottete, sfottete, che gli sfottuti vanno in paradiso», di aver fatto una smorfia che voleva essere un sorriso e di aver pensato che nonostante il bene che gli voglio a volte mio fratello non lo sopporto. Ma come fa a parlare con un estraneo della mia vita, delle mie scelte, di quello che avrei voluto e di quello che ho potuto fare? Sì, certe volte la parte del ciuccio presuntuoso gli riesce proprio bene.
Le braciole di nostra madre non tradiscono le attese, ancora oggi sono il suo piatto forte. Le farcisce con aglio, prezzemolo e pinoli, le arrotola, le chiude con gli stuzzicadenti e le fa cuocere a fuoco lento nell’acqua per almeno due ore, con un po’ di cipolla che così si insaporiscono. Dopo di che le mette nel sugo e aggiunge un po’ d’olio, ed è così che quando le mangi ti si squagliano in bocca neanche fossero crema. Con le braciole sono memorabili anche le melanzane indorate e fritte, in culo al caldo, all’estate e a quelli che «io quando fa così caldo a pranzo mangio solo uno yogurtino». Aveva ragione Salvatore, il cocomero è all’altezza della situazione, e anche il caffè. Come faccio a intrugliare un pomeriggio così con i miei pensieri? Ma p’ammore ‘e Dio! Apro la busta numero uno. Mi faccio i fatti miei.
Il momento giusto arriva da sé il giorno dopo. Il resto della famiglia prolunga la sua  permanenza a mare e tocca a me e a Libero aspettare che nostra madre finisca di innaffiare i pomodori per accompagnarla da Maria, la femmina di casa Formenti. Nata dopo cinque maschi, doveva essere per forza la cocca di papà, uomo di fermi convincimenti, ivi compreso che allora si finisce di fare figli quando arriva la femmina.

«Libero, come ti è venuto in mente di dire al fruttivendolo che fai la guardia notturna, da quando in qua racconti queste fesserie?»
«Ho cominciato dopo la malattia. Il fatto è che mi metto scuorno.»
«Provi vergogna? E di che?»
«Del fatto che non lavoro.»
«Secondo me a te la pensione la devono dare per scemenza aggravata e continuata, altro che cento per cento di invalidità. Tu sei scemo davvero, con la patente, al tuo livello ti tocca pure l’accompagnamento. Ma ti sei scordato del perché non lavori? Del tumore, dell’operazione, della chemioterapia? Ma vaffanculo Libero, va, tu e ‘o scuorno.»

Il cigolio della maniglia segnala mamma in arrivo. Entra, in una mano porta le scarpe intrise di fango e nell’altra la busta con i pomodori da portare a Maria. A me toccano le scarpe. Mentre apre la porta del bagno ricorda a Libero che bisogna mettere un po’ d’olio nella maniglia, «tanto se non lo fai tu non lo fa nessuno». Lo scroscio dell’acqua e la caldaia che parte ci dicono che possiamo tornare a discutere.

«Senti Cosimo, del perché e del per come non me ne importa niente. La verità è che a me  lavorare piace, lo faccio con gioia, mi dà calore, non lo sopporto il fatto che a quarantasette anni sono diventato un uomo senza identità. Non sono un lavoratore perché non ho più né la fabbrica né i miei compagni di lavoro, non sono un disoccupato perché non sono in attesa di occupazione, non sono neanche un pensionato perché con i quattro soldi che mi passa la previdenza sociale senza il lavoro di mia moglie non potrei neanche mangiare, ancora di più adesso che, grazie al referto di uno stronzo di medico che neanche le carte si è letto, la pensione me l’hanno tagliata del trenta per cento. Lo vuoi sapere perché? Perché alla fine del mese scorso sono andato alla visita di controllo ben vestito, abbronzato e con la barba fatta. Perché secondo loro uno oltre a essere malato deve essere anche trasandato, avvilito, senza dignità. Fratello, in questa situazione lo sai che sono io? Nun so’ niente. E io mi metto scuorno di essere niente, di non sapere cosa rispondere quando qualcuno mi domanda che lavoro faccio.»

Lo guardo e mi perdo nella tenerezza dei suoi occhi. Non aggiunge altro. Non dice che lo trova ingiusto e neanche che non se lo merita. Solamente che si mette scuorno. E basta.
La sera quando mi metto a letto ho in testa un mare agitato di pensieri.
Pensieri. Pensare. Pensiamo, dunque siamo. A volte mi piace, altre trovo più interessanti le connessioni tra la nostra condizione umana e il fatto che sbagliamo e moriamo. A volte mi arrabbio, perché vorrei che tutti pensassero di più, altre mi accontento, non siamo perfetti, conviene farsene una ragione. Quando si tratta di pensare, l’aspetto forse più divertente è che ognuno ha le proprie preferenze: ci sono quelli che si mettono il cappello in testa come nei giornaletti di Topolino, quelli che pensano mentre stanno sotto la doccia e quelli che per farsi venire un’idea devono camminare, camminare,  camminare.
Io alle sette del mattino seguente sono all’altezza del caseificio che faccio a pugni con l’idea che Libero deve convincersi che nella sua vita qualcosa di importante è cambiato. Al semaforo sulla Domiziana, una quarantina di minuti dopo, penso che deve essere orgoglioso delle mille cose che sa fare. In piazza, quando le lancette del campanile indicano le otto e mezza, che devo avere rispetto del suo scuorno. È sul vialetto di casa – manca un quarto d’ora alle nove – che mi appare la parola giusta, quella che potrebbe tenere assieme il cambiamento, l’orgoglio e il rispetto.
Libero armeggia, come al solito, nel box dietro casa. Malattia o non malattia, con quelle sue mani grandi continua a destreggiarsi tra martelli, pinze e chiavi a stella meglio di me con le carte quando giochiamo a tressette.

«Buongiorno Cosimo, tutto a posto la camminata? Qua come vedi bisogna stare sempre sul punto, tenere tutto in ordine, altrimenti lo sai come va a finire, nostra madre una mattina che si alza con la luna storta chiama ‘o sapunaro, il robivecchi, e getta tutto.»
«Buongiorno Libero. Artigiano.»
«Artigiano che?»
«Quando ti chiedono cosa fai, rispondi che fai l’artigiano. È la verità, nelle cose che fai metti competenza, impegno e passione, sai lavorare il legno e il ferro, sei bravo con gli impianti elettrici e con quelli idraulici, se serve ti sai destreggiare anche con pareti e pavimenti.  Più artigiano di così.»

I suoi occhi azzurri si fanno verdi e poi di nuovo azzurri per la contentezza, insomma sono uno spettacolo. Decidiamo che potrebbe essere il suo prossimo lavoro, che almeno metà giornata potrebbe impegnarla così; aggiungo che intanto gli faccio stampare dei biglietti da visita, un tipo semplice, proprio come lui: nome e cognome sopra, numero di telefono e indirizzo di posta elettronica sotto e al centro, bella grande, la parola artigiano con la A maiuscola.

«Fratello, questa storia dell’artigiano mi piace.»
«Sono contento.»
«Dai ammettilo, senza una qualifica, un mestiere, sei un mezzo uomo.»
«Adesso il mestiere ce l’hai. E comunque anche Frodo è un mezzo uomo.»
«Cosimo, Frodo è uno hobbit e vive nella Terra di mezzo, io sono alto quasi due metri e vivo nell’incubo. Lascia perdere. Piuttosto non dimenticare i bigliettini, che qui in paese fanno effetto.»

Il giorno dopo ancora sono lì che ci penso.
Tra tutti noi Libero è quello che assomiglia di più a papà. Me lo ricordo così da sempre, con il suo amore per le cose belle, con la sua voglia di esserci con la testa, con le mani e con il cuore, con la sua capacità di sparigliare, creare, mescolare, rimettere insieme le tante cose che sa fare. Ritrovarsi senza lavoro è dura per tutti, per uno come lui ancora di più. È come se il fatto di svegliarsi la mattina e di doversi inventare che fare gli facesse mancare il senso di orientamento, la direzione di marcia. Uno quando ce l’ha non ci pensa, ma il lavoro è anche questo, che tu ti svegli, fai colazione, ti prepari, e vai in cantiere, in fabbrica, in bottega, in ufficio, perché è questo quello che ti tocca fare ogni mattina.
Mi affaccio sulla porta, guardo verso il pesco e noto con piacere che continua a essere carico di frutta, si vede che è il tempo suo. Mi giro quando sento i passi di Libero che scende le scale, mentre mi dice buongiorno lo prendo sottobraccio e lo porto verso l’albero del mio desiderio.

«Cosimo, Hai finito di scrivere il nuovo libro? – mi chiede -.»
«No, ci sto ancora lavorando – rispondo mentre mi asciugo le labbra con il dorso della mano».
«Mi piacerebbe ascoltare qualcuna delle tue storie. Ti ricordi di quando ero piccolo e mi narravi di Cappuccetto Rosso che fa fuori la nonna e si mangia il lupo? O di Biancaneve che schiavizza i sette nani e vende diamanti al mercato nero? Difficile sentire favole altrettanto sgangherate, però mi piacevano. In questo periodo ho particolarmente bisogno di storie belle, meglio se sono vere, che così ci credo di più, e mi piace quando ti infervori parlando delle tue persone normali che amano quello che fanno e cercano di farlo bene. Data la situazione, diciamo che il mio titolo potrebbe essere ‘una storia al giorno toglie il medico di torno’. Tu che dici, si può fare?»
«Certo che si può fare, a patto che mi fai finire di mangiare la pesca e lasci stare i medici, che quelli sono già così dentro le nostre vite che possiamo fare a meno di infilarli anche nelle nostre storie. E poi tieni presente che, per quanto mi farebbe piacere, la parte di Shahrazād ne Le mille e una notte proprio non mi si addice. Posso darti da leggere le prime bozze del libro, il titolo dovrebbe essere Il lavoro ben fatto, è un romanzo con una storia principale dove narro, per l’appunto, del viaggio di due amici alla ricerca dell’Italia che dà valore al lavoro e mette passione nelle cose che fa, che si intreccia con ventidue racconti scritti in prima persona dai protagonisti, che però non sono soltanto persone in carne e ossa, ma anche luoghi, cose, idee, futuro.»
«Aspetta aspetta Cosimo, per favore ripeti, perché io non sto capendo niente.»
«Hai ragione, qui se non sto attento mi confondo pure io. Facciamo così: a Shahrazād la lasciamo perdere e per quanto riguarda il resto diciamo che il lavoro è il filo rosso che tiene assieme le cose che ho voluto e potuto fare fino a oggi nella mia vita e che il libro è il mio modo di ridare indietro almeno una parte di quello che mi è stato dato.»
«Bella questa idea di non prendere soltanto, di ridare indietro qualcosa.»
«Mi sembra il minimo, a me il lavoro ha dato veramente tanto. Certo, non sono mancati i problemi, le difficoltà, gli egoismi, persino le cattiverie, perché nella cucina dell’esistenza gli ingredienti ci sono tutti, ma alla fine la bellezza che ho trovato nel mondo del lavoro non l’ho trovata da nessuna altra parte. Libero, la verità è che di belle storie abbiamo bisogno tutti come il pane, bisogna imparare a cercarle perché così le trovi dappertutto, e quando non le trovi tu ti trovano loro, e si prendono cura di te.»
«Cosimo, ti dico la verità, al principio mi sembrava chiaro, poi mi sono perso di nuovo».
«Lascia stare, le spiegazioni sono sempre più complicate di quello che devono spiegare. È  come per le medicine, se leggi le istruzioni non le prendi più.»
«E mica è detto che sarebbe un male.»
«Anche questo è vero. Comunque stampiamo queste bozze e comincia a leggere, che poi quando torno ne parliamo. Vedrai che con il tuo aiuto il libro diventa più bello.»
«Adesso non esagerare. Comunque io non mi faccio problemi, se ho qualcosa da dirti te lo dico, altrimenti faccio come Totò, desisto. Che dici, siamo d’accordo?»
«Siamo d’accordo.»
Sorrisi.
scuorno
NOTA
Scuorno è il primo degli otto episodi di Via Canova, il racconto che fa da filo conduttore a Testa, Mani e Cuore, edito bel 2013 da Ediesse nella collana Carta Bianca.

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