Il lavoro ben fatto, l’intelligenza artificiale e la nostra umanità

Caro Diario, ieri sera il mio amico Mirko Lalli, founder e Ceo di Travel Appeal, mi ha segnalato la TED Talk di Kai-Fu Lee e mi ha chiesto un feedback, per favore guardala anche tu così dopo riusciamo a parlarne meglio.

 

Ecco amico Diario, non so tu ma io la prima cosa che ho pensato mentre guardavo la talk è stata “ha ragione Mirko, è davvero stimolante”, però è la seconda cosa quella che mi ha turbato veramente, quando Kai-Fu Lee ha parlato della startup cinese che ha lanciato il messaggio “vieni a lavorare con noi perché applichiamo solo il 996 – si lavora solo dalle 9 di mattina alle 9 di sera per 6 giorni alla settimana” e io ho sentito una botta di angoscia partire dalla testa e arrivare allo stomaco passando per il cuore.

Come dici caro Diario? Turbato è poco?, c’è da sentirsi male a pensare che molte aziende cinesi praticano il 997? Sono d’accordo, ma spero di non deluderti se ti dico che in quel momento la cosa che mi ha fatto stare male di più non è l’empatia con i lavoratori, cinesi o di ogni altra parte del mondo dove i diritti delle persone non sono riconosciuti, Italia compresa, ma il rigore logico con il quale più avanti Kai-Fu Lee ha messo in discussione il valore, l’importanza, il senso, che per tutta la sua vita ha dato al lavoro, è come se stesse parlando proprio a me, è come se stesse rottamando il mio lavoro ben fatto, a un certo punto ho pensato “ecco perché Mirko mi ha chiesto di guardare questa talk e di dargli un feedback”.

Sai allora che ho fatto? Ho fermato la talk, ho fatto un respiro profondo e mi sono messo a pensare. Sì, sarebbe stato bellissimo essere lì nell’Aprile dello scorso anno ad ascoltare Kai-Fu Lee dal vivo, però anche la visione in differita ha i suoi vantaggi, perché dal vivo avrei potuto a massimo fare il respiro profondo, di certo non avrei potuto fermarlo e non avrei potuto pensare prima che lui finisse.
Sai come la penso, il “vizio” più bello del mondo è quello di pensare, bisognerebbe potersi dare sempre il tempo per pensare, però non prima di fare, per fare, perché sono sempre più convinto che ha ragione Sennett quando scrive che fare è pensare.

Tornando al punto, ho pensato che non funziona come dice Kai-Fu Lee o, meglio, ho pensato che funziona come dice Kai-Fu Lee ma come dice lui viene dopo a come dico io.
Aspetta, lo so che detto così sembra presuntuoso da parte mia, ma tu mi conosci, la presunzione non c’entra nulla, lasciami spiegare meglio.
Tralascio volutamente gli aspetti troppo facili della questione, per esempio la parte in cui Kai-Fu Lee presenta come una grande conquista in termini di consapevolezza e di cambiamento anche personale il fatto che adesso lavora “solo” 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, anche se il fatto che in altre parti del mondo le 40 ore settimanali sono una conquista consolidata da molte decine di anni forse gli avrebbe potuto suggerire qualcosa di significativo.

Ancora sul punto: la mia tesi è che è il lavoro ben fatto che può salvare la nostra umanità, non l’intelligenza artificiale. E a sostegno della mia tesi porto una domanda, una risposta e un corollario.
La domanda: che cos’è il lavoro ben fatto?
La risposta: il lavoro ben fatto è mettere i piedi giù dal letto la mattina e fare bene quello che devi fare, indipendentemente da quello che devi fare.
Il corollario: per fare bene quello che devi fare indipendentemente da quello che devi fare ti devi abituare a fare bene quello che devi fare.

No amico Diario, non è uno scioglilingua, è piuttosto l’uovo di Colombo. Prova a pensare a quando la mattina ti infili il maglione, ti abbottoni la camicia, ti allacci le scarpe.
Certo, sei umano, siamo umani, ogni tanto ti puoi sbagliare – il maglione al contrario, il bottone saltato, il laccio troppo lento –  ma di norma lo fai bene in maniera automatica, senza pensarci, o anche mentre pensi ad altro, magari fischietti o canti una canzone.

Non è stato sempre così. È così adesso, perché ti sei abituato a farlo nel modo giusto, ma all’inizio hai dovuto imparare a farlo. Ricordi?, ti ho fatto già più volte l’esempio dei lacci delle scarpe, di come ogni mamma e ogni papà siano passati per la fase “vedi piccola/o mia/o, è facile, tira il laccetto destro, tira il laccetto sinistro, adesso stringi forte con il ditino in mezzo, poi fai la nocchetta a destra, fai la nocchetta a sinistra, intrecciale ed è fatta”.
Altro che facile, ho visto bimbe/i piangere disperate/i perché non ci riuscivano mentre adesso che sono più grandicelli le scarpe se le allacciano anche mentre corrono.
Dai, dici la verità, hai mai visto una/o di loro legare il laccio della scarpa destra con quello della sinistra? Io no, e sai perché? Perché si sono abituate/i a farlo nel modo giusto.
 Sì, caro mio, il lavoro ben fatto è abitudine e cultura, la cultura che fa sì che ci siano città e paesi nei quali nessuna/o butta una carta a terra e città e paesi dove invece sì, naturalmente potrei fare altri mille esempi ma penso che ci siamo capiti e mi fermo qui.

Abitudine e cultura. In questo senso il lavoro ben fatto è l’uovo di Colombo, perché è un approccio, un modo di essere, di pensare e di fare. In questo senso vale sempre, nel lavoro, nello studio, nella vita, nelle cose piccole piccole e nelle cose grandi grandi. Sì, è sempre lavoro ben fatto, anche quando è studio ben fatto, è vita ben fatta, è gioco ben fatto, è solidarietà ben fatta, è collaborazione ben fatta, è competizione ben fatta, è ambiente ben fatto, è futuro ben fatto, è amore ben fatto.

È in questo senso che quello che dice il grande Kai-Fu Lee viene dopo quello che dice il piccolo Moretti, è una questione di ambiti, di confini che non coincidono, di temi che sono parte di altri temi anche quando sono posti come se fossero “il” tema.
Sì amico mio, per me il lavoro che cambia e il nostro rapporto con questo cambiamento stanno dentro i confini più larghi del lavoro ben fatto, è un po’ come un sistema di scatole cinesi, che del resto non vale solo tra lavoro e lavoro ben fatto ma anche tra lavoro e lavoro, come dimostra lo stesso Kai-Fu Lee – perché naturalmente la sua talk poi l’ho ascoltata tutta, tre volte per la precisione – quando alla fine parla dei lavori di cura, dei lavori sociali e così via discorrendo.

Come dici caro Diario? Per la verità di queste cose qui ho scritto tante volte anche io? Vero, per esempio nella lettera a Luca De Biase pubblicata su Il Sole 24 Ore a Novembre 2017, l’articolo si intitolava La società si dibatte fra lavoro come identità o come bancomat, dove accennavo anche al tema lavoro produttivo – creazione di plusvalore, con un concetto che oggi riformulerei così: nel futuro prossimo venturo bisognerà considerare plusvalore non solo quello che produce profitto e remunera il capitale e l’impresa ma anche quello che produce general intellect, comunità, socialità, miglioramento della qualità della vita, benessere e felicità delle persone.

Ciò detto, ritorno all’aspetto secondo me centrale della questione, quello relativo al senso del lavoro ben fatto, al suo essere uno stile di vita, alla sua possibilità di essere una leva che ci può aiutare a cambiare il mondo. Semplicemente. Come l’uovo di Colombo.
Resto in ascolto, fammi sapere cosa ne pensi.
bigongiari79

LEGGI ANCHE
Il manifesto del lavoro ben fatto

Una vita senza lavoro è una vita senza significato, pure se tieni i soldi
La blockchain del lavoro ben fatto
Il #lavorobenfatto raccontato in quattro parole. Più una cinque

A scuola di lavoro ben fatto, di tecnologia e di consapevolezza
La comunità del #lavorobenfatto
Le leggi del lavoro ben fatto

Le città del lavoro ben fatto reloaded
Di narrazione e di lavoro ben fatto reloaded
Lavoro ben fatto: nessuno si senta escluso