Il lavoro ben fatto in quattro parole, più una cinque

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Caselle in Pittari, 29 Settembre 2021
Caro Diario, oggi ti voglio raccontare il mio amore per il lavoro ben fatto. So che mi capisci, per fortuna capita a tanti di innamorarsi di un’idea, alla fine teneva ragione Whitehead, “Il pensiero è una straordinaria modalità di eccitamento”.
Come sai di questa idea, di questa possibilità, mi parlò per la prima volta mio padre, una sera di più di 50 anni fa, spiegandomi la differenza tra il lavoro «preso di faccia», quello fatto con impegno, dedizione, passione, e il lavoro «a meglio a meglio», quello che invece no. Con il passare degli anni mi sono sempre più convinto che era una buona idea, e così ho pensato di  fare qualcosa per propagarla, per farla camminare, per fare in modo che fosse condivisa da tanti, che aiutasse a moltiplicare le opportunità e a produrre un cambiamento. È così che il lavoro preso di faccia è diventato il lavoro ben fatto, che come ci siamo detti altre volte, vale sempre, in qualunque contesto o situazione, nessuno si senta escluso.

Come dici amico Diario? Ho fatto bene a provarci? No, non mi sono spiegato, io non ci ho provato, sono un vecchio seguace del Maestro Yoda, quello di  “Fare, o non fare! Non c’è provare!”, perciò sono stato sul punto e ho fondato #lavorobenfatto, che oggi come sai è un movimento culturale, un format, un manifesto, un magazine, questo blog, un approccio che racconto in giro per l’Italia e un libro. Ebbene sì, oggi per quanto mi riguarda è questo e magari anche qualcosa d’altro ancora, ma se ho rimesso mano a questo vecchio post è per ritornare sulle quattro parole, più una cinque, che mi hanno accompagnato in questi anni, le parole sulle quali si regge l’intera casa, come direbbe Wittgenstein, che ogni tanto fa bene ritornare all’essenziale, venire al succo, come diceva mio padre.

La prima parola è bellezza. 
Fare bene le cose è bello. 
Vale sempre, qualunque lavoro fai, il pasticciere, il medico, l’ingegnere, l’operaio, lo scienziato, l’artigiano. 
E guarda che non sto parlando soltanto del piacere di sentirsi dire «che bella cosa che hai fatto», sto parlando anche, prima di tutto, di quello che sentiamo dentro, perché ognuno di noi dentro di sé lo sa quando una cosa è fatta bene.

La seconda parola è senso. 
Fare bene le cose ha senso. Qualsiasi lavoro fatto bene ha senso. Ce lo racconta Nuto ricorda Anguilla che dice che «l’ignorante non si conosce mica dalle cose che fa ma da come le fa». Ce lo racconta la scritta «Ciò che va quasi bene non va bene» appesa fuori alle vecchie botteghe artigiane in provincia di Salerno. Ce lo racconta Walter Isaacson nella biografia di Steve Jobs scrivendo del padre Paul che aveva insegnato al figlio che bisogna fare bene anche la parte di dietro delle staccionate, e quelle degli armadi, anche se non si vedono, anche se stanno appoggiate al muro. Ce lo racconta Primo Levi che giusto trenta anni fa – era il 26 novembre 1986 – nel corso di una intervista a Philip Roth pubblicata da La Stampa ricorda che persino ad Auschwitz il bisogno del lavoro ben fatto era talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il lavoro ben fatto come strumento per difendere la propria umanità anche nell’orrore, nell’incubo, questo ci dice Levi e a me sembra un messaggio di una forza e di una intensità straordinaria.

La terza parola è giustizia. 
Fare bene le cose è giusto. Se ci pensiamo bene è persino indispensabile. Per avere una strada pulita c’è bisogno di uno spazzino che abbia fatto bene il suo lavoro, e se vuoi avere un bambino che ami la matematica, e l’italiano, e la storia, insomma il sapere, c’è bisogno di un insegnante che abbia fatto bene il suo lavoro. E così è con il medico se vuoi essere curato bene e con ogni altra cosa della vita. Dopo di che lo sai cosa succede se ognuno fa bene quello che deve fare? Funziona tutto meglio.

La quarta parola è convenienza. 
Fare bene le cose conviene, te lo dico con la pasta e fagioli, che era il piatto preferito di mio padre. 
Per fare la pasta e fagioli ci vogliono i fagioli, la pasta, la pancetta, il lardo, il sedano, la cipolla, l’olio, l’aglio, l’acqua, il fuoco, la pentola, i piatti, le posate, altra acqua e il sapone per lavare le stoviglie, l’elettricità se usiamo la lavastoviglie, il tempo, la risorsa più preziosa che esista al mondo, per fare tutte queste cose. Ecco, cos’è che dà senso a tutto questo? Il fatto che quando la mangi la pasta e fagioli che hai fatto è buona, saporita, perché altrimenti avrai buttato i fagioli, la pasta, la pancetta, il lardo, il sedano, la cipolla, l’olio, l’aglio, l’acqua, il fuoco, la pentola, i piatti, le posate, l’altra acqua, il sapone per lavare le stoviglie, l’elettricità e il tempo.

Il lavoro ben fatto è insomma un modo per vivere una vita più bella, più felice, più degna di essere vissuta. 
Ora se stai pensando che realizzare tutto questo sarebbe bello vuol dire che non ti ho fatto innamorare abbastanza e questo mi dispiace assai. Perché non sarebbe bello, è bello, si può fare, si fa, lo stiamo facendo, siamo in tanti a farlo ogni giorno e siamo in tanti che stiamo imparando a farlo, ad esempio a scuola, dalla prima elementare all’università, e funziona, te lo assicuro.

Ecco, la quinta parola è possibilità, perché il lavoro ben fatto è proprio così, possibile, easy, semplice. È un approccio, nel senso che tu impari, ti ci abitui, prendi il «vizio» e non smetti più. Come allacciarsi le scarpe, abbottonare la camicia, andare in bicicletta.
Pensiamoci per un attimo assieme, pensiamo alla possibilità che chiunque arrivi da qualunque parte del mondo in un qualunque aeroporto, una qualunque stazione, un qualunque Comune italiano trovi un cartello con su scritto «Benvenuti in Italia, il paese dove ognuno fa bene quello che deve fare e tutti vivono meglio». Dici la verità, non avrebbe più senso, non sarebbe più bello, più giusto, più conveniente vivere in un Paese così?

La mia morale della storia, caro Diario, è che il lavoro ben fatto è possibile, è per questo che spero tanto che te ne innamori anche tu, funziona solo se nessuno si sente escluso. Possiamo scrivere una nuova epica dove gli eroi sono le persone normali come noi, non gli Avangers, le squadre speciali, i figli umani degli dei. Persone normali che ogni mattina mettono i piedi giù dal letto e fanno bene quello che devono fare. 
Persone che con le cose che pensano e che fanno danno voce al bisogno di dare più valore al lavoro e meno valore ai soldi, più valore a ciò che sappiamo e sappiamo fare e meno valore a ciò che abbiamo.
Assieme possiamo cambiare l’Italia amico mio, possiamo farlo davvero, non è un sogno. Il sogno è quando si sogna da soli, quando si sogna in tanti ha inizio la realtà.

 
Post Scriptum
Una precedente edizione di questo articolo è stata pubblicata il Primo Dicembre 2016