Cinque parole per il presente

Napoli, 11 Novembre 2021
Caro Diario, come sai ogni tanto mi piace fare un tutto nel passato, riscoprire e rilanciare idee e possibilità. Questa volta ho pensato di rimettere le mani su un articolo del 2015 in cui ho raccontato cinque parole – lavoro, persone, territorio, innovazione, internet – che ancora in questo declinante 2021 continuo a considerare importanti per il nostro presente. Come ti ho detto rimettere le mani, non stravolgere, altrimenti è meglio scrivere un nuovo articolo. Detto ciò, aggiungo che le parole sono materia viva, cambiano, e con esse esse cambiano le priorità, se per esempio avessi scritto questo articolo il mese scorso avrei messo al primo posto una parola che nel 2015 non ho considerato, Ambiente, della quale oggi nessuno di noi può fare a meno. Per ora è tutto, quando puoi leggi, scrivi le tue parole e inviale a partecipa@lavorobenfatto.org come hanno gia fatto a suo tempo Laura Ressa, Roberto Salvato, Osvaldo Cammarota, Claudio Cipollini e Dunia Pepe. Mi piacerebbe che, insieme a te fossero in tante/i a partire dalle proprie parole per raccontare l’esperienza del proprio lavoro, del proprio territorio (città, comunità, distretto), della propria bottega, della propria azienda. Buona partecipazione.

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1. È tempo di strategia, non di tattica. Una strategia per un Paese consapevole che al tempo di internet lo sviluppo è legato come mai prima alla capacità di innovare a ogni livello. Gli innovatori sono i profeti, gli interpreti, della nuova fase, e come i marinai sulla barca di Neurath imparano ad aggiustarla mentre navigano in mare aperto.
Questa Italia ancora non c’è eppure non possiamo farne a meno.
Il nostro Paese allunga l’ombra del futuro sul suo presente se promuove ambienti favorevoli a uno sviluppo più equo e sostenibile, se individua e mette in campo le energie per fornire una diversa struttura portante e ricollocare in un nuovo sistema di relazione le parole, le idee, i concetti, le decisioni, le azioni finalizzate al cambiamento. A partire da lavoro, persone, territorio, innovazione, internet.
Lavoro come valore intorno al quale ricostruire l’etica e l’identità nazionale. Il carattere di un Paese che non si rassegna al declino. Il tratto distintivo in grado di riconnettere classi dirigenti e cittadini. Il sistema di relazioni capace di dare impulso e governare la trasformazione culturale, sociale ed economica di cui abbiamo bisogno.
Persone come le donne e gli uomini che ogni giorno – con la loro capacità di apprendere e di fare, di creare e scambiare conoscenza, esplicita e tacita, e di metterla a disposizione delle organizzazioni con le quali con varie modalità e diverse finalità interagiscono – possono contribuire a migliorare la capacità di attrazione, di competizione e di collaborazione del sistema Paese.
Territorio (città, comunità, distretto) come contesto (ambito, background, palinsesto) economico sociale aperto e interconnesso in grado di tenere assieme lavoro e innovazione, di tenere assieme maestria e bellezza, di dare unicità, valore, vantaggio competitivo alla via italiana al lavoro, alla creazione d’impresa, allo sviluppo, liberando la cultura d’impresa dal vincolo della trasmissione familiare, moltiplicando le sue risorse, valorizzando il merito.
Innovazione come approccio, come idea guida che si fa cultura, azione, sistema. Come capacità di creare nuove conoscenze, di ridefinire i problemi, di ricreare i contesti, di individuare soluzioni inedite o comunque diverse dalle precedenti, di determinare e cogliere opportunità. Come risposta alle novità ambientali e all’attività di selezione caratteristiche del processo innovativo (eliminazione delle organizzazioni più deboli in uno specifico contesto, sopravvivenza di altre, nascita di nuove realtà). Come leva in grado di moltiplicare la capacità di competizione e di internazionalizzazione delle botteghe, delle aziende, dei settori, dei distretti, dei territori italiani. Come via per ammodernare la PA, qualificare e migliorare i servizi alle persone, alle comunità, alle imprese. Come opportunità per ampliare la capacità delle persone di adattarsi alle novità ambientali, di apprendere nuove abilità.
Internet come ecosistema, ambiente in grado di radicare, connettere, accelerare, valorizzare le risorse, umane e tecnologiche, materiali e immateriali, disponibili. Di creare opportunità, coglierle e dunque moltiplicarle. Di coltivare nei campi del presente (agricoltura, industria, terziario, pubblica amministrazione)  i semi per far crescere il futuro (internet delle cose; internet dell’energia; internet delle città; internet del valore).

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2. Leggendo un po’ di questi miei pensieri in giro per il web, il mio amico Francesco Escalona mi ha scritto «Vincenzo, se è così, abbiamo già perso», poi io gli ho detto che magari ha senso provarci in ogni caso e lui quasi si è scusato, perché la voglia di futuro gli scorre potente nelle vene, e allora gli ho scritto che no, niente scuse, perché in fondo ha ragione anche lui, è un cammino complicato quello che ci aspetta.  Ne abbiamo chiacchierato – nei modi in cui si chiacchiera al tempo dei social network – ancora un po’ e poi abbiamo deciso che sì, si può fare, o almeno ci si può provare. Per esempio mettendo al centro i territori (città, comunità, distretti), le loro culture, le loro storie. Investendo nella scuola, nella formazione, nella ricerca. Dotando il paese di una politica per l’innovazione. Sostenendo la transizione delle PMI e delle imprese artigiane verso l’economia digitale. Investendo nella capacità e nella voglia di fare dei maker, degli startupper, degli artigiani italiani. Incentivando la capacità di proposta e di supporto alle decisioni a livello locale.
Non è facile, ma si può fare. Valorizzando le culture, le storie, le competenze che da secoli caratterizzano il territorio (città, comunità, distretti), il lavoro, l’impresa, le botteghe italiane. Facendo dell’Italia un Paese più capace di condividere una visione, di innovare, di competere, di attrarre, di internazionalizzare, di creare opportunità. Un Paese con più rispetto di sé. Che crede di più nel suo futuro. Che ha voglia di fare bene le cose, di fare cose belle.
Fare bene le cose, fare cose belle come terreno intorno al quale formare – partendo dal lavoro e dal suo valore – una nuova classe dirigente, una nuova visione della cittadinanza, il nuovo corso italiano.
La capacità di innovare, di fare bene le cose, di fare belle le cose è parte del Dna del nostro Paese. Al tempo di internet può diventare il tratto distintivo del lavoro italiano, il valore aggiunto del sistema Paese, il nostro vantaggio competitivo nel mondo. Fare bene le cose, fare cose belle non è solo un modo giusto, etico, sociale di fare le cose, è anche e soprattutto un modo necessario, razionale, conveniente. E aggiungo che a pari condizioni, quali che siano le condizioni, le persone che scelgono di fare bene quel che devono fare sono più sereni, più soddisfatti, più in grado di ideare strategie e di adottare comportamenti, individuali e collettivi, in grado di migliorare la loro condizione lavorativa, e dunque vivono vite più degne di essere vissute. A me lo spazzino di Sennett che ripercorre la strada a ritroso ed è orgoglioso di averla pulita così bene dice questo. Gli insegnamenti di Paul Jobs al figlio Steve sulla necessità di fare bene anche la parte di dietro della staccionata o dell’armadio – nonostante siano nacoste alla vista – dicono questo. Pavese, Levi, Péguy e tanti altri dicono questo. Le storie delle persone che  racconto su queste pagine dicono questo. E mio padre questo mi diceva quando mi raccontava che era grazie al fatto che lui il lavoro lo pigliava di faccia che la sera, quando metteva la testa sopra al cuscino, era contento.

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3. Le nazioni, i territori, i sistemi produttivi, le botteghe, le aziende più competitive, più innovative, più remunerative sono quelle che sanno leggere di più e meglio le relazioni tra le persone e le organizzazioni, e i loro significati, dal punto di vista della conoscenza.
Anche nella crisi vince chi innova, chi sa scrutare i segni del tempo, chi sa capire prima degli altri che per competere meglio e crescere di più occorre investire in capitale umano, nuove professionalità e competenze, formazione, ricerca, chi insomma sa scegliere la strada della competizione di livello alto, dello sviluppo che valorizza imprese e territori, città e distretti (culturali, sociali, produttivi) che diventano sempre più competitivi perché sanno sempre più pensare e agire come comunità di interazione che incarnano altrettanti nodi di elaborazione, di comunicazione e di scambio del sapere e del saper fare. L’Italia che ce la fa è l’Italia dell’intelligenza collettiva, della bellezza che diventa ricchezza, della cultura che diventa sviluppo, della storia che diventa futuro.
La valorizzazione dei territori (città, comunità, distretti) è in questo contesto la chiave per fare dell’Italia dalle mille e mille città l’Italia dalle mille e mille opportunità.
Innovazione, bellezza e lavoro ben fatto sono i motori del nuovo corso italiano, come assett, tratto distintivo, vantaggio competitivo dei territori (città, comunità distretti) italiani.
Incardinata intorno al territorio (città, comunità, distretto) intelligente (smart) la rivoluzione industriale cominciata con internet delle cose (industrial internet, industria 4.0) e internet dell’energia (riorganizzazione efficiente degli edifici, riorganizzazione del sistema dei trasporti pubblici, utilizzo prioritario dei beni collettivi rispetto, tutela dell’ambiente, produzione e smaltimento dei rifiuti) può avere nel nostro Paese caratteristiche e potenzialità senza eguali al mondo.

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4. L’Italia cambia pagina se cambia la sua cultura, il suo approccio al modo di fare e pensare le cose.
Vale per le istituzioni, per la PA, per le rappresentanze sociali, e dunque per le leadership e le classi dirigenti, ma vale anche per la società di mezzo, per i cittadini e i lavoratori, naturalmente ciascuno con le proprie prerogative e  responsabilità.  Per me è da qui che bisogna partire se vogliamo dare più senso, maggiori possibilità, alla scelta di mettere al centro del processo di cambiamento il valore del lavoro e dell’innovazione, le opportunità legate a internet, la qualità dello sviluppo.
Non basta più provare, si può soltanto fare, o non fare.
Partendo dalla scuola, dalla formazione e dalla ricerca e puntando sul lavoro, sull’impresa e sul territorio. Per mettere a valore il sapere e il saper fare delle persone, la conoscenza esplicita e tacita delle organizzazioni, la storia delle comunità e delle città, la cultura e la capacità di relazione del nostro Paese.
In Italia la rivoluzione chiamata internet può avere insomma più senso e significato, soprattutto può produrre più risultati, se nelle mille e mille differenze che caratterizzano il patrimonio agricolo e industriale, la pubblica amministrazione, i servizi, le città e i territori, si riesce a non perdere di vista la ghianda dell’innovazione e della creatività, il daimon del lavoro ben fatto. Se, nelle grandi, medie, piccole e piccolissime “botteghe” del nuovo rinascimento italiano si torna a pensare, e a fare, con la consapevolezza che “ciò che va quasi bene non va bene”.
È utile non perderla di vista questa priorità, perché può essere la chiave di possibilità della svolta, il background a partire dal quale l’Italia può farcela. Perché il cambiamento non è semplice e tanto meno scontato, ma se è sorretto da questa cultura, da questo approccio, ha più possibilità di trasformarsi in pratica, in agire condiviso, e farsi sistema. 
Creatività, bellezza  e lavoro ben fatto. E l’Italia va.

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Osvaldo Cammarota, 12 Novembre 2021
Caro Vincenzo,  ho pensato che le parole – nella babele di linguaggi, di diverse percezioni e uso – sono già tante e rendono la comunicazione ancor più complessa, fino a farne diluire il senso in un frastuono di suoni che rende povera la Comunic-Azione, tra e delle persone.
Mi sono posto il problema di semplificare senza superficializzare e sono giunto alla idea di ricondurre da cinque a due parole che riproponi: persone e territorio.
In effetti le persone e i territori sono soggetti, fanno gerarchia sulle altre parole che possiamo considerare azioni. Il Lavoro, l’Innovazione, Internet non esisterebbero senza persone e territorio. E c’è un nesso inscindibile tra persone e territorio: le prime sono forgiate dai caratteri delle loro terre; le terre risultano più o meno agibili a seconda delle qualità di chi lo abita.
Ma andiamo con ordine.
Mi rendo conto che già considerare il territorio come “soggetto”, per molti, può sembrare un azzardo. Questa percezione la devo al mestiere (lo ammetto, atipico) che svolgo ormai da trent’anni. L’Operatore di Coesione e Sviluppo Territoriale, infatti, legge il territorio come un organismo produttore complesso in cui tutte le attività umane contribuiscono: al suo sano sviluppo o alla sua rovina. Il territorio, nella sua ampia accezione di aria, acqua, terra, patrimonio biologico, … è fragile e instazionario; lo abbiamo meglio imparato con il Covid.
Il Lavoro delle persone, dunque, dovrebbe essere sottratto al triste destino di “merce” e ri-nobilitato come servizio reso al territorio e alle comunità (… e se benfatto è meglio).
Veniamo alle persone. Come si formano? Come vivono? È innegabile che la diversità di caratteri delle persone (i calabresi, i siciliani, i sardi, i napoletani, gli emiliani, i lombardi, i piemontesi, … e così via) ha radici e alimento nelle rispettive terre. Ma cosa può contribuire a cambiare il destino di Terre e Persone? Attenzione, non sottovaluto affatto gli effetti della globalizzazione omologante, del predominio del capitalismo selvaggio, … etc, ma non voglio ripetere cose già scritte 6 anni fa.
In questi ultimi anni mi è parso di capire che il destino di Terre e Persone dipende molto dalla capacità di fare comunità andando oltre i tradizionali legami di “territorio e sangue”.
Se si riuscisse a fare comunità di scopi dentro l’orizzonte di una comunità di destino che -a quanto pare- interessa una più ampia umanità, forse (dico forse) riusciremmo a ricostruire un tessuto sociale che si è smagliato con la crisi delle rappresentanze e della democrazia.
Caro Vincenzo, non voglio appesantire e concludo con una metafora in cui mi incarno. Sono nato e cresciuto a Posillipo, ho imparato i mestieri di pescatore, marinaio, carpentiere e altri. Nella mia vita non sono mancati dolori, ma Posillipo significa “tregua dal pericolo”, “pausa dal dolore”.
Possiamo archiviare questo passato che non passa, metabolizzare il dolore delle tante sconfitte e fare comunità per proseguire la nostra navigazione verso orizzonti più felici?
È pur vero che non tutti hanno avuto la fortuna di crescere a Posillipo, ma questo luogo è nella stessa Terra che calpestiamo. Si può globalizzarne lo spirito “oltre i legami di territorio e sangue”?

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Laura Ressa
Caro Vincenzo, parto da una parola che dà vita e vigore a tutte le altre: Persone.
Questa non è solo una parola, anche se spesso pensiamo che esista solo quando la mettiamo nero su bianco e a volte ci dimentichiamo che le persone sono quelle fatte di carne, ossa e motivazioni, spunti, inventiva, storie da tramandare.
Partiamo dal presupposto che anche queste nostre parole devono tradursi in azioni, altrimenti non ha senso divulgarle. Ecco quindi un fatto concreto, di quelli che puoi toccare. Ogni giorno, non per un mio merito particolare, mi sforzo di mettere il mio lato personale in ciò che faccio e soprattutto nel rapporto con le persone con cui interagisco. Cerco di essere onesta nei limiti della buona educazione, scherzosa nei limiti della sensibilità altrui, riconoscente (in privato e pubblicamente) verso chi mi suggerisce una buona idea o ha qualcosa da insegnarmi.
Mettere al centro le persone nel proprio operato è un obiettivo spesso vero solo a metà: a parole siamo tutti empatici e attenti al cosiddetto valore umano, di fatto non sempre sappiamo che l’aggettivo “umano” può essere anche inteso nelle sue sfaccettature negative. Se non conosciamo la materia, dunque, difficilmente riusciremo ad applicarla poco più in là delle parole, là dove termina il capoverso scritto e comincia la vita reale. Il confine tra dire e fare è un buco nero che ci inebria e a volte ci risucchia.
Cosa accade se scriviamo e diffondiamo l’idea che le persone per noi sono importanti e, invece, nei fatti poniamo sempre poca cura nelle relazioni? E, attenzione, relazione non è “io faccio un favore a te, tu ne fai uno a me”, relazione non è partecipare a corsi o eventi solo per avvicinarci a un mondo che magari invidiamo ma che non ci appartiene ancora, relazione non è stringere la mano a persone che non stimiamo solo per essere ammessi in una cerchia nella quale vorremmo ardentemente entrare. L’obiettivo in tutti questi casi non sono più le persone ma la possibilità di avvicinarci a un ideale, a un’immagine riflessa di noi stessi a cui vorremmo somigliare ma che non corrisponde a ciò che siamo.
Un’altra parola per il presente potrebbe essere quindi Corrispondenza: corrispondenza tra il dire e il fare, tra il sembrare e l’essere. Due aspetti che si somigliano nel concetto di fondo ma che sono dissimili nei risultati finali. La differenza può essere difficile da cogliere.
Cosa faccio affinché le mie parole non restino vere solo nel mondo dorato del foglio o nelle dolci parole di un testo? Nulla di eccezionale: scrivo senza fingere di essere qualcos’altro, come si faceva sui fogli di appunti o sui diari. Lo faccio in uno spazio che non dia suggerimenti o to-do list ma si ponga, in casi fortunati, come un ponte per arrivare agli altri. Creare legami e relazioni proficue significa stimarsi a vicenda, conoscere il valore dell’altro, sapere che nelle parole scritte e divulgate c’è sempre un fondo di verità, concretezza e corrispondenza con la realtà.
Se partiamo da questo presupposto, ogni attività (personale o lavorativa) assume un senso e ci migliora.
In quante occasioni mettiamo prima la faccia e poi, se c’è spazio, la sostanza? L’obiettivo per il presente potrebbe essere costruire una comunità di persone, ristretta e poi sempre più ampia, che non badi solo al fuori ma al dentro. Quello vero però, perché di profondità vuote ne abbiamo troppe e sento che è giunto il momento di liberarcene, anche in quei contesti in cui la genuinità può sembrarci un obiettivo privo di appeal.

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Roberto Salvato
Ciao Vincenzo e grazie per avermi “tirato in mezzo”. Parto da quello che scrivi perchè è il mio cavallo di battaglia, il mio mantra e quello che cerco di mettere in pratica: non basta più provare, si può soltanto fare o non fare. E io ho deciso di fare. Cosa precisamente? Costruire ponti tra il mondo dell’impresa, con i suoi linguaggi e le sue prassi, e il mondo del “sociale”, con i suoi linguaggi e le sue prassi. Perchè? Perchè sono convinto che il modello delle coop soc. al momento stia diventando sempre meno “sostenibile” e perchè credo fortemente nella contaminazione feconda che questi due mondi possono regalarsi se riescono ad entrare in contatto. Faccio fatica? Si! Le resistenze sono tantissime da una parte e dall’altra. Nessuno crede di avere qualcosa da imparare che porti realmente valore. Avendo abitato entrambe le case invece sostengo con forza che sono muri costruiti per preservare ognuno il proprio fortino. Per questo, stanco di cercare un lavoro che facesse per me ho deciso di crearmelo. Così è nata Trae-Marketing e Parole .. con Educazione. Al momento mi sento come il bufalo di cui parlavi venerdì sera a Lomello, quello che sembra destinato a soccombere rispetto alla locomotiva. Invece il mio sogno è quello di fermare il treno e di costringere gli occupanti ad accorgersi della prateria che hanno davanti. Rischio grosso, lo so, ma voglio poter guardare i miei figli e dirgli «Bambini, il vostro papà aveva un sogno e ci ha provato». Potrei fallire, lo metto in conto. Ma lo voglio fare senza avere il rimpianto di non averci provato.

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Osvaldo Cammarota
«Come si possono comprare, il cielo e il calore della terra? Per noi è un’idea strana. Se non possediamo la freschezza dell’aria e lo scintillio dell’acqua, come possiamo acquistarli?»
Che il territorio sia la ricchezza fondamentale dell’uomo è una verità millenaria. È possibile che ce ne siamo dimenticati? Non voglio sottrarre, al lettore che fosse incuriosito, il piacere di andarsi a cercare e a leggere per intero la lettera che il Capo Indiano Sealth della tribù Suwamish scrisse nel 1854 al grande “Capo bianco” a Washington. La trovo di straordinaria attualità.
Le idee dominanti del potere e dell’economia, nel secolo scorso, hanno ridotto (anche) la terra ad un bene di consumo, da sfruttare indefinitamente, fino al suo esaurimento.
I “giovani ritornanti” al lavoro della terra sono i nuovi soggetti sociali che ci riportano su questi temi. Nel pendolo, tra ambientalismo estremo e rapina della terra, c’è chi ci ricorda che essa è fonte di ricchezza e benessere per tutti, … se ne possediamo l’essenza.
La terra ha sempre dato senza mai chiedere nulla in cambio. Ma fino a quando? L’invivibilità delle città, il buco nell’ozono e le sanguinose vicende terroristiche, sembrano fenomeni assai diversi, ma hanno tutti la stessa matrice: il controllo e il consumo della terra per il massimo profitto monetario.
Le idee dominanti nel secolo scorso (crescita, efficienza, controllo) hanno portato a misurare ed esaltare la terra nel suo valore monetario. Gli effetti di questa tendenza sono stati denunciati. Nelle nostre immediate prossimità basti richiamare il documentario di F. Rosi “Le mani sulla città”; a livello globale non sono certo mancati i preoccupati allarmi, sia sugli effetti della deforestazione (in Amazzonia ad esempio), sia sui rischi della forsennata bramosia guerrafondaia per il controllo di territori e paesi produttori di petrolio.
Oggi vi è maggior evidenza dei danni procurati dal prevalere di queste idee. Sarebbe interessante approfondire questo tema, ma confido nei saperi e nelle capacità -che i lettori di questo blog certamente hanno- di connettere e cogliere le interdipendenze che moltiplicano questi effetti dannosi.
Mi sembra più interessante ritornare sulla matrice di quel comportamento che ha generato disastri per l’umanità, nel micro e nel macro territoriale. Credo che ragionare sul nesso territorio-sviluppo, sia uno degli esercizi più fecondi per capire i mutamenti che stanno attraversando il mondo.
A tal proposito dobbiamo innanzitutto porci alcune domande: 1. Il territorio è un bene di consumo, o è il bene primario per la produzione? 2. È proprio vero che la crescita sia sinonimo di sviluppo? 3. A quali esiti, a quali “risultati attesi” leghiamo la parola “efficienza”? 4. Il “controllo” è davvero il modo più efficace per liberare la potenza creativa che è –da sempre- il motore di qualsiasi processo di sviluppo?
Non ho la presunzione di dare in breve risposte esaustive a questi quesiti, ma posso qui socializzare alcune tracce di riflessione, esplorate facendo il mestiere di operatore di sviluppo territoriale. Con la comunità del #lavorobenfatto, coltivo la suggestione che, operando nel micro, si possano meglio trovare le ragioni per modificare comportamenti dannosi per l’intera umanità.
La terra è un bene primario per la produzione, e non è riproducibile. È da imbecilli consumare qualcosa che non si è in grado di produrre.
Il territorio può essere concepito come un soggetto produttore complesso, costituito da elementi materiali e fattori immateriali. I primi sono dati in natura (le montagne, le valli, le pianure, l’acqua, l’aria, …) o costruiti (le strade, i ponti, le macchine, le comunicazioni, …); i secondi, considerati di tipo immateriale, costituiti dagli umani (i saperi, il saper fare, la cultura, la conoscenza, …). Il territorio è un insieme inscindibile di tutto ciò, ma la furia cieca del profitto ha spesso distrutto i fattori immateriali.
Per brevità dirò che senza il sapere degli umani, gran parte degli elementi materiali sono inutilizzabili a fini di sviluppo, ma ciò non ha impedito di usarli intensamente per la crescita finanziaria, il che non è la stessa cosa.
A riconoscere che la crescita non sia sinonimo di sviluppo sono le Nazioni Unite che, dal 1993, per valutare lo sviluppo, ha ritenuto insufficiente il Prodotto Interno Lordo -calcolato esclusivamente su parametri monetari- e ancor meno attendibile il PIL pro-capite, che, pensate un po’, è l’immensa ricchezza dei pochi detentori di capitali, divisa (ma solo sulla carta) per le centinaia di migliaia, milioni di abitanti di ciascun paese. Con l’Indice di Sviluppo Umano (ISU e sue evoluzioni), invece, si intende misurare la qualità della vita, dell’acqua, dell’aria, la parità accesso ai diritti umani e alle opportunità, … .
Ci son voluti ben 139 anni per interpretare il messaggio del Capo Indiano Sealt, ma, in tutta sincerità, abbiamo ancora dubbi che sia stato capito davvero nel suo significato profondo.
I dubbi generano nella nostra vita quotidiana, quando ci sentiamo definire “clienti”, “consumatori”, “fornitori”, “prestatori d’opera”; … tutte definizioni asettiche, che separano l’umanità dai suoi saperi e dalla sua intelligenza e tendono ad un modello di “efficienza finanziaria” elevato a stile di vita.
In questa ottica, volendo tornare al territorio, poco importa se i prodotti della terra siano salubri e nutrienti, poco importa se per sfruttare la rendita fondiaria di un suolo si devia un fiume o si costruisce in ambienti a rischio idrogeologico, poco importa se l’inquinamento e la guerra uccidono persone innocenti.
Se il “risultato atteso” è l’efficienza finanziaria, il “Dio degli uomini”, qualunque esso sia, cede alla forza selvaggia del dio-denaro.
Se intendiamo l’efficienza come efficacia nel raggiungimento di obiettivi di Sviluppo Umano, dovremmo tutti convenire che il liberismo selvaggio ha portato ad una crisi di sistema. Non è una crisi di passaggio, è una crisi strutturale che ci porta a ragionare sui fondamenti dell’economia, a riconsiderare i paradigmi che, sin ora, ci hanno influenzato negativamente, ad esempio l’idea di poter accumulare denaro con il denaro, trascurando del tutto il valore del lavoro e della produzione di beni e servizi di qualità.
Credo che la sfida del nostro tempo sia di ridare senso alla parola “sviluppo” e, dunque, dare a ciascuno dei fattori materiali e immateriali, il giusto ruolo e il giusto riconoscimento nei processi di produzione, accumulo e distribuzione della ricchezza.
In questa fase, probabilmente, andrebbero meglio considerati i fattori immateriali: i saperi, l’intelligenza, la passione, la creatività diffusa, la potenza delle nuove tecnologie di comunicazione, piuttosto che il loro “controllo”.
Una conferma in tal senso ci viene dalle tante esperienze che conosciamo attraverso il blog #lavorobenfatto e, volendo stare sul tema del territorio, dai giovani ritornanti al lavoro della terra.
Questi nuovi soggetti sociali intrecciano con creatività terziaria: il turismo, le produzioni tipiche, le culture e tradizioni dei luoghi, la promozione del paesaggio e dell’ambiente, … insomma fanno un uso razionale e sostenibile della terra e delle molteplici risorse che essa dona generosamente per la vita dei suoi abitanti e ci riportano alla concretezza dell’economia reale-territoriale.
Tale creativo ripensamento del territorio come risorsa, è una traccia di lavoro di più ampie suggestioni, suggerisce nuovi paradigmi per lo sviluppo, sollecita gli uomini e le donne a concepire il lavoro come prodotto non separato dalla loro intelligenza, come fattore di emancipazione sociale ed economica.
È triste doverlo dire. Avremmo dovuto meglio ascoltare quanto ci ha detto il Capo Indiano Sealth tanti anni fa. Forse avremmo imparato a possedere la freschezza dell’aria e lo scintillìo dell’acqua … ma non è mai troppo tardi.

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Claudio Cipollini
Concordo con gli approcci proposti e delineati, sollevando una criticità che a mio avviso rappresenta un enorme macigno che impedisce all’acqua pura dell’innovazione di scorrere giù nella valle dello sviluppo sostenibile. Mi riferisco al macigno dell’ignoranza digitale. Un’ignoranza che si porta dietro quella sistemica, la complessità, la velocità e molti di quegli elementi che oggi è domani creano i presupposti dell’innovazione per le imprese, la PA in primis. Ritengo che smuoverlo, sbriciolarlo, sia una priorità assoluta , alla quale non vedo, sento e percepisco la dovuta attenzione.

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Dunia Pepe
Ciao Vincenzo, rispondo con interesse alle tue riflessioni ed alle tue domande sulle possibilità di crescita per il nostro Paese, sul fatto che crescita ed innovazione possono derivare solo da visioni e da strategie sistemiche di intervento. «Il Paese – come scrivi tu stesso – allunga l’ombra del futuro sul suo presente se promuove ambienti favorevoli allo sviluppo, se individua e mette in campo le energie per fornire una diversa struttura portante e ricollocare in un nuovo sistema di relazione le parole, le idee, i concetti, le decisioni, le azioni finalizzate allo sviluppo. A partire da internet, innovazione, territorio, lavoro, persone».
Come puoi ben immaginare Vincenzo, la risposta alle tue sollecitazioni è legata alle mie ricerche sul tema del rapporto tra innovazione, occupabilità soprattutto giovanile e dinamiche di democratizzazione della società civile. Da un po’ di tempo infatti sono intenta a studiare associazioni ed esperienze che hanno saputo creare inclusione in ambiti socialmente rilevanti quali la formazione, l’istruzione e il lavoro soprattutto giovanile; la digitalizzazione e l’informazione; la povertà e l’emarginazione sociale; la cura dei territori e dei beni comuni.
La caratteristica comune a queste diverse esperienze è la loro natura innovativa e questa è legata, nella mia prospettiva, all’approccio sistemico da esse adottato; vale a dire alla loro capacità di intervenire allo stesso tempo su diverse variabili del contesto di riferimento: il capitale umano, il capitale sociale, il territorio, la connettività. Proprio in virtù del loro approccio sistemico, queste iniziative non solo creano innovazione nei contesti interessati ma finiscono anche per coinvolgere diverse fasce della popolazione, comprese quelle che vivono in situazioni difficoltà o di marginalità.
In termini teorici, mi piace esprimere questo aspetto dell’innovazione sociale facendo riferimento al bel libro di Claudio Cipollini: La mano complessa, del 2012. “La società contemporanea, osserva l’autore di questo libro, presenta nuovi scenari caratterizzati da forti e significative interconnessioni sia tra le dinamiche relative ai sottosistemi che alle relazioni dell’intero sistema sociale con il mondo esterno. Così come accade nell’ambito della produzione e del lavoro, anche in quello degli interventi e della progettazione sociale, il passaggio dalla società industriale alla società postindustriale ci obbliga ad uscire da una logica lineare e ad abbracciare una logica sistemica. Proprio per questa ragione, qualsiasi progetto o intervento se vuole avere una possibilità di successo deve muoversi in una logica multidisciplinare e sistemica”. Anche quando parliamo di progetti e di interventi per l’innovazione muoviamo dal presupposto che questi non possono riguardare una sola area di intervento, uno specifico settore di sviluppo e di crescita, ma un modello di sviluppo economico e sociale che interessa al tempo stesso l’istruzione, la formazione ed il lavoro; la pubblica amministrazione e le imprese private; l’esistenza dei giovani e quella degli adulti; la qualità della vita nei territori urbani ed extra urbani.
Molti studiosi, tra cui quelli impegnati negli Stati Generali dell’Innovazione – SGI – come Flavia Marzano e Nello Iacono, auspicano l’evoluzione delle comunità verso il modello della smart comunity definendola come una realtà caratterizzata dalla combinazione intelligente di diversi fattori: economia, mobilità, governance, vita, cittadini, ambiente, istruzione, formazione, lavoro. «Nella smart community, è scritto nella Carta di intenti per l’innovazione pubblicata nel 2013 da SGI, le relazioni non si esauriscono nei confini fisici; la qualità della vita dei city-user è l’indicatore predominante e l’obiettivo principale; i servizi sono centrati sulle esigenze delle persone; le politiche sono caratterizzate da volontà di apertura e integrazione».
Il concetto di innovazione, non fa riferimento dunque solo alle tecnologie, ai sensori, alla possibilità di trattare simultaneamente grandi quantità di dati, né soltanto alle infrastrutture materiali ed immateriali, alle iniziative dei cittadini e delle amministrazioni pubbliche o ad attività intraprese dalle comunità imprenditoriali o dal mondo accademico. Perché ci sia innovazione appaiono fondamentali i processi di formazione, di apprendimento collettivo, di sviluppo delle conoscenze e dei saperi che si scambiano e si costruiscono nella vita degli uomini e nella storia delle società. Proprio grazie ai processi di apprendimento, crescita ed innovazione si costruisce una città o una comunità intelligente intesa in una prospettiva sistemica, vale a dire «sia come struttura connettiva – aperta, consapevole e finalizzata – sia come struttura adattiva, capace di generare dati e conoscenza e di far evolvere i propri comportamenti».
Il tratto distintivo della società della conoscenza, scrivono Gianluca Cepollaro e Giuseppe Varchetta nel libro La formazione tra realtà e possibilità, del 2014, è la centralità dei nessi tra alcune variabili fondamentali: innovazione, tecnologia, conoscenza, formazione, partecipazione, concertazione, sussidiarietà. La relazione tra questi fattori, scrivono i due autori, non è sequenziale ma circolare, nel senso che può dar vita ad un circolo virtuoso grazie al quale la crescita della conoscenza favorisce sia lo sviluppo produttivo che lo sviluppo delle tecnologie e ne viene, a sua volta, alimentata. In questo gioco di variabili, la conoscenza non solo occupa un posto essenziale ma si configura come un bene relazionale nel senso che diventa tanto più utile quanto più si diffonde.
Per l’uomo di oggi, osservano i due autori, ne deriva la necessità di muoversi in ‘un’epistemologia dell’intermedio’, che lo costringe ad attraversare in continuazione mondi diversi, confini tra interno ed esterno, tra senso della realtà e senso della possibilità, tra rispetto dei vincoli e libertà di progettazione. Uno spazio di continua e reciproca interazione tra individui e contesto. All’interno di questo universo reticolare ed in continuo cambiamento assumono un valore centrale la conoscenza, il diritto all’apprendimento permanente, la formazione alle competenze ed alle competenze digitali quali strumenti di inclusione sociale e chiave di accesso al diritto di cittadinanza sostanziale.
Piero Dominici nell’articolo Globalizzazione e società della conoscenza: un duplice livello di analisi pubblicato nel 2015 nel suo Blog Fuori dal Prisma scrive che la crescita dell’informazione, della comunicazione e della conoscenza nella società contemporanea rende possibile anche la crescita di nuovi spazi della società civile, la nascita di una nuova etica del vivere sociale, della sfera pubblica, della stessa politica. Laddove aumenta la comunicazione, aumentano anche «… la consapevolezza ed il riconoscimento dei ‘diritti di cittadinanza globale’ ed il bisogno di riduzione delle drammatiche disuguaglianze presenti nel sistema-mondo… La società dell’informazione e della conoscenza… rappresenta la speranza – per molti versi, la nuova utopia – di dar vita ad un ‘progetto’ di globalizzazione etica, più responsabile e solidale che, nonostante le dimensioni, tuttora preoccupanti, del digital divide, trova i suoi punti di appoggio – le sue leve – proprio nella conoscenza e nella comunicazione globale».
La conoscenza, osserva lo stesso Dominici, si definisce sempre più come un bene comune. La diffusione delle tecnologie e lo sviluppo delle tante reti di interazione sociale nel momento in cui determinano la circolazione delle conoscenze favoriscono anche lo sviluppo delle culture, l’ampliamento degli spazi del sapere «… a maggior ragione in una fase culturalmente segnata… dall’esigenza forte, a nostro avviso di un nuovo umanesimo per la società interconnessa che rimetta la Persona al centro».